ROMILLI, Bartolomeo Carlo.
– Nacque il 14 marzo 1794 a Bergamo, dal conte Antonio e da Laura Asperti.
Dopo gli studi primari, si avviò alla carriera ecclesiastica entrando nel seminario bergamasco. Ordinato sacerdote il 20 dicembre 1817, insegnò lettere italiane e latine al collegio Celana, poi religione presso l’Imperial Regio liceo di Bergamo, dove restò per vent’anni. Nel 1838 fu nominato parroco di S. Pietro, a Trescore.
Nel 1846 il governo austriaco lo nominò vescovo di Cremona. Consacrato il 21 giugno, Romilli resse la diocesi per pochi mesi, organizzando con successo una colletta in aiuto dei poveri colpiti dalla carestia. Ciò influì sulla scelta del governo, che, dovendo rispondere alle istanze delle élites milanesi affinché, dopo il trentennale episcopato di Karl Kajetan von Gaisruck, la guida dell’arcidiocesi ambrosiana fosse affidata a un italiano, individuò in Romilli il successore del cardinale scomparso a novembre. Dopo la nomina imperiale del 10 aprile 1847, ratificata da Roma il 14 giugno, Romilli entrò a Milano il 5 settembre, assumendo il nome di Carlo.
Nell’atmosfera di entusiasmo patriottico suscitata dai primi provvedimenti di Pio IX, l’insediamento del presule, salutato dallo sventolare del tricolore, assunse una spiccata connotazione politica, parendo un’ulteriore prova della sollecitudine del pontefice per la causa nazionale, tanto che lo stesso Romilli dovette smentire la voce che Pio IX gli avesse suggerito di leggere Vincenzo Gioberti (Milano, Archivio storico diocesano, Carteggio ufficiale, 420, Romilli a Carlo Alberto, minuta, s.d. [sett. 1847]). La celebrazione della messa inaugurale dell’8 settembre sfociò in tafferugli antiaustriaci conclusisi con la morte di un milanese. Nei mesi seguenti, mentre aumentava la tensione, Romilli, invocando maggiore mitezza dalle truppe imperiali, si schierò con quegli esponenti del clero che, in parte influenzati dalle dottrine rosminiane, approvavano il dissenso anche come contestazione del giurisdizionalismo asburgico.
Tale preoccupazione ebbe un peso notevole nel determinare l’atteggiamento di collaborazione tenuto da Romilli verso il governo provvisorio durante le Cinque giornate di Milano e la guerra d’indipendenza: non discostandosi da molti dei suoi confratelli, che predicavano l’obbedienza ai governi rivoluzionari in nome del principio di soggezione al potere costituito, l’arcivescovo meneghino scorgeva nell’esito favorevole dell’insurrezione la possibilità di liberare l’azione ecclesiastica dalle pastoie giuseppine e di impostare la costruzione di un ordine cristiano basato sulla leale cooperazione tra l’autorità politica e l’autorità religiosa. A tal fine Romilli creò una consulta incaricata, tra l’altro, di preparare un negoziato con il nuovo governo civile per l’ottenimento della libertà ecclesiastica.
Ciò dovette sembrare a Romilli il modo migliore per adempiere al programma che, a suo dire, gli era stato enunciato da Pio IX prima dell’insediamento: «Bisogna che il clero procuri di mettersi alla testa del progresso, e cercare di diriggerlo bene, diriggerlo cattolicamente» (ibid.). Tuttavia, non pare che il sostegno di Romilli alla causa nazionale vada letto in termini meramente strumentali. La visita ai feriti, l’invito ai parroci a collaborare con il governo provvisorio nella formazione e nell’armamento dell’esercito, il dono delle argenterie ecclesiastiche alle casse pubbliche sono solo alcuni aspetti dell’opera di legittimazione religiosa del conflitto intrapresa dal presule, che fu un protagonista rilevante della sacralizzazione quarantottesca della patria. Indice ne sia, fra i tanti, la benedizione impartita da Romilli alle bandiere consegnate alla guardia nazionale, in una cerimonia culminata nella predica del cappellano Gaetano Barni, che, paragonando il vessillo nazionale alla croce che aveva guidato Costantino alla vittoria, definì il tricolore «Labaro promulgatore della Libertà Italiana» (Per la benedizione delle bandiere della Guardia nazionale di S.M. alla Porta fatta da Monsignore Arcivescovo Bartolomeo Carlo Romilli presenti il capitano conte Giulio Litta e la intera guardia. Discorso letto dal Cappellano Gaetano Barni, Milano 1848, p. n.n.).
Il fallimento dei moti pose Romilli in una situazione difficile davanti alle autorità austriache, che gli rimproveravano anche la protezione accordata ai sacerdoti rosminiani compromessi nella rivolta, come Luigi Biraghi e Alessandro Pestalozza. Il suo atteggiamento si fece tuttavia più cauto, non solo per ragioni di opportunità, ma anche per i rischi rivelati dall’esito traumatico del Quarantotto, con la temporanea caduta del potere temporale. Preoccupazione del presule, ancora influenzato da una prospettiva guelfa, era ormai il contrasto alla diffusione del protestantesimo e del socialismo, che, minacciando la famiglia, la proprietà e il Papato, avrebbero sottratto all’Italia la sua posizione di centro della civiltà (Archivio di Stato di Milano, Autografi, 20, cart. XIII, f. 5, pastorale del 6 febbraio 1850).
In campo pastorale, Romilli cercò di condurre una sorta di restaurazione borromaica, riattivando le congregazioni plebane e riprendendo – con l’aiuto di Biraghi e di Carlo Caccia – la pratica della visita pastorale, abbandonata alla fine del Settecento e poi di nuovo sospesa fino al 1895. L’episcopato di Romilli rappresentò, sotto questo aspetto, una parentesi eccezionale, lasciando una ricca documentazione sinora poco studiata. Si colloca in questo quadro la ricostituzione della Congregazione degli oblati dei santi Ambrogio e Carlo, soppressa nel 1810, alla quale Romilli affidò, nel 1853, la direzione dell’insegnamento nei seminari diocesani, estromettendo il clero rosminiano. La misura, provocata dalle proteste austriache per la diffusione di satira antigovernativa nel seminario milanese, colpì, tra gli altri, Antonio Stoppani e Alessandro Pestalozza, e fu vissuta dalla parte più aperta del clero lombardo come un tradimento, lasciando polemiche e strascichi protrattisi ben oltre la morte di Romilli. Essa va tuttavia compresa nel tentativo del vescovo di aprire canali di dialogo con il governo, che si mostrava disponibile a rivedere la legislazione giuseppina.
Già le conferenze dei vescovi lombardi convocate da Romilli a Gropello nel 1849 e a Milano nel 1850 avevano riproposto il tema della libertà della Chiesa nel nuovo ordinamento imperiale, chiedendo al governo di estendere alle province lombarde le concessioni fatte dalle ordinanze del 18 e 23 aprile 1850, tra cui la libera comunicazione degli ordinari con Roma e l’abolizione del placet governativo alle pubblicazioni. Romilli, ormai deluso dall’esperimento liberale piemontese, visto con favore nel 1848 ma sfociato nelle leggi Siccardi (1850), riteneva ora preferibile ottenere alla Chiesa autonomia e privilegi nell’ambito di un sistema autoritario. Nel novembre del 1852 egli salutò dunque con plauso l’avvio delle trattative fra Vienna e Roma per la stipula di un concordato e la loro positiva conclusione nel 1855.
Già costretto dalla salute cagionevole a delegare delicate funzioni a collaboratori e ausiliari talora discussi, Romilli, colpito da ictus il 12 dicembre 1857, dovette delegare gran parte delle mansioni episcopali al vicario generale Paolo Ballerini, che resse di fatto l’arcidiocesi fino alla morte dell’ordinario, il 7 maggio 1859.
Fonti e Bibl.: Milano, Archivio storico diocesano, Carteggio ufficiale, 420-499; Visite pastorali, Missaglia, 36-37, Gorgonzola, 27, San Mammete, vol. unico, Seveso, 30, Treviglio, 30, Trezzo, 23, Varese, 100-101, Vimercate, 38, Melegnano, 15, Monza, 32, Porlezza, 20, S. Stefano in Broglio, 24, S. Lorenzo, 14-15, S. Eustorgio, vol. unico, S. Marco, vol. unico, S. Maria del Carmine, 11, Corpi santi di Porta Ticinese, 7-8; Archivio di Stato di Milano, Autografi, 20, cart. XIII, f. 5; Cancellerie austriache, cart. 285-286; Milano, Biblioteca ambrosiana, A 295 inf., f. 11; M 114 suss.
Superata e senza note è la ricostruzione di C. Castiglioni, Gaysruck e Romilli arcivescovi di Milano, Milano 1938. Ci si riferisce, quindi, alla ben documentata biografia di L. Vanzulli, B.C. R. arcivescovo di Milano. Un profilo politico-religioso (1847-1859), Milano 1997. Per il contesto politico e religioso si può ricorrere soprattutto a R. Aubert, Il pontificato di Pio IX: 1846-1878, a cura di G. Martina, Torino 1964; G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974; Id., Pio IX (1851-1866), Roma 1986; M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987. Indagano l’atteggiamento di gerarchie e clero davanti al movimento nazionale: D. Menozzi, I vescovi italiani dalla rivoluzione all’Unità, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 125-179; Id., I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti - P. Ginsborg, Torino 2002, pp. 451-478; E. Francia, «Il nuovo Cesare è la patria». Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, ibid., pp. 423-450. Per orientamenti e attese del clero lombardo, con cenni a Romilli, cfr. A. Marazza, Il clero lombardo nella rivoluzione del ’48, Milano 1948; E. Passerin d’Entrèves, Il clero lombardo dal 1848 al 1870, in Il movimento unitario nelle regioni d’Italia. Atti del Convegno delle deputazioni e Società di Storia patria svoltosi in Roma dal 10 al 12 dicembre 1961, Bari 1963, pp. 44-61; P. Lorenzetti, Catene d’oro e Libertas ecclesiae. I cattolici nel primo Risorgimento milanese, Milano 1992; A. Lazzaretto, Clero veneto e clero lombardo nella rivoluzione del 1848, in 1848-1849. Costituenti e costituzioni. Daniele Manin e la Repubblica di Venezia, a cura di P.L. Ballini, Venezia 2002, pp. 391-425. Imprescindibile, per l’approfondimento della questione rosminiana: F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970 (in partic. pp. 146-154).