CASCIOTTI (Casciotto, Casotti, Caciotti, Cagiotti), Bartolomeo
Nacque agli inizi del sec. XV in Firenze. Nulla sappiamo della sua infanzia e della sua giovinezza, fino al momento in cui le fonti lo ricordano a Padova, in ambiente universitario, occupato quasi sicuramente in studi umanistici e letterari. Delle sue conoscenze padovane resta un segno nella breve commemorazione in prosa da lui scritta in memoria di Niccolò Adimari, studente di diritto e appassionato cultore di poesia, morto diciottenne nel 1419 (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Cod. lat. XIV 218 [= 4677], f. 43r). Un grave fatto di sangue avvenuto in Padova, e nel quale il C. si trovò coinvolto, determinò il suo esilio perpetuo da Firenze. In una rissa con Niccolò Villani, benché ferito, egli riuscì a disarmare e a colpire alla testa e in altre parti del corpo l'avversario, così da provocare a quest'ultimo una menomazione fisica permanente (diventò zoppo, come si trae da una lettera di Carlo di Cosimo de' Medici, datata da Ferrara il 28 nov. 1447). Le conseguenze di questa lite, di cui peraltro ci sono ignoti i motivi, tennero poi per sempre lontano dalla città natale il C., esule forse più per forza di cose e per il timore di logiche vendette che per un bando ufficiale, di cui comunque non ci è rimasta notizia.
Nel 1427 si trovava a Verona, alla scuola del Guarino (se è proprio lui il "vir insignis et amicus optimus Bartholomaeus noster": Guarino Veronese, Epistolario, a cura di R. Sabbadini, Venezia 1915-19, I, p. 569). Nell'ambiente fervido di cultura che si era creato attorno al grande umanista poté perfezionare i suoi studi ed entrare in rapporto con distinti personaggi dell'epoca: scrivendo a Giovanni Boscolo il 1° apr. 1427, ne levava riconoscente le lodi e gli ricordava di scrivere a Niccolò Soderini, al quale il C. sarebbe rimasto legato (ibid., III, pp. 213 s.).
Nella primavera del 1429 si trasferì a Ferrara insieme col Guarino; e nella città si trattenne per qualche tempo, alle dipendenze del protettore, che gli aveva affidato l'incarico di copiare le opere di diversi autori latini (Giustino, Atanasio, Plinio il Giovane, Livio). Il lavoro di trascrizione, ostacolato dalla peste che obbligò il giovane a continui ed improvvisi spostamenti per la Romagna, non fu tuttavia condotto con scrupolo eccessivo. In un primo momento il Guarino poteva - è vero - assicurare il canonico Filippo Regino che il C., "homo primarius et tui certe amantissimus, non minus sponte sua tuae voluntati morem. gerere ardet quam ipse tu"; ma in seguito del discepolo - che si era nel frattempo rifugiato a Ravenna e lì era stato colpito dalle peste (giugno 1429) - rilevava dispiaciuto e offeso il mancato adempimento degli impegni presi. Perciò invitava il Regino a non incolpare Antonio Bresciano per la trascrizione lenta e laboriosa del Giustino, quanto piuttosto il C. (lettera da Argenta del 7 sett. 1429); e un mese e mezzo più tardi, il 27 ottobre, da San Biagio d'Argenta scriveva di non aver incaricato il C. di copiargli opera alcuna, allo scopo di permettergli di ultimare più rapidamente il lavoro già affidatogli da altri committenti, e precisava che Bartolomeo sin'allora aveva trascritto solamente una Decade di Tito Livio. In una successiva lettera da Ferrara del 25 dicembre di quello stesso anno il Guarino informava il Campesano di non sapere dove fosse finito il Casciotti. In tutta questa vicenda - a proposito della quale il Guarino lamentava anche la perdita di un vestito (tunica, pannus), dato evidentemente al C., allontanatosi nel frattempo da Ravenna, in credito del lavoro non ancora ultimato, e ricordava che l'ingrato era stato gratuitamente mantenuto in casa sua per un periodo di ben sei mesi (Guarino, Epistolario, II, pp. 3, 8, 40, 60 s., 83; III, ibid. 1919, p. 267) - il C. appare come uomo profittatore e poco onesto; tuttavia, la mancata consegna dei lavori commissionatigli potrebbe venir spiegata anche dall'epidemia di peste che finì col bloccare il giovane amanuense in Ravenna, impedendogli di far fronte ai suoi impegni.
Per il ventennio successivo poco sappiamo di sicuro, ma è probabile che il C. intorno al 1430 si sia nuovamente stabilito a Ferrara. Non sappiamo, per il silenzio delle fonti in nostro possesso, se, una volta rientrato nella città estense, egli abbia ripreso e continuato ad avere rapporti col Guarino. Certo è che, tra il 1444 e il 1447, egli intensificò le sue relazioni con gli amici fiorentini nell'intento di farsi riammettere in patria (questo sarebbe un indizio per affermare che a Ferrara non si trovava troppo bene). Suo uomo di fiducia fu in un primo momento Leonardo Dati, che in proposito inviò al C. almeno tre lettere latine (L. Dati, Epistolae XXXIII, a cura di S. Salvini-L. Mehus, Firenze 1743, nn. XXV, XXVIII, XXIX).
Nella prima, datata 8 dic. 1444 e responsiva a una inviatagli dal C. il 30 ottobre di quello stesso anno, il Dati informava l'amico esule che Cosimo il Vecchio si era interessato al problema, ma che a Firenze non era giunta in proposito nessuna nuova da parte di Borso d'Este; e lo assicurava che si sarebbe incontrato con Cosimo dopo aver stabilito con Antonio Mariani e con Leonardo Giorgi il da farsi. Nella seconda, del 23 dicembre successivo, il Dati gli faceva la relazione dei colloqui avuti con i due amici ricordati nella lettera precedente, e con Cosimo il Vecchio; lo invitava quindi a rivolgersi personalmente a Cosimo, per il tramite suo, e a Borso d'Este. Il 21 luglio 1445, infine, gli annunciava che a nulla erano valsi - nonostante l'intervento di autorevoli personaggi - i passi in suo favore compiuti da Giovanni di Cosimo de' Medici: l'ostacolo maggiore era pur sempre costituito dall'atteggiamento intransigente di Niccolò Villani, che non voleva né dimenticare né perdonare. Il Dati, facendo proprio il segreto tormento del C., esortava quest'ultimo a non disperare e ad avere fiducia in Dio. La lettera si conclude con la raccomandazione di salutare a suo nome il comune amico "Mangiono", da identificarsi forse con quello lacopo Filippo Mazono, che ricorre nell'epistolario del Casciotti.
Due anni più tardi Carlo, figlio naturale di Cosimo il Vecchio, fece un secondo e ultimo tentativo per far rientrare il C. in Firenze. In una bella lettera in volgare, inviata il 28 nov. 1447 da Ferrara, informava il fratello Giovanni, anch'egli interessato al problema, che per il tramite di "uno nostro fiorentino" (forse il Dati) il C. aveva ricevuto un messaggio di Cosimo, e gli dava assicurazioni che Borso d'Este si sarebbe occupato seriamente della questione (questa lettera è stata pubblicata da F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, classe di filosofia e storia, XIV [1891], pp. 757 s.). Il 13 dicembre successivo egli pregava di sollecitare Niccolò Villani a una soluzione pacifica della vertenza più che ventennale, tanto più che "non so da quale spirito ispirato ser Nicholò Vallani [sic] per una terra persona à mandato qua a dire a messer Bart. Chagiotti che gli vuole render pace, ma non vorria paresse lui fusse il primo motore" (Arch. di Stato di Firenze, Archivio Mediceo avanti il Principato, filza VII, num. 46, parzialmente edita da F. Flamini, Leonardo di Piero Dati, poeta latino del sec. XV, in Giorn. stor. d. lett. ital., XVI [1890], pp. 19 s., con datazioni, topica e cronologica, errate).
Quali fossero le occupazioni del C. a Ferrara viene detto esplicitamente nella citata lettera di Carlo di Cosimo de' Medici del 28 nov. 1447: "legie opere gentili, concorrente di messer Guerino, et ancho satisfa così bene agli scolari come lui, o vero meglio. Tutte queste cose potrete vedere per experientia, se la faccenda si fa". Di questa sua attività di professore di lettere umane non ci e giunta altra testimonianza al di fuori di questa; il silenzio mantenuto in proposito dal Guarino - del quale il C. è detto antagonista - potrebbe apparire strano, se non si ponesse mente al fatto che il vecchio maestro con ogni probabilità preferì ignorare il discepolo, che in gioventù gli aveva dato tanti fastidi come copista e che ora era divenuto il suo emulo. L'insegnamento ferrarese del C. dovette comunque rimanere probabilmente sul piano della piccola scuola privata, e questo ne spiegherebbe la minore risonanza rispetto a quella del Guarino. A Ferrara, tuttavia, il C. operò nell'ambito della corte marchionale, dati i suoi stretti rapporti con Niccolò, Leonello e Borso d'Este (la sua amicizia con quest'ultimo sarebbe confermata con maggiore evidenza, se al C. si potessero attribuire alcune composizioni in volgare contenute nel codice 2 del Calvario di Domodossola, nelle quali e ricordato appunto un "Bartholomaeus" in stretti rapporti con Borso). Per i signori di Ferrara il C. scrisse infatti suppliche, orazioni funebri, epitaffi, composizioni di occasione; e, forte del notevole prestigio che gli derivava dalla loro protezione, poté avvicinare importanti personalità del mondo politico e culturale ferrarese. Il prezzo pagato a questo suo successo mondano e uno stile manierato, che condanna le sue opere ad essere una semplice testimonianza - sia pure non insignificante - dei costumi e della vita del tempo.
A Ferrara il C. dovette trattenersi sino alla sua morte, che si deve con ogniprobabilità porre intorno alla fine del settimo decennio del Quattrocento.
Gli scritti del C., abbastanza numerosi e per lo più inediti, sono stati dettati - come già si è osservato - in prosa e in versi per varie occasioni. A nome della moglie di un esule, Niccolò Bergamini (o Marchesini, secondo la diversa lezione data dall'altro manoscritto), indirizzò con successo una petizione al marchese Niccolò III d'Este, per impetrare la liberazione del figlio di lei, condannato a morte (Ferrara, Biblioteca Ariostea, cod. I 240, f 44r; e anche cod. II 110, f. 118rv). In occasione della morte di Niccolò (1441), il C. indirizzò a Leonello due consolatorie, l'una in prosa e l'altra in versi. Nella prima, agli incessanti fastidi della vita contrappone la pace del trapasso (Ferrara, Bibl. Ariostea, god. II 110, ff. 117r-118r); nella seconda, in 19 versi eroici latini, compiange la dolorosa scomparsa (cod. Marc. lat. XIV 218 [= 4677], f. 49r). Della consolatoria in prosa conosciamo una seconda redazione (Milano, Bibl. Braidense, cod. AD XIV 27, ff. 61v-62r): qui l'orazione appare tenuta di fronte ad alcuni "viri clarissimi", figli del defunto, in occasione della morte di un "Niccolò Saturnino" a noi altrimenti sconosciuto (ma è evidente che l'appellativo mitologico, "Saturninus", si riferisce all'Estense, equiparato, per la felicità del suo governo, al mitico reggitore dell'età dell'oro; sicché è da escludere l'ipotesi che il C. abbia utilizzato per un'altra e diversa occasione lo stesso componimento). Per Niccolò d'Este il C. compose anche l'epitaffio, tre distici latini che sono stati pubblicati, insieme con altre poesie latine, da S. Prete, in Some Unknown Humanistic Poems, in Mélanges Eugène Tisserant VII, Città del Vaticano 1964, p. 258. Altri tre distici latini, contenuti fra l'altro nel già citato codice II 110 della Biblioteca Ariostea di Ferrara, f. 118r, nei quali il C. celebra lo splendore della natura radiosa e della luce, si riferiscono non tanto a Niccolò o a Borso d'Este, quanto piuttosto a Leonello, sotto il cui principato il poeta afferma che Ferrara, "Romula parva", gode di essere posta. Ambedue queste composizioni sono state edite da L. Capra, Gli epitafi per Niccolò III d'Este, in Italia medioevale e umanistica, XVI (1973), pp. 204 num. 4, e 226 num. 25, con l'indicazione dei manoscritti. Il C. compose un panegirico pubblico esaltando le virtù morali, l'intelligenza e l'amore per gli studi che animavano Leonello (Marc. lat. XIV218 [= 4677], ff. 43v-48v); ma il tono prevalentemente adulatorio ne riduce il valore poetico e documentario. A Ferrara il C. conobbe anche il medico padovano Michele Savonarola, per il quale "edidit" il proemio del Liber physonomiae, dedicato a Leonello e datato 22 maggio 1442. In esso il C. si richiama agli scrittori che, trattando lo stesso argomento, offrirono la loro fatica a protettori illustri: Aristotele ad Alessandro Magno, e Pietro da Abano a Bardellone Bonacolsi, il signore di Mantova (ibid., f 49rv). Di un epitalamio in prosa pronunziato dal C. davanti a Leonello e ad alcuni "patres celeberrimi" in occasione delle nozze di due insigni personalità ferraresi, che non vengono però nominate, ci è rimasto il testo, conservato in tre codici (Bologna, Bibl. universitaria, cod. 2948, Misc. Tioli, vol. 36, f. 24rv; il citato Marc. lat. XIV 218 [= 4677], ff. 73r-74r; Toledo, Bibl. della cattedrale, cod. 100 42, ff. 10v-11v). Il Prete (Two Humanistic Anthologies, Città del Vaticano 1964, p. 21 n. 6) dubita che questa orazione sia stata effettivamente pronunziata, e avanza la ipotesi che si tratti di un puro esercizio rettorico; sembra accertato, in ogni caso, che il componimento non si riferisce a nessuno dei due matrimoni di Leonello, come invece vorrebbe il Prete.
Qualche notizia biografica si può ricavare dal suo epistolario, anch'esso in gran parte di circostanza (come nella lettera dell'11 luglio 1437, in cui ringraziava un amico per avergli inviato una bella epistola di Giacomo Filippo Mazono sulla musica: cod. Marc. lat. XIV 218 [= 4677], f. 50r), e dagli altri scritti in prosa che il C. ci ha lasciato. Si tratta pur sempre di composizioni d'occasione: gratulatorie, come una "gratiarum actio" in cui rievoca un banchetto fraterno offerto da una pia donna della quale esalta le virtù (ibid., ff. 71v-72r); rettoriche, come una "oratiuncula cuidam legato dicta", nella quale si rivolge ad un "vir illustrissime, Italiae decus et Ecclesiae Romanae columen", rappresentante del pontefice Eugenio IV, ringraziandolo dei favori concessi al fratello (ibid., f. 73r); panegiriche, come l'orazione ("laudaciuncula") per la festività di s. Agostino, pubblicata da S. Prete, An Unknown Humanistic "Elogium Sancti Augustini", in Revue des études augustiniennes, XI (1965), pp. 267-76. Anche le poesie latine del C. appaiono per lo più sollecitate da motivi d'occasione: come i cinque distici che accompagnano l'invio ad un "Celanus" di un codice in versi - in essi H poeta si scusa del ritardo, motivato dalla collazione con un altro manoscritto e dalle correzioni che ha dovuto apportare al testo corrotto dagli scriptores (codice Marciano, cit., f. 49v); o come l'epitaffio in due distici composto per Giovanni d'Avignone, tubicen della corte estense, morto il 21 dic. 1442 (ibid., f. 50r; Modena, Bibl. Estense, cod. Bevilacqua 1080, f. 169v; Berlino, Deutsche Staatsbibliothek, cod. Hamilton 495, f. 154v), o l'altro epitaffio, per il giureconsulto Ludovico Sardi scomparso il 13 luglio 1445: sette esametri editi da G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara (1429-1460), Ginevra 1921, p. 47. Il suo atteggiamento, alieno dall'esaltazione della passione amorosa, non gli impedì di celebrare la sua "ninfa" in un componimento di dieci esametri, il cui contenuto non è certamente autobiografico (Napoli, Bibl. nazionale, cod. V F 18, f. 269v). Cinque carmi latini del C., tutti in distici -meno il secondo, che è in esametri -, sono stati pubblicati da S. Prete, Some Unknown Humanistic Poems, cit., pp. 257-260. Il primo è di argomento amoroso; il secondo, bucolico-pastorale, verte sull'allevamento degli agnelli; il terzo è il già ricordato compianto per la morte del marchese Niccolò III d'Este; il quarto è indirizzato a T. V. Strozzi, per invitarlo alla lettura di Cicerone, Virgilio, Ovidio, Livio ed Aristotele; nel quinto Floro narra a un "Toscus" il suo amore per Dione.
Il C. scrisse anche versi in volgare, di onesta fattura. Un sonetto, sicuramente composto per una terza persona, inviò a Domenico di maestro Andrea da Prato, chiedendo conforto per la morte della sua donna (l'interlocutore gli replicò per le rime: ambedue i sonetti sono stati editi da F. Flamini, Leonardo di Pietro Dati..., cit., pp. 19 s.). Ricordiamo qui anche una ballata scritta "per uno amante della Sveva delli Spini", cui rispose ancora una volta per le rime Domenico da Prato per conto della "prefata Sveva delli Spini in vice d'Amore" (pubblicata in Ballate e strambotti di poeti aulici toscani del Quattrocento, a cura di F. Flamini, Padova 1897, p. 17). Nessuna passione amorosa - a quanto ne sappiamo - scosse mai l'equilibrio e la serenità cortigiana del C., il quale d'altro canto accondiscese di frequente a cantare su commissione i sentimenti altrui: in queste rime, nonostante il mestiere, vibra a volte qualche accento vivace e persuasivo (sulla poetica volgare del C. si veda F. Flamini, La lirica toscana, cit., pp. 564 n. 289, 566, 757 s., 662).
Non sono ovviamente da attribuirsi al C. sette esametri di addio al mondo (cfr. H. Walther, Initia carminum ac versuum Medii Aevi posterioris Latini, Göttingen 1969, nn. 7313 e 7311) trecenteschi, testimoniati in codici anche posteriori; con maggiore attendibilità gli si può attribuire un elogio, nel quale la città di Firenze ed i suoi abitanti vengono contrapposti a Roma ed ai Romani (i sei distici compaiono sotto il suo nome nel cod. V F 18, f. 270r, della Bibl. nazionale di Napoli). Incerta è l'attribuzione al C. di una raccolta di dieci prose volgari contenuta nel cod. 2 dell'Istituto della Carità al Calvario sopra Domodossola, descritto da G. Contini, Un manoscritto ferrarese quattrocentesco di scritture popolareggianti, in Archivum Romanicum, XXII (1938), p. 294. Si tratta per lo più di lettere di ringraziamento o di lode, di suppliche e di petizioni; il nome dell'autore, "Bartholomaeus", si trova in calce a due componimenti soltanto, ma è molto probabile che siano suoi anche i restanti, tutti vertenti su persone e fatti della corte ferrarese.
La personalità del C., come uomo di lettere e di corte, per quanto limitata, è tuttavia di un qualche interesse per la storia civile e letteraria del tempo, perché ci permette di conoscere meglio alcuni degli esponenti più in vista della città estense. Il suo stile, quasi sempre formalmente corretto, è più felice nel verso che nella prosa: nella sua poesia c'è infatti, a volte, una capacità espressiva che invano si cercherebbe nella ridondante compattezza del suo periodare predicatorio.
Bibl.: La conoscenza del C. era limitata fino a poco tempo fa alle scarse segnalazioni di R. Sabbadini nella sua ediz. dell'epist. guariniano, e di F. Flamini, più sopra riferite. Solorecentemente il C. ha attirato concretamente l'attenzione di uno studioso, S. Prete, che gli ha dedicato ben tre contributi bibliogr., ricostruendone sommariamente le vicende biografiche a Ferrara, ma ignorandone del tutto il soggiorno padovano, il motivo dell'esilio, che costitui il cruccio perenne, e i componimenti in volgare (Some Unknown, cit., in Mélanges Eugene Tisserant, VII, Città del Vaticano 1964, pp. 255-260; Two Humanistic Anthologies, ibid., pp. 75-77; An Unknown Humanistic "Elogium Sancti Augustini", in Revue des études augustiniennes, XI[1965], pp. 267-276). Pur con qualche incertezza nell'interpretazione e nella lettura dei testi (per es., a p. 258 di Some Unknown, cit., il V. 2 del terzo carme va letto "Maius quid video saecla", invece di "Maius quod video secla"), il Prete ha avuto il merito di riscoprire, insieme con P. O. Kristeller (Iter Italicum, I-II, ad Ind.), un umanista minore il quale, pur non portando grande lustro all'umanesimo ferrarese, significò qualcosa per la rete di amicizie che egli tenne a Firenze, Padova, Verona e alla corte degli Estensi. Sotto questo punto di vista non troppo colpevole è il silenzio sul C. in opere che pure trattano esplicitamente di poeti a Ferrara a metà del Quattrocento (G. Carducci, La gioventù di L. Ariosto e la poesia latina in Ferrara, vol. XIII dell'Edizione nazionale degli scritti, pp. 117-379; S. Pasquazi, Rinascimento ferrarese. Tebaldeo, Bendedei, Guarini, Caltanissetta 1957, e ora in seconda edizione col titolo Poeti estensi del Rinascimento, Firenze 1966); un solo cenno, come si è visto, è in G. Bertoni, Guarino da Verona fra letterati e cortig. a Ferrara (1429-1460), Ginevra 1921, p. 47. Si veda inoltre: S. Prete, Humanismus und Humanisten am Fürstenhofe der Este in Ferrara während des XV, Jahrhunderts, in Arcadia Zeitschrift für vergleichende Literaturwissenschaft, II(1967), pp. 125-138; Id., Humanismus in Fifteenth-Century Ferrara, in Thought, XLIII (1968), pp. 573-85. Cfr. anche R. Sabbadini, Storia e critica dei testi latini..., Catania 1914, p. 152 (per quattro esametri di epitome delle Tusculanae Disputationes). Per un Bartolomeo Casurius in rapporto nel 1453 col Valagussa si veda: G. Resta, G. Valagussa umanista del Quattrocento, Padova 1964, pp. 8, 192.