ARNIGIO, Bartolomeo
Nacque a Brescia nel 1523 da un fabbro ferraio dal quale ereditò il mestiere e forse il desiderio di disfarsene al più presto. Sembra che alcuni amici lo incoraggiassero alle prime prove letterarie, ma l'A. pensava soprattutto a una carriera redditizia, per cui, abbandonata momentaneamente la poesia, intraprese con profitto gli studi di medicina laureandosi in breve tempo all'università di Padova. La scelta non si rivelò tuttavia delle più felici, ché, tornato in patria per esercitare la professione e accusato della morte di numerosi pazienti, suscitò un tale risentimento tra i concittadini da correre il rischio d'essere lapidato. Dovette abbandonare la città (ma per poco) e rinunciare definitivamente alla medicina, anche perché l'abate Ascanio Martinengo lo volle con sé come lettore di filosofia: la qual cosa gli permise di tornare a Brescia e di restaurare alquanto la sua fama in attesa di una sistemazione più vantaggiosa e di uno stipendio sicuro. Ovviò all'una e all'altra esigenza l'Accademia degli Occulti nella quale l'A. fu con modestia Solingo: il sole e una nuvola formarono un po, ambiguamente la sua insegna; il motto fu: "non diu".
Scrisse invece un buon numero di Rime, tra petrarchesche e cortigianesche, che fece stampare a Venezia nel 1555 con una provvida dedica al conte Lucrezio Gambara, presso il quale aveva soggiornato per circa un anno; la Lettera, Rime et Oratione in lode della bellissima et gentilissima signora Ottavia Bajarda (Venezia 1558)gli fruttò la stima di G. B. Gavardi, che era un fervido ammiratore della gentildonna, e un compenso di 200 scudi, mentre l'attività accademica si equilibrava adeguatamente tra una poesia inaugurale (Canzone all'Accademia bresciana nel suo nascimento, dedicata al magnifico ed eccellente Sig. Lucejo Gadaldi, 1564)e la casta esegesi d'un Petrarca esemplarizzato (Lettura letta pubblicamente sopra il sonetto del Petrarca Liete e pensose, accompagnate e sole, ove si fa breve discorso intorno all'invidia, all'ira, et alla gelosia, Brescia 1565).
Quest'opera prelude alle prove di maggior impegno, se non di maggior interesse, dell'A.: il Dialogo della medicina d'amore (Brescia 1566),"nel quale s'insegnano i modi di slegarsi a chi viene preso indegnamente d'amor di donna" considerato, dopo un secolo d'amor platonico, una malattia di gioventù non diversa dai "vaiuoli et le rosolie", e il Discorso intorno al disprezzo della morte,pronunciato presso l'Accademia degli Animosi e pubblicato a Padova nel 1575,ove l'A. approda, dopo una dotta e un po' pedante confutazione delle opposte tesi, alla dottrina dell'immortalità dell'anima, secondo lo schema espositivo della trattatistica classico-umanistica.
Si vuole ancora ricordare tra le opere dell'A. I sette salmi della penitenza del gran Profeta David spiegati in canzoni secondo i sensi di M. B. A.(Brescia 1568),due canzoni per la battaglia di Lepanto, stampate a Venezia nel 1572,e le Dieci veglie de gli ammendati costumi dell'humana vita (Brescia 1577e poi Treviso 1602), che ebbe una discreta diffusione e fu tradotta in francese da Pierre de Larrivey (Les Veilles de B. A., de la correction des costumes...,Troyes 1608).
Sembra che l'A. abbia trascorso gli ultimi anni a Venezia. Morì di peste a Brescia nel 1577, lasciando agli eredi il suo ritratto eseguito dal Moretto e un certo strascico di polemiche, risentimenti e invidie di rivali.
Fonti e Bibl.: O. Rossi, Elogi istorici de' Bresciani illustri,Brescia 1620, pp. 390-392; G. Ghilini, Teatro d'homini letterati,Venezia 1647, pp. 22 s.; L. Cozzando, Libraria Bresciana, Brescia 1694, pp. 49-51; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, I, Venezia 1734, p. 60; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 1109-1112; G. B. Passano. I novellieri italiani in prosa, Torino 1878, pp. 28 s.; M. Rosi, Scienza d'amore, Milano 1904, pp. 73-75; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s. d., p. 203; A. Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Torino 1957, pp. 334 s.