STROZZI, Barbara
STROZZI, Barbara. – Nacque a Venezia da Isabella Garzoni (detta la Griega o la Greghetta) e fu battezzata il 6 agosto 1619 nella parrocchia di S. Sofia.
Adottata dallo scrittore Giulio Strozzi, membro eminente dell’Accademia degli Incogniti promossa in Venezia nel quarto decennio da Giovan Francesco Loredan, si ipotizza che possa essere stata sua figlia naturale: in un documento da lei stilato pochi mesi prima di morire si dichiarò infatti, forse per la prima volta, figlia del «quondam Giulio» (Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Atti, b. 1278, c. 23v, 8 maggio 1677). Anche il padre e il nonno paterno erano figli illegittimi. In un testamento del 1628 Giulio tuttavia la chiamò Barbara Valle (Rosand, 1978, p. 242); e resta nebulosa la data in cui, verso il 1620, egli fece rientro da Roma a Venezia (v. la voce in questo Dizionario). Poco si sa della madre, che visse con lei e con Giulio fino alla morte, nel 1653.
Barbara con Francesca Caccini fu una delle donne compositrici più acclamate del Seicento. Adolescente, fu lanciata dal padre nel mondo culturale veneziano. Fin dal 1634 si produceva come cantante in casa Strozzi. Nel dedicare le proprie Bizzarrie poetiche poste in musica a 1, 2 e 3 voci (Venezia 1635) a Giovanni Paolo Widmann (Vidman), mercante carinziano residente a Venezia e membro d’una famiglia variamente interessata alla musica (Küster, 1995), Nicolò Fontei dichiara di averle composte in primis «per compiacerne principalmente la gentilissima e virtuosissima donzella la signora Barbara [...] quasi decima sorella per avanzarsi con l’età sopra il coro dell’altre Muse». In gran parte i versi di questo come del successivo libro di Fontei (Venezia 1636), anch’esso destinato a Barbara, furono di Giulio Strozzi, che nella propria dimora dovette tenere in quest’epoca un’accademia informale: il poeta genovese Gian Vincenzo Imperiale, anch’egli membro degli Incogniti, il 1° novembre 1635 scrisse infatti d’aver ascoltato Barbara Strozzi, da tutti «stimata una delle Muse di Parnaso», cantare in casa del padre (Viaggi di Gian Vincenzo Imperiale, 1898, p. 270), e alcuni giorni dopo vi tornò per prender parte a quell’amena «conversazione»: «Verso il tardi si andò in casa del signor Giulio Strozzi a sentir un misto di soavità. Non so qual fusse maggiore, o il gusto che si ricevé dalla musica, o quello che si sentì da’ discorsi» (p. 275); e nel 1638 dedicò alla cantante una «diceria» poetica (Martinoni, 1983).
Nel 1637 Giulio Strozzi varò un’accademia in piena regola, gli Unisoni, cui presero parte parecchi Incogniti. Le descrizioni di alcune adunanze, pubblicate nelle Veglie de’ signori Unisoni (Venezia 1638), furono dedicate alla «signora Barbara Strozzi», che nell’accademia si esibì con altri musicisti e funse anche da maestra di cerimonie in alcuni dibattiti accademici. Fu lei a recitare i «discorsi accademici» redatti da Matteo Dandolo e da Loredan nella Contesa del canto e delle lagrime (Venezia 1638), sul quesito se nel fomentare la passione amorosa potessero più queste oppure quello. È stato suggerito che Lilla, se Amor non fugga, nel terzo libro delle Bizzarrie di Fontei (Venezia 1639), potrebbe essere stato cantato al cospetto degli accademici, data l’affinità con il tema dibattuto nella Contesa (Whenham, 1982, pp. 217-219). Non risulta invece che Barbara abbia mai calcato le scene, sebbene la sua notorietà si sia affermata proprio nel decennio in cui a Venezia vennero aperti i primi teatri d’opera, nei quali il padre fu direttamente coinvolto al più tardi dal 1639.
Gli Unisoni, e in particolare i due Strozzi, furono il bersaglio di svariate satire, l’uno per i componimenti poetici, l’altra per la fama di cortigiana (Rosand, 1978, pp. 249-252; tra i libelli indirizzati alla cantante manca all’appello il Ragguaglio di Parnaso del cremasco Niccolò Francesco Molinelli, stampato in Venezia nel 1638 e nel 1640, citato in bibliografie accademiche coeve). Intorno a quest’epoca l’acclamato pittore genovese Bernardo Strozzi (non un loro parente), attivo in Venezia dai primi anni Trenta, dipinse il ritratto di una giovane musicista, oggi generalmente individuata in Barbara Strozzi (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister; Rosand - Rosand, 1981), di cui nel 1639 venne fatta una copia (Glixon, 1997, p. 312). È ignoto il committente del dipinto, ma il pittore doveva essere assiduo della cerchia di Barbara: a lui si devono infatti ritratti di Giulio Strozzi e di Claudio Monteverdi, oltre che di Martino Widmann, fratello minore del citato Giovanni Paolo.
Barbara Strozzi avrà senz’altro frequentato parecchi Incogniti. Non per questo si possono ricondurre a lei i riferimenti a una donna di nome Barbara contenuti in due loro scritti. La lettera in cui Ferrante Pallavicino lamenta le ripulse di una certa Barbara è in realtà indirizzata a una «Barbara B.» (cfr. i suoi Panegirici, epitalami, Venezia 1649, pp. 158 s.; l’erronea identificazione è in R. Urbinati, Ferrante Pallavicino, Roma 2004, pp. 57-62). Quanto allo sfacciato comportamento tenuto da una «Signora Barbara» in occasione di un ballo, quand’anche si fosse trattato di lei, non fu certo suo padre il Giulio con la catena da cavaliere al collo con cui ella si scontrò (M. Miato, L’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan, Firenze 1998, p. 112).
Nel 1640 la cantante era in rapporti d’intimità con il citato Giovanni Paolo Widmann, amico del padre, che della vocalità di Barbara era stato ammiratore fin dal 1634, stando alla già menzionata dedica delle Bizzarrie di Fontei (1635). Giulio Piero Strozzi, il primo figlio nato dalla relazione adulterina – Widmann era ammogliato –, fu battezzato il 6 febbraio 1641, meno d’un mese dopo la ‘prima’ della Finta pazza, dramma di Giulio Strozzi dedicato a Widmann, con musica di Francesco Sacrati. È probabile che lo stesso mercante carinziano sia stato il genitore degli altri tre figlioli di Barbara, Isabella Aquilina (battezzata il 18 marzo 1642 coi nomi della madre di lei e della nonna paterna), Lauretta Lucietta (nota anche come Laura, nata il 10 dicembre 1643), e Massimo (battezzato col nome del santo di cui si veneravano le reliquie nella cappella Widmann in S. Canciano a Venezia). Giulio Pietro, Isabella e Lauretta furono tutti battezzati in S. Pietro di Castello, l’allora cattedrale del patriarcato di Venezia, come figli illegittimi di una «Madonna Barbara» e padre ignoto; Giulio Strozzi fu il padrino di Isabella e Lauretta (Venezia, Archivio storico del Patriarcato, Parrocchia di S. Pietro di Castello, Battezzati 1623-1640, p. 219; 1640-1645, cc. 60, 72). Nel 1672 il testamento di Martino Widmann menziona sia Giulio Pietro sia Laura, gli unici due figli della Strozzi allora in vita in Venezia (Glixon, 1997, pp. 319 s.); Giovanni Paolo Widmann, nato nel 1605, era morto il 26 maggio 1648 (Archivio di Stato di Venezia, Provveditori e Sopraprovveditori alla sanità, Necrologio, reg. 874).
A quanto risulta, Barbara Strozzi poté godere di discrete condizioni economiche. Nel dicembre 1642 prestò 2000 ducati a Giovanni Paolo Widmann. Prestiti di minore entità fece poi al conte Sforza Bissari e alla nobildonna veneziana Chiara Priuli. Giulio Strozzi, invece, nei suoi testamenti del 1638 e del 1650, si dice sprovvisto di mezzi; in quest’ultimo dichiara di testare «per levar ogni incommodo e travaglio che potesse ricevere chi mi tiene in casa» e di fatto l’abitazione in cui alloggiava allora Giulio era affittata da Barbara. In ambo i testamenti afferma di non avere risorse da lasciare agli enti assistenziali della città, affidandosi a Barbara perché effettuasse lei, a sua intenzione, le donazioni di rito, come (diceva) avrebbe fatto «volentieri, ricordandosi di quanto ho fatto io per lei in allevarla et metterla sul cammino della virtù». Giulio morì il 31 marzo 1652 e la madre della cantante, «Madonna Isabella Strozzi», l’anno dipoi (Glixon, 1997, p. 319).
Alcuni mesi dopo la nascita della terza figlia, Lauretta, la cantante venticinquenne pubblicò la sua opera prima, Il primo libro de’ madrigali [...] a due, tre, quattro, e cinqe voci (Venezia 1644; ed. facsimile Stuttgart 2002; ed. a cura di R. Kolb, Los Alamos, 2018). Lo dedicò a Vittoria della Rovere, granduchessa di Toscana, e non fu un caso, visti gli stretti contatti mantenuti da Giulio con il ramo fiorentino della famiglia. I testi dei madrigali furono tutti del genitore (ed. moderna in G. Strozzi, Poesie per il primo libro de’ madrigali di B. S., a cura di A. Aurigi, Firenze 1999); alcuni madrigali esibiscono una certa affinità con quelli degli ultimi libri di Monteverdi: il libro, apparso quasi un anno dopo la morte del maestro di cappella di S. Marco, potrebbe essere stato inteso come un omaggio alla memoria del musicista, con il quale Giulio era stato in rapporti fin dal 1621; Barbara certamente lo conobbe, sebbene non si sia mai dichiarata allieva sua. Dalle satire contro gli Unisoni risulta che almeno una volta Monteverdi prese parte alle loro adunanze (Rosand, 1978, p. 251). Peraltro la collettanea Sacra corona promossa da Bartolomeo Marcesso (Venezia 1656; ed. moderna a cura di P.A. Rismondo, Middleton, Wis., 2015) contiene un mottetto di Barbara, Quis dabit mihi tantam charitatem per basso, tenore e contralto, che suona quasi come la parafrasi d’una scena del Ritorno d’Ulisse in patria (Kendrick, 2002-2003): il che rivelerebbe l’evidente conoscenza di musiche manoscritte di Monteverdi.
Può darsi che Barbara avesse progettato di pubblicare la sua opera II (Cantate, ariette e duetti, Venezia 1651; ed. facsimile Stuttgart 2000; ed. a cura di R. Kolb, Los Alamos 2014) nel 1648 o nel 1649, giacché vi compare un brano epitalamico per le seconde nozze dell’imperatore Ferdinando III (con Maria Leopoldina d’Austria). Uscì invece soltanto nel 1651, ancora dedicato a Ferdinando, ma in occasione delle terze nozze con Eleonora II Gonzaga, celebrata nel brano d’apertura, Donna di maestà, di valor tanto. Nella dedica all’imperatore l’autrice dichiara d’essere stata «inanimita da’ molti professori di questa bell’arte, e particolarmente dal sig. Francesco Cavalli, uno de’ più celebri di questo secolo, già dalla mia fanciullezza mio cortese precettore». Il libro include il primo dei numerosi e cospicui lamenti composti da Strozzi, in questo caso di argomento politico: ha per soggetto l’esecuzione capitale del marchese Henri de Cinq-Mars, già favorito di Luigi XIII, in seguito alla congiura contro il ministro del re, Richelieu, antagonista degli Asburgo austro-spagnoli.
Strozzi dedicò sempre le proprie opere a uomini e donne di spicco, salvo le Cantate ariete a una, due, tre voci... dell’opera III (Venezia 1654; ed. facsimile Stuttgart 2000), che recano l’enigmatica intestazione «Ignotae deae», forse una versione al femminile del motto «Ignoto deo» che compariva sull’antiporta dei Sei dubbi amorosi di Loredan (Venezia 1647). L’opera IV è perduta: doveva essere compiuta nel 1655, stando a una lettera della cantante (10 novembre), e doveva essere dedicata a Carlo II, duca di Mantova, che ne aveva cantati alcuni brani in presenza dell’autrice (Glixon, 1997, pp. 323-325, 334). Le Ariette a voce sola dell’opera VI (Venezia 1657; edd. facsimili Bologna 1977, Stuttgart 1999) sono dedicate al principe Francesco Carafa, che a detta della dedica ne aveva già ascoltato parecchi brani: in effetti due arie erano apparse l’anno prima nella collettanea di Arie a voce sola curata da Francesco Tonalli (ed. a cura di P.A. Rismondo, Middleton, Wis., 2018). Carafa trascorse quattro anni a Venezia (cfr. B. Aldimari, Historia genealogica della famiglia Carafa, II, Napoli 1691, pp. 311 s.) e fu in amicizia con Nicolò Sagredo, procuratore di S. Marco e ambasciatore straordinario presso la Santa Sede, dedicatario dell’opera VII di Strozzi (Diporti di Euterpe overo Cantate et ariette a voce sola, Venezia 1659; edd. facsimili Firenze 1980, Stuttgart 1999; ed. a cura di R. Kolb, Los Alamos 2015). Di Sagredo, l’unico dedicatario veneziano di un’opera di Strozzi, la cantante parla come del suo «Dio tutelare». L’opera VIII, l’ultima da lei pubblicata di cui si abbia notizia (Arie, Venezia1664; edd. facsimili Bologna 1970, Stuttgart 2000; ed. a cura di R. Kolb, Los Alamos 2016), fu dedicata alla principessa palatina Sofia, duchessa di Braunschweig-Lüneburg, che visitò Venezia in quell’anno: il componimento d’apertura, su versi di Giuseppe Artale, è un omaggio alle virtù della dedicataria.
Tra i libri di musica di Barbara il più personale è forse l’opera V, libro I (e unico) di Sacri musicali affetti (Venezia 1655; edizioni facsimili New York 1988, Stuttgart 1999; ed. a cura di R. Kolb, Los Alamos 2016), una raccolta di composizioni devote a voce sola (solo l’antifona Salve regina ha un testo liturgico): potrebbero essere state eseguite in contesti diversi, ivi compresi gli appartamenti privati o la cappella della dedicataria, Anna de’ Medici, arciduchessa d’Austria. La dedica latina spicca per l’intima confidenza che ne traspare, ben diversa dalla consueta formalità. Strozzi potrebbe aver incontrato l’arciduchessa nel 1652, quando costei visitò Venezia con il marito Ferdinando Carlo, conte del Tirolo. Con queste musiche, pubblicate l’anno prima che le due figlie venissero accolte nel monastero del S. Sepolcro, Barbara volle forse rimodulare la propria immagine pubblica – dall’esibita sensualità della musa vagheggiata dagli Unisoni alla compunta devozione di una madre che consacra le figlie al chiostro – non senza invocare l’intercessione di sant’Anna, la madre della Vergine, santa tutelare dell’arciduchessa (Pecknold, 2015).
A differenza di molti musicisti coevi, Strozzi non musicò mai versi di Battista Guarini o del Marino. Oltre Loredan, tra i poeti da lei intonati figurano autori di drammi per musica come Pietro Paolo Bissari, Aurelio Aureli, l’Artale e Gaudenzio Brunacci, e nobili dilettanti come Marc’Antonio Corraro, Nicola Beregan e Pietro Dolfin. L’opera VII include componimenti dei rimatori romani Sebastiano Baldini e Giovanni Pietro Monesio, in auge tra i compositori di cantate in Roma. Di sicuro molti poeti poterono ascoltare i propri versi cantati in casa Strozzi. La musica di Barbara è assai spesso altamente virtuosistica, di certo tagliata su misura per le sue risorse vocali; né vi scarseggiano, accanto agli accenti patetici, spiccate manifestazioni dello spirito arguto che dovette animarla (Rosand, 1978, pp. 261-278).
L’ultima pubblicazione di Barbara risale al 1664 e all’infuori della lettera del 30 maggio 1665 in cui accenna a nuovi brani composti per il duca di Mantova (Glixon, 1997, pp. 324 s.) ben poco si sa delle sue attività musicali nell’ultimo decennio di vita. Non è impossibile che qualche altra sua opera sia uscita a stampa e sia perduta (p. 326). Si ignora altresì se abbia svolto attività didattica: potrebbe aver insegnato il canto a delle monache e potrebbe aver composto all’occorrenza musiche da eseguire per le professioni delle novizie, magari nel monastero del S. Sepolcro (cfr. F. Barbieri, Serie virtuose delle operationi esercitate [...] dalla signora Marietta Barbieri, Venezia 1692, p. 96; Glixon, 2017, p. 156).
Morì a Padova l’11 novembre 1677 in capo a tre mesi di malattia; fu inumata nella chiesa degli Eremitani (Glixon, 1999, p. 134).
Strozzi denominò perlopiù le proprie composizioni aria, cantata, arietta, soliloquio, lamento e, in un caso, serenata (Or che Apollo è a Teti in seno, 1664). Le pubblicazioni sopravvissute, nonché un certo numero di copie manoscritte, assicurarono al nome e alla musica di Barbara una certa notorietà in Inghilterra. A detta di Johann Christoph Pepusch, Strozzi avrebbe addirittura «inventato la miscela di recitativi ed arie» tipica delle cantate (così nelle Six English cantatas, London 1710, p. 2): John Hawkins raccolse e sviluppò questo spunto sulla scorta delle Cantate, ariette e duetti dell’opera II (A general history of the science and practice of music, IV, London 1776, p. 91). In realtà il genere della cantata da camera ebbe origine in Venezia già nel terzo decennio del secolo, quando Barbara Strozzi era ancora bambina.
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