BARBIANO di Belgioioso, Carlo
Nacque nel 1458 o nel 1459 da Ludovico Barbiano, conte di Belgioioso, e da Eleonora di Raffaele Mandelli. Da lui il nome del feudo divenne parte integrante del cognome di famiglia.
Erede di una tra le più illustri casate milanesi di parte guelfa, che tuttavia aveva aderito sin dagli inizi alla signoria sforzesca, il B. trasse dal clima umanistico della corte di Galeazzo Maria Sforza e dall'insegnamento di Cola Montano quei lineamenti morali e culturali che lo fecero considerare alla corte francese, durante i lunghi anni che ebbe rapporti con essa, come il tipico rappresentante della civiltà rinascimentale italiana, con quello che di prestigioso e insieme di ambiguo e sospetto comportava agli occhi dei Francesi di Carlo VIII e di Luigi XII una tale condizione. Rivoltosi, secondo le tradizioni familiari, al mestiere delle armi, il B. entrò al servizio del duca Gian Galeazzo e intorno al 1490 era al comando di una squadra navale milanese che nel Tirreno e nel Mediterraneo orientale proteggeva il commercio tra Genova e la Spagna contro gli attacchi dei corsari barbareschi. Dovette però abbandonare gli impegni militari in seguito alla morte di un fratello maggiore che lo richiamava a Milano alla responsabilità di capo della famiglia. Non cessò tuttavia dal servizio sforzesco, anzi divenne uno dei più vicini collaboratori di Ludovico il Moro fino ad essere designato, nel 1492, ambasciatore permanente alla corte di Francia, proprio nel momento in cui i rapporti con Carlo VIII si concludevano nell'intesa per la spedizione di Napoli.
Il B. parti da Milano il 24 febbraio di quell'anno, in compagnia del conte di Caiazzo, di Gerolamo Tuttavilla e di Galeazzo Visconti. Ufficialmente gli inviati milanesi dovevano congratularsi con il re per il suo matrimonio con Anna di Bretagna e per la conseguente unione della Bretagna al regno di Francia. Dovevano inoltre, come stabiliva un'istruzione segreta del 22 febbraio, informare Carlo VIII della proposta del re d'Inghilterra di una alleanza contro la Francia e del rifiuto ad essa opposto dal governo milanese; soprattutto però l'ambasceria doveva ribadire la piena solidarietà di Ludovico il Moro con i progetti italiani del re, garantendo anche, secondo quanto riferisce il Commynes, "gran servíces et aydes tant de gens que d'argent; car ja povoit son maitre (il Moro) disposer de l'estat de Millan comme s'il eust esté sien" (II, p. 120).
Ripartiti subito i suoi compagni da Parigi, il B. rimase presso il re "non come oratore ma sollicitatore grandissimo" dell'impresa italiana, secondo l'espressione del Sanuto (La spedizione di Carlo VIII in Italia, p. 30). In effetti il B. affiancò subito la propria azione a quella del partito di corte favorevole al programma italiano di Carlo VIII, i cui maggiori esponenti, il siniscalco Stefano de Beaucaire e il vescovo di Saint-Malo Pietro de Lavalle, erano anche personalemente assai legati a Ludovico Sforza. A gara con i fuorusciti napoletani il B. si sforzò di vincere con promesse e con doni le ultime resistenze della corte francese alla spedizione e ancora il Sanuto ricorda che il diplomatico milanese "cotidie con li signori dil parlamento sollicitava questa venuta dil re in Italia" (ibid.).L'influenza che il B. andò in tal modo acquistando alla corte francese è del resto confermata dalla stessa antipatia che il Commynes, personalmente ostile alla politica italiana, mostra chiaramente verso di lui nei suoi Mémoires e dalle ripetute lamentele degli altri agenti diplomatici italiani, i quali si vedevano continuamente posposti a lui nelle loro relazioni con Carlo VIII.
Probabilmente però le maggiori difficoltà alla missione del B. vennero da parte di Ludovico Sforza; cominciava infatti a farsi strada nel duca di Bari il sospetto che la spedizione francese avrebbe potuto anche risolversi a suo danno: di qui le significative oscillazioni della politica sforzesca nella primavera del 1493, di qui le trattative più o meno segrete con Venezia e con la corte imperiale, proprio mentre il B. prendeva a Parigi gli accordi definitivi con Carlo VIII. Fu certamente l'urgente necessità di accertarsi personalmente delle intenzioni del Moro ad indurre il B. a lasciare improvvisamente Parigi alla fine del maggio 1493 e recarsi incontro allo Sforza in viaggio per Ferrara, con una precipitazione che fu largamente rilevata in Italia e in Francia in quel momento di grande tensione politica. E fu mche, forse, la preoccupazione di mettere in guardia il Moro da iniziative diplomatiche che potevano rivelarsi pericolose, dal momento che ormai la spedizione di Napoli era stata decisa, come confermò poco dopo l'oratore ufficiale francese Perron de' Baschi, giunto a Milano il 28 giugno per ottenere dal duca la conferma degli impegni dell'alleanza.
In effetti Gian Galeazzo Sforza ribadì quanto il B. aveva già assicurato a Carlo VIII, cioè il libero transito dell'esercito francese nel ducato, un soccorso di 500 lance e l'autorizzazione ad armare navi nei porti di Genova e di Savona. Ma intanto alla corte francese l'improvvisa partenza del B. aveva destato qualche perplessità; scriveva infatti il 17 luglio il residente mediceo Francesco della Casa a Piero de' Medici che i Francesi "aspettono certo avviso e risposta del Signor Lodovico, e secondo quello si governeranno; che, senza suo consiglio e saputa delle cose di Italia, non determinano cosa alcuna, e massime trovandosi di là il conte Carlo, l'andata del quale non intendo che fussi ad altro effetto, se non èper consigliarsi con il signor Lodovico, e assodarsi seco, che è summa totius rei di questa impresa" (Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, I, p. 235). Certo i maneggi del Moro non dovevano essere del tutto sfuggiti a Carlo VIII il quale, quando il B. alla fine di settembre fece ritorno alla corte francese, allora ad Amboise, proruppe in aperte minacce contro lo Sforza, assicurando che avrebbe portato a fondo l'impresa, dalla quale riteneva di non potersi ritrarre "senza sua grande infamia", anche se gli fosse mancato l'appoggio del duca, aggiungendo però che "non li mancharia modo a farlo pentire se li mancasse, perché l'haveva el duca de Orliens quale se scia quanto aspira a quello stato de Milano", mentre, d'altra parte, non mancavano a Napoli coloro dai quali, "per divertir (lo) de fare l'impresa contra, se li fa proponere la impresa di Milano". Il B., riferendo puntualmente questo colloquio al Moro il 28 settembre, concludeva che "se innanzi ho conosciuto (Carlo) disposto a questa impresa, ora vi si dimostra si sprofondato cll'io ne resto stupefatto" (Negri, Studi sulla crisi italiana, p. 142).
La decisione del sovrano francese tagliava così corto a tutti gli indugi, le perplessità, le riserve mentali e, mentre il Moro, per giustificare il proprio atteggiamento nei riguardi dei Francesi, faceva conoscere la lettera del B. con le esplicite minacce di Carlo VIII alle corti di Ferrara, Venezia, Roma e Napoli, il diplomatico milanese si affannava a dar mostra di zelo nella preparazione della spedizione per riguadagnare allo Sforza la fiducia del sovrano. Riuscì nel suo intento al punto che il vescovo d'Arezzo Gentile Becchi doveva scrivere da Tours, il 9 dic. 1493, a Piero de' Medici che alla corte francese si riteneva che il B. non avrebbe potuto resistere "in tante faccende, finanze, pratiche esteme, e mille commessioni, che gli dà ogni dì il Re" (Négociations, p.355): tutto questo mentre toccava al B. neutralizzare l'opera degli altri diplomatici italiani ("Al re non si lascia parlare a solo noi altri, perché non sconciamo quello ha acconcio. Il conte Carlo resta tre o quattro ore", scriveva ancora il Becchi, ibid.)e, ancor più, giustificare le sempre ambigue iniziative del Moro agli occhi dei Francesi, come nel caso dei contatti che lo Sforza continuava a tenere con Massimiliano d'Asburgo, che il B. cercava di ricondurre, d'accordo con l'oratore milanese a Salisburgo, Erasmo Brasca, ad una prospettiva di collaborazione francoimperiale "cum speranza de concludere insieme qualche grande impresa contra infedeli, a la expugnatione de li quali sua Maestà christianissima ha tuto lo suo intento" (Calvi, p. 59 ). D'altra parte, duttile alle necessità della politica del Moro, doveva, proprio mentre si prodigava per la riuscita della spedizione, ostentare la mancanza di scelte che imponeva l'iniziativa francese, cercando di indurre i Fiorentini "a pigliare il partito che ha preso il signor Lodovico, di non voler la guerra in casa sua", come scriveva a Piero de' Medici il Della Casa (Négociations, p. 284): in questo tuttavia non riuscendo del tutto ad ingannare gli accorti agenti toscani, i quali sapevano molto bene quanto il residente milanese si prodigasse presso il re per ottenere da Piero de' Medici un preciso impegno di fiancheggiamento della spedizione. Finalmente, superate tutte le difficoltà diplomatiche, il B., insieme col de Beaucaire, ebbe un ruolo di primo piano nell'organizzazione dell'armata francese in Provenza.
Ma ancora, quando ormai la spedizione era in pieno svolgimento (l'esercito francese era arrivato ad Asti), il B. dovette temere che il faticoso edificio costruito dalla diplomazia sforzesca rovinasse miseramente e dovette ricorrere a tutte le proprie risorse per impedire che il più banale degli incidenti si risolvesse in un danno irreparabile: nel settembre del 1494, infatti, approfittando della "petite vérole" che impediva momentaneamente a Carlo VIII di esercitare il comando della spedizione, il duca d'Orléans cercò d'imporre il suo vecchio progetto di portare l'armata contro il ducato di Milano, fiancheggiato in questo non soltanto da alcuni dei maggiori esponenti della corte, ma anche dalle irriducibili nemiche di Ludovico Sforza, la duchessa di Savoia e la marchesa di Monferrato. Forse l'affannoso prodigarsi del B. non sarebbe bastato a sventare la minaccia se la rapida guarigione del re non avesse ristabilito il corso primitivo degli eventi.
Poi il B. seguì Carlo VIII a Firenze ed a Roma, mettendo a frutto l'appoggio del re nella difesa degli interessi di vari esponenti della famiglia Sforza, di Caterina, per la quale trovò "sua Maestà benissimo disposita de observarsi quanto li è stato promesso" (Pasolini, p. 225), e del cardinale Ascanio, per il quale, insieme con l'oratore milanese a Roma Stefano Tavema, cercò di ottenere la liberazione. Quando cominciarono a raffreddarsi i rapporti tra Carlo VIII ed il Moro, dovette partecipare al re il rifiuto dello Sforza di prendere parte personalmente alla invasione del Regno di Napoli, ed è dubbio che egli stesso vi abbia effettivamente partecipato, almeno agli inizi. Nel febbraio del 1495 era comunque a Napoli, incaricato, insieme con Matteo da Trino, di esortare Carlo VIII alla pace e nello stesso mese il re, che sentiva addensarsi su di sé l'ostilità generale, lo rimandava a Milano per tentare una riconciliazione col Moro, "confessando che quello è seguito è stato errore, ma che ne l'adveriire el non ha più a seguire" (Segre, 1903, p. 90), soprattutto con l'intento di indurre lo Sforza a farglisi mediatore con Massimiliano d'Asburgo.
Dopo Fornovo il B. ottenne da Lodovico Sforza l'incarico di governatore di Pavia che gli permise di curare da vicino gli interessi del suo feudo di Belgioioso, la cui proprietà gli fu poi confermata, col diritto di vicariato, con un diploma del 20 ag. 1497.
Il B. fu nuovamente incaricato di una missione diplomatica nell'aprile del 1496 arorché, morto Carlo Giovanni Amedeo, il ducato sabaudo passò a Filippo II: al nuovo duca, poiché si stava "con suspecto che 'i re di Franza non tolesse quel state, per esserli comodo alle cosse de Italia" (Sanuto, Diarii, I, col.118), il B. offrì l'aiuto politico e militare di Ludovico Sforza.
Nel 1499 il B. era ad Alessandria, nell'esercito sforzesco che si preparava all'estrema resistenza contro l'armata di Gian Giacomo Trivulzio. Arresasi la città il 29 agosto, il B. cadde nelle mani dei vincitori, ma la sua liberazione non taìdò che qualche giorno: resosi infatti conto che il ducato di Milano era ormai in saldo possesso di Luigi XII, concordò con'il Trivulzio la propria adesione al nuovo regime, così come del resto venne facendo nello stesso tempo la maggior parte della vecchia fazione guelfa milanese; poté così ritornare subito a Milano e ottenere di lì a poco, con un diploma del 3 sett. 1500, la conferma di tutti i feudi e privilegi concessi alla sua famiglia dai duchi di Milano. Era quanto bastava a fare del B. un così fervente fautore dei nuovi signori come lo era stato di Ludovico il Moro: tanto da ottenere da Luigi XII una pensione di 500 lire, come risulta dalle Chroniques del d'Auton per l'anno 1510. Del tutto naturale quindi la rappresaglia degli sforzeschi quando nel 1512 gli Svizzeri attribuirono il ducato a Massimiliano; il B., infatti, fu imprigionato e processato con altri partigiani dei Francesi ed i suoi beni furono confiscati ed assegnati a Giovanni Gonzaga; per breve tempo, tuttavia, ché ormai il B. era abbastanza esperto per far corrispondere le proprie inclinazioni politiche alle oscillazioni del governo milanese: le sue assicurazioni di lealismo gli ottennero infatti dallo Sforza di essere reintegrato nei suoi privilegi e nelle sue proprietà già il 29 nov. 1513.
Per alcuni anni non si hanno più notizie di lui, ma pare verosimile che egli tornasse a schierarsi con i Francesi quando questi, dopo la battaglia di Marignano, ripresero possesso del ducato: nel febbraio del 1522, infatti, lo si incontra alla corte di Francesco I da dove l'oratore veneto Giovanni Badoer informava il proprio governo che il re "mandava in Italia monsignor di Lescu (Lescun) con provision di danari, e il conte di Belzoioso, con ordine vengi poi ditto Lescu a Veneciaet che non potendo passar ditto Lescu, el prefato conte Carlo si ha offerto di passar là et non dubita de i nimici" (Sanuto, Diarii, XXXII, col. 435); e ancora nell'ottobre del 1524 sì recava dalla Francia ad Asti nell'esercito di Teodoro Trivulzio.
Dopo questa data non si hanno altre notizie del B. e non si sa quindi se anche lui, come i suoi figli, dopo la battaglia di Pavia dell'anno successivo, tornasse ad abbandonare i Francesi per schierarsi con i nuovi dominatori spagnoli, come pure sarebbe stato coerente con tutto il suo precedente comportamento di tipico esponente della vecchia aristocrazia milanese, tesa soltanto a salvare nella drammatica crisi dello stato di quegli anni i propri privilegi ed i propri feudi. Che a questi il B. fosse affezionatissimo appare dalle cure assidue che egli vi rivolse, incrementandone la produzione agricola con opere notevoli d'irrigazione e stabilendo un importante mercato periodico nel borgo di Belgioioso.
Sposò Caterina di Pierfrancesco Visconti, dalla quale ebbe Alberico, Ludovíco e Pierfrancesco, in favore dei quali testò il 14 luglio 1514.
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