BARBIANO di Belgioioso, Ludovico
Nacque il 15 marzo 1488 da Carlo e da Caterina Visconti. Venne avviato giovanissimo al mestiere delle armi, a fianco del maggior cqndottiero milanese del tempo Gian Giacomo Trivulzio. Gli inizi della carriera militare del B. corrisposero quindi alle varie campagne dei Francesi in Italia, contro i Veneziani dapprima e contro la Lega Santa poi, ed egli non mancò di partecipare ai principali fatti d'arme del tempo, tra cui la battaglia di Ravenna nel 1512 e quella di Marignano nel 1515.
Dopo quest'ultima data il B. si trasferì in Francia, dove, sia per i suoi passati servigi, sia per il prestigio che in quella corte godeva il padre, ottenne varie cariche e benefici, tra cui l'ufficio di ciambellano di Francesco I e la castellania di Rouvres, presso Digione.
Alla ripresa del conflitto franco-asburgico, nel 1521, il B. partecipò dapprima alla campagna di Navarra, nel contingente italiano comandato da Teodoro Trivulzio, combattendo alla conquista di Pamplona e di Tudela e all'assedio di Logrofío, sino alla fortunosa ritirata al di là dei Pirenei alla quale l'esercito francese dell'esparre fu costretto dopo la sconfitta subita il 29 giugno ad opera dell'armata del connestabile di Castiglia. Nel luglio successivo egli era già impegnato sull'altro fronte della guerra, quello padano, al comando di mille fanti italiani. Nel giugno del 1522 interruppe la sua attività militare per una missione diplomatica a Venezia, essendo stato incaricato di comunicare alla Repubblica il rifiuto di Francesco I "di aceptar la trieve con la Cesarea Maestà per do anni" (Sanuto, Diarii, XXXII, Col. 220). Al suo ritorno al campo gli fu affidato, insieme con Giovanni Antonio della Somaglia, il comando della piazzaforte di Lodi. Nel febbraio del 1524 il B. raggiunse l'esercito del Bonnivet, nel quale, al comando di cinquanta uomini d'arme, prese parte alla sfortunata campagna contro il connestabile di Borbone ed il marchese di Pescara. Dopo le sconfitte di Robecco e di Romagnano partecipò alla ritirata dei Francesi in Provenza ed all'organizzazione della resistenza contro gli imperiali in questa regione e quindi, nel settembre, alla spedizione diversiva su Saluzzo. Nell'ottobre, poi, abbandonata Milano dagli sforzeschi, il B. vi rientrò insieme con altri fuorusciti di parte francese, rimanendovi di guarnigione agli ordini del nuovo governatore Teodoro Trivulzio ed assumendo il comando delle operazioni contro il castello, rimasto in mano agli sforzeschi. Nei mesi successivi prese parte, alla testa di un migliaio di fanti italiani, all'assedio posto a Pavia da Francesco I e poi, il 24 febbr. 1525, sotto le mura della città, alla battaglia che concluse questa fase della contesa franco-imperiale e stabilì definitivamente l'egemonia spagnola in Lombardia.
Nei mesi seguenti il B. era a Lione, dove, mentre duravano le trattative per la liberazione di Francesco I, la madre del re, Luisa di Savoia, impegnava ogni sua energia nel tentativo di ricomporre i resti dell'esercito francese e di organizzare la resistenza contro la temuta invasione del regno da parte degli imperiali. Nel maggio il B. fu inviato in Piccardia, dove soprattutto si terneva un'offensiva avversaria, al comando di duemila fanti italiani, a proposito dei quali il Sanuto scriveva poi che "se sono deportati in quelle bande troppo bene, talmente, così come erano malvisti, hora sono più acarezati" (XXXIX, Col. 2006).
Nell'agosto il B. era nuovamente a Lione: qui alla confusione politica, che dominava la corte per la perdurante prigionia di Francesco I, corrispondeva un vasto malcontento dell'esercito privo da tempo del soldo. In particolare "li foraussiti [milanesi] che sono de li è disperati, - scriveva il Sanuto (XL, col. 169) - non hanno da viver, né li danno un soldo di ottomila scudi li erano sta deputati per loro". A queste difficoltà il B. per conto suo aggiungeva la preoccupazione di perdere i propri feudi lombardi in caso di una restaurazione sforzesca nel ducato, che appariva probabile. Perciò chiese licenza alla corte "di vegnir a Milan a galder .el suo" (ibid.);ma il permesso gli fu negato, mentre veniva concesso ad altri fuorusciti milanesi. Ce n'era abbastanza per indurre il B. a riconsiderare le ragioni della propria fedeltà alla Francia ed infatti già nel novembre si offriva di passare al servizio della Repubblica veneta, senza tuttavia arrivare per il momento ad una conclusione.
Ad ottenere al B. la possibilità di tornare in Italia intervenne in questo periodo una contesa cavalleresca con un condottiero mantovano al servizio di Venezia, Alvíse Gonzaga, il quale si ritenne indirettamente offeso da un giudizio del B., secondo il quale "tutti li soldati de la... Serenissima Signoria erano poltroni, riserbata la compagnia di lo excellentissimo signor ducha di Urbino" (Sanuto, XLI, col. 421). Sfidato a duello - il campo dello scontro fu stabilito a Scandiano presso G. B. Boiardo - il B. ottenne dalla corte francese nell'aprile nel 1526 una licenza di tre mesi per regolare la questione. Senonché, perché i due non si battessero, si mosse lo stesso pontefice Clemente VII, scrivendo al marchese di Mantova, e per conto suo la Repubblica di Venezia chiese al duca di Ferrara di impedire il duello. La contesa si risolse così amichevolmente ed il B. poté approfittare del soggiorno italiano per offrirsi nuovamente a Venezia, assicurando che se gli fosse dato il comando di duemila uomini *li basta l'animo intrar in Milan, et con il favor del popolo taiar a pezi spagnoli" (ibid., col. 525). Questa proposta, che il B. discusse a Lodi con il provveditore generale dell'esercito veneto, Pietro Pesaro, venne però a cadere quando, nel luglio, si ebbe notizia dei tumulti popolari scoppiati a Milano e rapidamente repressi dagli Spagnoli. Un'altra offerta avanzata dal B. al Pesaro, quella di espugnare Alessandria con un colpo di mano, non ebbe migliore fortuna. Questi tentativi del B. erano conseguenza degli accordi stabiliti contro gli imperiali a Cognac il 22 maggio 1526, nei quali i collegati avevano ottenuto da Francesco II Sforza l'assicurazione che i fuorusciti milanesi in Francia sarebbero stati riammessi nel ducato e avrebbero riottenuto i propri beni e privilegi. Di qui l'interesse del B. ad un riavvicinamento personale allo Sforza, tramite i Veneziani. Secondo il Guicciardini però questo progetto fallì per le difficoltà finanziarie dei Veneziani e per le eccessive pretese del Barbiano.
Il B. dovette così tornare al campo francese; nell'agosto era ad Amboise, per ottenere da Francesco I nuove assicurazioni sulla sorte dei suoi feudi lombardi, ma g;à alla corte circolava la voce - raccolta dall'agente veneziano Andrea Rosso - di suoi accordi con gli Spagnoli; lo stesso diplomatico scriveva, nel settembre successivo, "è nova che '1 Re ha retenuto il conte Lodovico Belzoioso qual havia conzo le cose sue con il duca di Barbon, poi era andato da Soa Maestà" (Sanuto, XLII, col. 531). Tuttavia ancora il Rosso informava, il 10 settembre, che il B. era riuscito a ritornare in Lombardia "et si tien sia acordato con inimici per servir Cesare, pertanto la Maestà del Re vol sia brusato Belzoioso si questo è, et se li toy il Stado" (ibid, col. 734).
In effetti risulta dalla corrispondenza dell'abate di Nájera con Carlo V che sin dall'agosto i principali esponenti imperiali in Lombardia, il connestabile di Borbone, Antonio de Leyva e il marchese del Vasto, avevano deciso di accettare la proposta di un gruppo di fuorusciti milanesi di parte guelfa, tra cui il B., di passare al servizio imperiale in cambio della restituzione dei beni e privilegi posseduti prima del 1521. Come, poco prima o poco dopo di lui, furono costretti a fare numerosi fuorusciti milanesi di parte guelfa, il B. aveva dovuto scegliere - poiché ormai le fortune francesi e sforzesche in Lombardia apparivano compromesse, e non lo tratteneva una vantaggiosa condotta militare - tra la fellonia e la rinunzia definitiva ai propri interessi nel ducato. La sua scelta si dimostrò accorta, poiché le rappresaglie di Francesco I dovettero limitarsi alla confisca della castellania di Rouvres, attribuita il 12 riov. 1526 al governatore di Borgogna Filippo Chabot, mentre gli Spagnoli compensavano largamente il B. di questa perdita non solo restituendogli i beni familiari di Lugo e Belgioioso, ma concedendogli, nel gennaio del 1527, i feudi di Castel San Giovanni e del castello e contado di Monza, le terre di Villanova e Casalnovo, il 9 aprile successivo, e il feudo di Aghemo, nel Novarese, il 28 maggio, ai quali si aggiunsero poi il castello di Cotignola, con diploma di Carlo V del 29 ott. 1528, e il castello di San Colombano, il 24 apr. 1529.
Il B. ottenne subito una posizione di primo piano nel campo imperiale: gli fu infatti affidato il comando delle fanterie italiane, cinque "bandiere", cioè circa cinquemila uomini, che egli stesso reclutò nel Genovesato, nell'Alessandrino e nel Pavese. Erano milizie raccogliticce di cui il Sanuto poteva scrivere sprezzantemente "homeni del paese et mal apti a guerra et gente desordenata", che come "se levassero de la terra se desfanteriano" (XLIV, COI. 243), assai più idonee dunque a taglieggiare le popolazioni civili che a fronteggiare gli eserciti regolari delle grandi potenze. E infatti le lamentele dei contemporanei verso le milizie del B. sono unanimi: "l'è vero che Spagnoli hanno fatto mal assai -scriveva il cronista milanese Burigozzo - ma questi Taliani hanno avanzato assai assai là dove sono stati suxo per lo paese, et in la robba in le persone e in l'onore delle donne; tanto che se Turchi venessero in queste bande non fariano el mal qual fanno costoro" (p. 464). Pure con queste truppe il B. assolse ad una importante missione di disturbo e di alleggerimento della pressione dei collegati, in un momento in cui la situazione in Italia degli Spagnoli era di netta inferiorità per il ritardo dei soccorsi di lanzichenecchi guidati dal Freundsberg. E quando, nel gennaio del 1527, gli imperiali mossero verso Roma, al B. fu affidato l'incarico di difendere Milano con il solo ausilio di questi "Taliani", in attesa dei nuovi contingenti spagnoli. La popolazione milanese fu terrorizzata dalla prospettiva di rimanere in balia di una così temibile guarnigione e fece appello alla protezione del B., il quale con magnanimità la concesse contro l'impegno dei cittadini a pagare ai soldati una diaria di 300 ducati, "aziò non vivano a descritione - come scriveva al senato veneto il podestà di Crema - et li facciano di le cose hanno fatto del monte di Brianza; che dificil mi saria scriverle, et a vostra magnificentia crederle" (Sanuto, XLIV, col. 105). Fu probabilmente il fatto di essere così divenuto arbitro della sorte della sua città a stimolare nel B. il sorgere di spropositate ambizioni di signoria che, se divennero esplicite soltanto più tardi, per il momento provocarono incessanti contrasti con il de Leyva; di questo il B. "se teniva mal satifatto... perché monsignor di Borbone lo havea lassato per governador in Milano, et che ora il Leva gli havea tolto tutta l'autorità": così annotava il Sanuto nel marzo del 1527 (ibid., col. 232) e significativamente aggiungeva che per suo conto il comandante spagnolo "non se fida molto del conte Lodovico di Belzoioso" (ibid.).Un contrasto, questo, che continuò ad opporre il B. ed il de Leyva anche in seguito: ancora il Sanuto riferiva che nel giugno del 1527, allorché il B. non riuscì ad impedire un ammutinamento dei suoi fanti, il de Leyva scrisse a questo lettere "exortatorie, che non obstante el motino fatto, stesse di bono animo che sapea ben soa bona fede, et che per causa sua non era seguito, ma che erano cose solite accadere nei campi; et altre simile parole generale, a la spagnola" (XLV, Col. 292), ma subito confermava che "havia aviso tra Antonio de Leva et il conte Lodovico di Belzoioso esser grande inimicitia" (ibid., col. 303). Certo che il B. autorizzava l'ostilità del maggiore esponente, al momento, della politica imperiale in Italia, con le sue ambigue manovre: come quando, nel giugno del 1527, prese contatto con i guelfi di Piacenza, tramite il fratello Pierfrancesco, per crearsi appoggi personali nella città e giustificare così le proprie pretese al governo di essa quando il papa, come si credeva imminente, l'avesse consegnata a Carlo V; o come quando, nell'ottobre del 1527, preposto dal de Leyva alla difesa di Pavia contro il Lautrec, tenne un contegno assai poco chiaro e fu unanimemente ritenuto responsabile dello spaventoso saccheggio al quale fu sottoposta la città.
Una troppo rapida allusione del Sanuto, secondo il quale il Lautrec avrebbe avuto "qualche intelligentia" (XLVI, col. i 18) con il B., non ha conferma; è tuttavia difficile trovare una giustificazione allo strano comportamento del B., il quale, pur disponendo di troppo scarse truppe e provvigioni per fronteggiare validamente i Franco-Veneziani, rifiutò nettamente ogni proposta di resa, ignorando le suppliche dei magistrati pavesi i quali temevano che se la città fosse stata presa d'assalto non avrebbe potuto evitare il sacco; poi, dopo che invano "ogni dì la terra havia fatto procession pregando Idio li inspirasse a rendersi" (ibid.,col. 169), come vide che gli avversari si disponevano ad un attacco decisivo, si calò clandestinamente dalle mura e si consegnò al Lautrec, mentre la guarnigione tentava un'ultima disperata resistenza. Il sacco che seguì fu deprecato dagli stessi capi confederati, i quali unanimemente ne attribuirono la responsabilità al Barbiano. "Quanti son stà trovati sono stà tagliati a pezi, et la città tutta hora si saccheggia, che e una compassion a veder tanti strussii di donne et religiose per man di guasconi et frantopini" scriveva il provveditore generale veneto al campo Domenico Contarini (ibid., col. 172). E Gerolamo Contarini aggiungeva: "Quel idioto di Lodovico Belzoioso è sta causa di tuto sto male" (ibid., col. 174).
Dal Lautrec il B. fu ceduto ad un gentiluomo del seguito, Giovanni Girolamo Castiglione, dal quale fu condotto prigioniero a Genova; ma già nel febbraio del 1528 era tornato a Milano, probabilmente in seguito al pagamento del congruo riscatto d'uso. Non pare che l'episodio di Pavia gli nuocesse, perché subito riprese il comando di tutte le fanterie italiane, alle quali si erano aggiunte tre "bandiere" di lanzichenecchi; con queste truppe, alla fine di febbraio, il B. si portò in Brianza, con l'intenzione di soccorrere Lecco e minacciando di passare l'Adda e di penetrare in territorio bergamasco. Il 13 maggio poi, con un colpo di mano reso possibile dal tradimento di un capitano veneto, riconquistò Pavia. Poco dopo era nuovamente a Milano, con l'incarico di promuovere i lavori di fortificazione delle mura e del castello, che egli affidò all'architetto Cesare Cesariano. Nel giugno il de Leyva lo inviò a Piacenza, ufficialmente a raccogliere soldati, ma col segreto intento di sollevarvi difficoltà al dominio pontificio, primo dei tentativi spagnoli contro quella città, la cui annessione allo Stato di Milano fu nel trentennio seguente un disegno costante della politica imperiale in Lombardia. Al prìncipio del 1529, in qualità di luogotenente del de Leyva, era nelle province dell'Oltrepò e quindi a Genova; qui provvide alle difese della città, pretendendo a questo fine un contributo dì 120.000 ducati dai Genovesi, i quali vi si rassegnarono con assai vive manifestazioni di malcontento. Il B., anche in virtù di forti somme ricavate dalla vendita di grano inviato dalla Spagna, poté così reclutare nuove milizie nel Piacentino e in Corsica con le quali contribuire alla difesa di Milano contro l'attacco in forze che i Veneziani e gli sforzeschi stavano preparando.
In quanta considerazione questi servigi del B. fossero tenuti dagli imperiali appare chiaramente dalla carica che Carlo V gli attribui, nel settembre del 1529, di capitano generale delle fanterie spagnole in Lombardia. Ma il B. non se ne ritenne soddisfatto, poiché la pur importante carica lo manteneva alle dipendenze del de Leyva; di qui le sue lamentele allo stesso imperatore, dei tutto vane, però, perché Carlo V lo rinviò significativamente allo stesso de Leyva. "Intendo che ditto conte - scriveva a Venezia Alberto Scotti - se ritorna tanto mal contento che si tiene, se '1 sapesse ove attaccarsi, che '1 pianterebbe costoro; et così se ha per servir ultramontani. De italiani costoro non ne fanno conto"(Sanuto, LI, col. 610). Tuttavia nell'ottobre Carlo V chiamò il de Leyva presso di sé, per servirsi dei suoi consigli politici nelle trattative con Clemente VII a Bologna, e il B. ebbe interinalmente sia il governo supremo dell'esercito sia quello di Milano. E a questo punto, mentre nel congresso di Bologna si discutevano tra l'altro anche le sorti dello Stato di Milano, il B. rivelò pienamente le anacronistiche ambizioni che già da tempo era venuto alimentando. L'oratore veneto a Bologna Gaspare Contarini riferiva infatti il 17 novembre "come erano stati da lui alcuni milanesi et agenti del conte Lodovico Belzoioso, dicendo, el duca de Milano non è abile al stado et però, volendo la Signoria, Cesare darà quel ducato al dito conte Ludovico, et da mò esso conte è contento lassar a la Signoria Cremona a la Geradada, come havea prima" (Sanuto, LII, CoI. 248). Contemporaneamente il B., secondo la testimonianza del cronista lodigiano G. S. Brugazzi, cercava di premunirsi contro l'eventualità di una restaurazione di Francesco II Sforza "sino a voler eccitare il popolo di Milano contro di lui, con dire che gli avrebbe diffesi a dispetto di tutto il mondo in libertà con tutti i suoi aderenti" (p. 390); non solo, ma cercava anche di impedire l'instaurazione del dominio spagnolo sul ducato facendo "scrivere lettere alla Maestà Cesarea da alcuni suoi amici, col dire che i Milanesi non lo volevano per duca né per signore" (ibid.). Queste oscure manovre del B., che del resto corrispondevano alle ultime disperate aspirazioni autonomistiche di una piccola frazione della nobiltà milanese, non ebbero alcun risultato. L'oratore veneziano a Bologna replicò agli inviati del B. che "la Signoria non desiderava altro stado, ma ben mantenir la fede data al duca de Milan, et altre parole in simel sustancia", dopo di che "andò dal papa, qual li disse el tuto" e "Sua Santità laudò de la risposta" (Sanuto, ibid.); quanto ai Milanesi, "gli fu risposto che non volevano più impazzire, che bastava assai le pazzie fatte per il passato, delle quali Antonio de Leyva gli aveva fatto far la penitenza" (Brugazzi, ibid.). on queste iniziative il B. ormai si era esposto ad una rottura definitiva con gli imperiali: e certo doveva aver calcolato il rischio, e averlo ritenuto proporzionato alle sue spropositate ambizioni. Ma non ebbe il tempo di essere colpito dall'ira di Carlo V: "finalmente - come racconta il Brugazzi - vedendo che niente gli giovava, circa la fine del mese di gennaio R 5301 ... passò da questa a mìglior vita, quasi disperato" (ibid.).Sulla morte del B. corse anche qualche sospetto di veleno, tanto parve improvvisa e opportuna. Lasciò eredi i figli del fratello Pierfrancesco, legando mille scudi d'oro ad una figlia naturale. La maggior parte dei feudi concessigli dagli Spagnoli, provenienti per lo più da confische ai danni dei fuorusciti e degli esponenti del partito francese, tornarono alla Camera ducale o agli antichi proprietari.
Fonti e Bibl.: Milano, Bibl. Trivulziana, Arch. Belgioioso, cart. 113, Fatti illustri del conte L. di B.; Ibid., Memorie genealogiche et storiche de' Conti di Cunio, Lugo e Belgioioso raccolte da... C. G. Vecchi, pp. 187 ss.; Cronaca di Milano scritta da Giovanni Marco Burigozzo merzaro (1500-15), in Arch. stor. ital., III (1842), pp. 464 s., 470, 473 s., 500-502;, Relazione delle cose successe in Pavia dal MDXXIV al MDXXVIII scritta da Martino Verri, a cura di G. Müller, in Raccolta di cronisti e documenti storici lombardi inediti, II, Milano 18:57, pp. 222-228; Néo Nations diplomatiques de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini e A. Desiardins, II, Paris 1861, pp. 774, 1069; G. S. Brugazzi, Vicende di Lodi dal 1528 al 1542, a cura di A. Timolati, in Arch. stor. lombardo, 11 (1875), pp. 387, 390; Calendar of letters, despatches, and state Papers, relating to the negotiations between England and Spain, III, 2, a cura di P. De Gayangos, London 1877, pp. 280, 307, 360, 419 s., 426 s., 678, 880, 906; IV, 1, a cura di P. De Gayangos, ibid. 1879, pp. 27, 36, 98 s., 124; M. Sanuto, Diarii, XXXILII, Venezia 1891-1898, passim; Catalogue des actes de François Ier, V, Paris 1892, pp. 799 S.; La politica espanola en Italia. Correspondencia de don Fernando Marin, abad de Ndiera, con Carlos I, a cura di E. Pacheco y de Leyva, I, Madrid 1919, p. 220; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, V, passim; Famiglie notabili milanesi, I, Milano 1875, tav. II; L. Beltrami, Un disegno originale del progetto delle fortificazioni di Milano, in Arch. stor. lombardo, XVII (1890), p. 157; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano, X, Milano 1892, pp. 58 s.; A. Manno, Il patriz. subalpino, II, Firenze 1906, p. 181; E. Casanova, Dizionario feudale delle provincie componenti l'antico stato di Milano, Milano 1930, p. 14; C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, 1, Milano 1936, p. 69; G. Franceschini, Le dominazioni francesi e le restaurazioni sforzesche, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, p. 294 s.