BARTOCCI (Bartoccio, Bertoccio), Bartolomeo
Nato a Città di Castello verso il 1535, nel 1555 partecipò all'assedio di Siena. In questa circostanza si legò d'amicizia con un giovane di Gubbio, Fabrizio Tommasi, che lo indusse ad aderire alle dottrine dei riformatori d'Oltralpe. Non è noto a quale confessione egli si accostasse: se fin da questo momento a quella calvinista riformata, o a quella luterana (che egli poco dopo la sua conversione venisse detto "luterano" non significa molto, data l'indistinzione, in questo periodo piuttosto frequente in Italia, tra le varie confessioni protestanti). Tornato a Città di Castello, cadde gravemente malato: e per aver rifiutato in quest'occasione i conforti religiosi, nonché per aver tentato di convertire alcuni cugini, fu convocato dal vescovo amministratore della città, * Vitellozzo Vitelli. Il B., temendo di essere imprigionato, non obbedì all'ingiunzione, e subito dopo decise di abbandonare la città. Con una fuga avventurosa si recò a Siena, poi a Venezia. Qui lo raggiunsero le preghiere dei genitori, che lo supplicavano di abiurare pubblicamente i suoi errori, come avevano fatto i cugini ch'egli aveva tentato di convertire, e di tornare in seno alla Chiesa. Il B. non si lasciò convincere e, in una data non precisata (forse sempre nel 1555), abbandonò l'Italia per Ginevra. Nel 1556 fu accolto tra i seguaci della Chiesa italiana della città e il 14 ott. 1557 fu iscritto nel registro degli abitanti. Sposò una Maddalena da cui ebbe tre figli, un maschio e due femmine. Visse facendo il mercante di seta e dovette raggiungere un notevole prestigio in seno alla comunità italiana, giacché come compari al battesimo dei suoi figli troviamo Teodoro Beza e Francesco Greco, già segretario e precettore delle figlie di Renata di Francia.
Nel 1567 tornò in Italia, apparentemente per motivi di commercio. Si recò dapprima in Sicilia, poi a Napoli e a Roma: e qui particolarmente avrebbe cercato di diffondere le dottrine calviniste. Il 16 ott. 1567 il card. S. Rebiba, presidente della congregazione cardinalizia del S. Uffizio, scriveva al doge e ai governatori di Genova che il B., accompagnato da un servitore e da altri personaggi, "grandemente inditiati di heresia", tra cui un cavaliere di Malta, si dirigeva da Roma (dove era passato il giorno 11 ottobre) alla volta di Genova, per recarsi quindi a Ginevra, "sotto specie di mercantie". Chiedeva pertanto di arrestare il B. e i suoi compagni, e a tale scopo forniva i connotati del Bartocci. Il 20 ottobre questi era arrestato a Genova; il 9 novembre il doge e i governatori di Genova annunciavano a Roma che anche il cavaliere di Malta era stato arrestato e chiuso con il B. nella torre del Palazzo ducale.
Entrambi i prigionieri scrissero un memoriale, che il governo genovese inviò al Rebiba. Il 13 novembre la Repubblica, cedendo alle pressioni della S. Sede, annunciava prossima la partenza del B. per Roma; ma ancora il 28 novembre, in una lettera al cardinale C. Cicada, il doge e i governatori avvertivano che, per vari contrattempi, non si era potuto far partire il B. come previsto. E' probabile che i contrattempi fossero un pretesto, giacché alla lettera al Cicada ne erano accluse due, giunte a Genova da Ginevra e da Berna, che danno verosimilmente la spiegazione della mancata partenza del Bartocci. Nella prima delle due missive, spedita dai sindaci e dal senato della città di Ginevra il 6 novembre, si manifestava stupore e rammarico per l'avvenuto arresto del B., "qui iam annos plus duodecim est subditus noster, cum ex Sicilia atque Neapoli rediens, quo ad emenda serica atque alias merces se contulerat...", avvenuto "solo religionis nomine". In tal modo, notavano i Ginevrini, "commercium et negociatio, quae adhuc inter nos semper libera fuit... prohiberi et tolli videtur". Concludevano chiedendo che il B., di cui esaltavano "singularem probitatem sinceritatem atque industriam", fosse lasciato libero: soprattutto in quanto egli "nec dogmatizaverat umquam, nec ulla in re, quod sciamus, vestris umquam legibus ac decretis adversatus fuerit". Così il commercio, tra i due stati avrebbe potuto restare qual era sempre stato, "liberum atque inviolatum". A sua volta, la Repubblica di Bema, in una lettera del 17 novembre, chiedeva la liberazione del B. ricordando la libertà goduta dai commercianti genovesi al di là delle Alpi (in nessun modo "in religionem eorum vel saevitur vel inquiritur") e minacciando di applicare la legge del taglione. I Genovesi, nell'inviare al cardinale Cicada queste due lettere, non nascondevano la loro preoccupazione, "considerata la natura degl'huomini e li molti interessi che habbiamo ne, loro paesi, per dove passeno forzatamente tutte le mérci, e gran parte del contante, che si traffica verso la Fiandra, Lione e l'Alemagna". Essi temevano che i Ginevrini e i Bernesi, "spinti da questa occasione quantunque nefaria, non trascorressero a qualche disordine, e rompendo il traffico, per essere il negotio... cosa gelosa, non ne risultassero nocumenti maggiori". Pur dichiarandosi pronti a obbedire passando sopra "ad ogn'altro humano rispetto", non mancavano di far valere i loro interessi presso il cardinale Cicada: "Gli è vero che quando, senza molto detrimento, si potesse rilasciar costui e mandarlo in quelle parti di Helvetia, dove habita da anni in qua, non possiam negar che non lo vedessimo volentieri, per fugire l'occasione di non urtare con quella barbarie di gente incapace di ragione". Ma i tentativi del Cicada, e dei cardinali F. Pacheco e G. Gambara da lui istruiti, non avevano successo: fin dal 5 dicembre egli avvertiva i Genovesi di aver implorato dal papa la liberazione dei B., ma di sperare "molto poco * di poterla ottenere, "vedendo Sua Beatitudine tanto ardente et rigorosa in queste materie". E il 12 dicembre riferiva che Pio V nella congregazione del S. Uffizio aveva dichiarato che "non può senza grande offensione de Dio et della coscienza consentire che un heretico sia lasciato andare in perditione dell'anima sua et con pregiuditio della religione, facendosi il Sant'Ufficio gran capitale d'haver quest'huomo nelle mani, qual è stato mandato a posta in Sicilia, Napoli et Roma, et per tutta Italia a seminar questo veleno, et far pestiferi uffitii per sedure simili persone, come particolarmente ha fatto in Roma". I Genovesi esitavano ancora a consegnare il B., anche perché i Bernesi avevano confiscato 24.000 scudi spettanti a cittadini genovesi, per premere (essi congetturavano) sulla Repubblica nella questione della sua scarcerazione. Ma giungeva la notizia che il papa era irremovibile e, dopo un ultimo indugio, il 29 genn. 1568 il B. veniva fatto imbarcare alla volta di Roma. Ma il 31 gennaio i Ginevrini chiedevano nuovamente ai Genovesi, con promesse e minacce, la liberazione del Bartocci. Analogamente, i consoli e il Senato di Berna, in una lettera del 7 febbraio, avvertivano che se il B., reo unicamente di essersi votato a un culto diverso seguendo la propria coscienza, fosse stato perseguitato, essi avrebbero fatto altrettanto nei confronti di quanti venivano "ex Italia ad nos comeantes". Ciò indusse i Genovesi a scrivere a Roma chiedendo che il B., qualora venisse riconosciuto "poco colpevole", fosse liberato. Ma anche questa speranza andò delusa. Il 5 marzo il Cicada scrive che il B. "è arrivato qua, et essaminato confessa tutte l'heresie del mondo in pessimo genere, né fin qui mostra segno di volersi ritrattare. Pure ha detto ch'egli pensa perseverare in esse se non gli è mostrato il contrario", e avvertiva i Genovesi che "la cosa andarà un pezzo in longo, secondo il solito di questo Sant'Officio". Il processo venne interrotto sul finire di marzo, poiché il B. era "stato per morire d'infermità", e continuò ad andare a rilento, in quanto (come scriveva il Cicada ai Genovesi l'ii giugno) egli sembrava non voler "esser abbrugiato, ma instrutto et emendarsi". Ciò riaccendeva le speranze dei Genovesi: ma per breve tempo. Il 15 ottobre il Cicada scriveva loro: "havendo mandato da questi illustrissimi signori inquisitori per saper a che termine stanno le cose sue [del B.], mi hanno fatto intendere haverlo trovato heresiarcha, ch'è stato quasi per tutt'Italia dogmatizando et procurando d'infettar hor questo hor quello; oltre di ciò, è talmente ostinato et pertinace nell'error suo, che pensano di farlo abbrusciare, et che la sua festa verrà inanzi quella di Natale"; e concludeva invitando a "placar quei barbari [cioè i Bernesi e i Ginevrini] per altra via". Finalmente i Genovesi si rassegnarono, pur lamentando che "in questa guisa molti innocenti et veri christiam riceveranno, per l'essecutione di cotesto huomo empio, martirio, se la prudenza di Sua Beatitudine non ci ripara. Noi di più restiamo quasi interclusi dal comercio di Germania, che dall'una parte le guerre correnti et dall'altra lo disdegno di Bernesi ci contendono il camino" (lettera al Cicada, 22 Ottobre 1568).
Il 25 maggio 1569 il B. fu bruciato vivo. Il giornale del provveditore della confraternita di S. Giovanni Decollato dà notizia delle sue ultime ore, nonché del suo fermo comportamento. Una tradizione sincrona accolta nell'agiografia calvinista vuole che egli prima di morire abbia gridato "Vittoria! Vittoria!".
Fonti e Bibl.: L'unica fonte per la vita dei B. prima della cattura è J. Crespin, Histoire des martyrs Persecutez et mis à mort pour la verité de l'Evangile, depuis le temps des Apostres iusques à l'an 1S97, nell'edizione s. I. del 1597 con le aggiunte di S. Goulart, pp. 757 s., da cui derivano tutte le narrazioni posteriori. Le vicende della cattura del B. e della controversia tra Genova e Roma sono state ricostruite, sulla base di documenti tratti quasi esclusivamente dall'Archivio di Stato di Genova, da M. Rosi, La riforma religiosa in Liguria e l'eretico umbro B. B., in Atti d. Soc. ligure di storia Patria, XXIV,2 (1894), pp. 555-726, e in Storia delle relazioni fra la Repubblica di Genova e la Chiesa Romana specialmente considerate in rapporto alla Riforma religiosa, in Atti della R. Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali stor. e filol, s. s, CCXCV (1898), pp. 182 ss.; il Rosi tuttavia ignora gli episodi della vita del B. precedenti la sua fuga a Ginevra. V. anche T. M, Crie, History of the progress and suppression of the Reformation in Italy in the sixteenth century...,Edinburgh-London 1927, pp. 304 S.; C. qantù,.Gli eretici d'Italia, Discorsi storici, II, Topn 3. 345; [G. Scelsi], ìl? ! 615 r. I riformatori italiani nei secolo XVI, Firenze 1870, pp. 121-23; J.-B-G. Galiffe, Le refuge italien de Genève aux XVIème et XVIIème siècles, Genève 1881, p. 159; A. Pognisi, Giordano Bruno e l'archivio di San Giovanni Decollato, Torino 1891, p. 22 (dove il B. è chiamato erroneamente "Bertonio"); A. Bertolotti, Martiri del libero pensiero e vittime della Santa Inquisizione nei secoli XVI, XVII e XVIII, Roma 1892, pp. 54 s.; D. Orano, Liberi Pensatori bruciati in Roma dal XVI al XVIII secolo,Roma 1904, pp. 34 S.; C. Galateri di Genòla, Roma Papale e i Martiri del libero pensiero secondo documenti ufficiali, Roma 1904, pp. mo s.; A. Falchi, Un eretico castellano (B. B.) bruciato vivo in Roma il 24 maggio 1569, Città di Castello 1908; G. Rostagno, Un martire castellano, in La Rivista cristiana, s. 2, XI (1909), pp. 26-31; L. v. Pastor. Storia dei Papi, VIII, Roma 1924, p. 210; P.F. Geisendorf, Livre des habitants de Genéve, I, Genéve 1957, p. 93.