SANSEVERINO, Barbara
– Nacque a Milano nel 1550, secondogenita di Gianfrancesco e della seconda moglie Lavinia Sanseverino sposata nel 1549.
Discendente di una delle più illustri famiglie del Regno di Napoli, un cui antenato Roberto, del ramo di Caiazzo, per meriti militari era stato investito dallo zio Francesco Sforza, duca di Milano, del ricco feudo di Colorno nel Parmense, Barbara visse contendendo ai parenti e ai duchi di Parma il possesso di quella terra. Alla morte di Roberto (1487) Colorno passò al figlio Gianfrancesco e al nipote Roberto Ambrogio, alla cui scomparsa (1532) fu trasferito alle figlie Maddalena e Lavinia. Sposando quest’ultima, il cugino in secondo grado Gianfrancesco Sanseverino, figlio di Giulio, figlio naturale di Roberto, subentrò nel feudo, ma avendo militato nell’esercito imperiale contro il duca di Parma Ottavio Farnese, fu imprigionato e privato della signoria di Colorno al suo rientro a Parma nel 1551. Dopo la pace di Gand (1556) Filippo II si adoperò per una loro riconciliazione, il cui esito positivo fu confermato da un motu proprio ducale (24 marzo 1564) che conferì a Gianfrancesco, insieme con la moglie Lavinia, la facoltà di disporre dei beni mobili e immobili a favore delle figlie e dei loro discendenti.
Quello stesso anno la sorella di Barbara, Giulia, si unì al milanese Giovan Battista Borromeo e Barbara, non ancora quindicenne, il 6 settembre, a Colorno sposò Giberto Sanvitale, conte di Sala, con una dote di 14.000 scudi d’oro. Con un’ulteriore concessione (27 gennaio 1565), Ottavio decretò che, morendo Gianfrancesco Sanseverino senza eredi maschi, il feudo fosse devoluto al fratellastro della moglie, Giangaleazzo, figlio naturale di Roberto Ambrogio, e alla sua discendenza maschile e che, in assenza di figli maschi, il feudo sarebbe passato a uno dei figli di Giulia o di Barbara. Nel testamento (21 maggio 1570) Gianfrancesco lasciò alle figlie una cospicua eredità, oggetto di annose liti tra Barbara e le figlie di Giulia. Gli succedette, a Colorno, Giangaleazzo, il quale, rientrato dalla Francia dove era dal 1571 al servizio dei Valois, fu arrestato con l’accusa di eresia (4 dicembre 1570) e trasferito nel carcere romano del S. Uffizio. Liberato nel settembre 1571, tornò in Francia dove fu assassinato dagli Ugonotti nel gennaio del 1575. Non lasciando figli maschi né lui, né Giulia, Ottavio (15 aprile 1577) designò signore di Colorno, elevato a marchesato, Girolamo nato nel 1567 da Barbara e Giberto, seguito nel 1571 dalla figlia Barbara. Essendo minorenne, l’usufrutto e la giurisdizione sul feudo sarebbero toccati a Lavinia, vedova di Gianfrancesco (morto nel 1578), e alla figlia Barbara.
Protetta dal duca che, si diceva, ne fosse invaghito, Barbara, dotata di una raffinata cultura, primeggiò nella società aristocratica. Quando, nell’ottobre 1572, si trasferì con la famiglia a Roma incantò la città per la sua avvenenza. In occasione delle feste date durante la visita del principe Alessandro Farnese «che duravano quasi sino a giorno», conquistò «tutti, donne et huomini, che è una cosa incredibile a Roma, perché non c’è mai stata signora principessa ch’habia tanto satisfatto quanto ha fatto questa signora», a tal punto che alla sua partenza (maggio 1575) fu scortata da duecento nobili cavalieri, lasciando la città «vedova» (Fragnito, 2013, p. 66). Nella sosta a Siena di ritorno da Roma «dimostrò tanto valore et tanto nobile et gentil procedere» che le gentildonne si spostavano «per contemplarla et ammirarla» (Ronchini, 1865, p. 12), e quando si recò per il carnevale del 1576 alla corte di Ferrara, dopo le sontuose nozze a Scandiano della figliastra Leonora (nata dal primo matrimonio di Giberto con Livia Barbiano di Belgioioso) con Giulio Thiene, ne ripartì «soddisfattissima [...] di questi signori per le feste, banchetti e giostre che se le son fatte, poi presentata e accarezzata a meraviglia» da Alfonso II (Solerti, 1900, p. CXCIII). Vi tornò per il parto di Leonora (19 gennaio 1577) e si godette «tutti gli spassi, feste e banchetti» del carnevale (p. CXVI). «Regista» delle feste, non prive di risvolti erotici, causa di disagi e spese per tutti, Barbara, che «intrepida ed indefessamente, e veglia e festeggia e trattiene, più bella e più fresca che mai» (p. CXCIX).
Solo l’assassinio della sorella Giulia nel 1577 l’indusse a rientrare a Colorno, ma non certo a rinunciare ai divertimenti. Non più giovanissima, nel 1587 partecipò a Sassuolo ai festeggiamenti per le nozze di Marco Pio Savoia, fratello della nuora Benedetta, con Clelia figlia del cardinale Farnese, e con la sua vitalità fu «il condimento d’ogni [...] passatempo» (Fragnito, 2013, p. 196).
Difficile dire quanto questa vita dispendiosa incidesse sul patrimonio di famiglia e inasprisse i suoi rapporti con Giberto, uomo pio e alieno da mondanità: certo è che era costantemente indebitata – anche per le continue liti con i parenti per il possesso di feudi minori, con i vassalli, con la Camera ducale e con il governatore di Parma. Camillo Gonzaga di Novellara, cui si era rivolta, le rifiutò un prestito osservando: «La signora Contessa di Sala si crede che la sua bellezza possa tanto nella borsa come può nei cuori degli uomini e non si avvede che il denaro è duro metallo et il cuore è carne che basta dir carne» (Barilli, 2007, pp. 507 s.).
Né, d’altro canto, i suoi spostamenti mondani erano del tutto disinteressati, come quando nel 1583 decise di approfittare delle «dolcezze» del carnevale ferrarese per strappare a Vincenzo Gonzaga esenzioni dai tributi sui beni nel Mantovano.
Forse esacerbato dallo stile di vita della moglie, accampando l’invalidità del vincolo per consanguineità, Giberto chiese l’annullamento del matrimonio: in realtà, come Barbara scriveva al suo protettore a Roma il cardinale Alessandro Farnese, era intenzionato a risposarsi stando al «tanto schiamazzo» che ne aveva fatto (Parma, Biblioteca palatina, Carteggio Farnesiano, cass. 107, Parma 10 dicembre 1584). Accusandosi vicendevolmente della richiesta di separazione, fu interpellato Gregorio XIII il quale affidò al vescovo di Parma Ferrante Farnese il processo (21 novembre 1584). Modificando le loro posizioni, Giberto si oppose tenacemente alla separazione e Barbara sostenne in una lettera al vescovo (7 dicembre 1584) che, avendo appreso della stretta parentela con il coniuge, «come cristiana, mi conviene aborrire ogni peccato, et particolarmente l’incesto» (Ronchini, 1865, p. 20). Il 3 aprile 1585 il papa ordinò al vescovo in attesa della sentenza di far chiudere Barbara in monastero, un «inferno» al quale implorò il duca Ottavio di sottrarla al più presto (11 luglio 1585, Archivio di Stato di Parma, Famiglie, Sanseverini, b. 484).
Morto Giberto (31 dicembre 1585), che aveva istituito erede unico Girolamo (destinando un legato di 22.000 scudi per la dote della figlia Barbara), Barbara reclamò dal figlio la restituzione della propria dote, ciò che ottenne solo grazie al duca Ottavio che obbligò il giovane ad assegnarle una parte congrua dell’eredità paterna. Fu l’ultimo atto a favore di Barbara compiuto da Ottavio, «un tanto e sì amorevole padrone» (Archivio di Stato di Parma, Epistolario scelto, b. 14), morto il 18 settembre 1586.
Da allora ella dovette misurarsi con l’ostilità di Ranuccio Farnese, reggente per il duca Alessandro, impegnato nella guerra di Fiandra, e affrontare vecchie liti riaccese da Ferrante Farnese per la restituzione di Colorno alla mensa episcopale e dissidi con Girolamo per la cattiva gestione dell’eredità paterna, aggravatisi in vista delle nozze della figlia e della necessità di disporre della dote, che egli si ostinava a non darle e che ancora dopo il matrimonio nel 1589 con François Perrenot de Granvelle, di illustre famiglia borgognona, non le era stata versata.
Morto nel 1592 il duca Alessandro e succedutogli Ranuccio, la situazione di Barbara si fece più difficile sia per l’accelerazione data dal nuovo duca all’indirizzo accentratore dei suoi predecessori, attraverso provvedimenti che colpivano i privilegi dei feudatari e miravano a incamerarne i beni, sia per i rapporti sempre più tesi con il governatore di Milano, Pedro Enríques de Acevedo conte di Fuentes, con Roma e con i Gonzaga, accusati di tramare ai suoi danni dopo l’annullamento (1583) del matrimonio di sua sorella Margherita con Vincenzo Gonzaga. Barbara, «la qual vuol metter il naso dappertutto», con i suoi «mali portamenti» (Masola, 2016, p. 93) aveva cercato fin dalle trattative di ostacolare le nozze ospitando Vincenzo insieme con l’allora amante Ippolita Torelli. Anche dopo l’annullamento continuò a riceverlo insieme con la nuova amante e sua intima amica, Agnese Argotta del Carretto marchesa di Grana, a Colorno, diventato luogo di attrazione per gli spettacoli teatrali e musicali allestiti da illustri letterati e musicisti, nonché riparo di relazioni illecite di aristocratici e nobildonne. Questi stretti rapporti, collegati alle mire espansionistiche mantovane e alla posizione strategica di Colorno, indussero Ranuccio a inviare nel 1593 un capitano, suscitando le proteste di Barbara. Di queste tensioni approfittarono i sudditi per accusarla di ogni sorta di soprusi, definendola «un diavolo in terra» di cui «non si poteva credere la malegnità» (Cadoppi, 2012, p. 54), trovando ascolto presso Ranuccio, che affidò la vertenza al governatore di Parma (4 marzo 1595), il quale aprì un processo.
Per far fronte a questa situazione Barbara decise, per non «perdere Colorno, la vita, e l’anima insieme» (Ronchini, 1865, p. 28), di sposare nel 1596 Orazio Simonetta, conte di Torricella, terra di confine con il ducato mantovano, contando sulla sua protezione a corte. Determinato, comunque, a incamerare il feudo, Ranuccio tolse a Barbara il controllo delle milizie e incaricò il potente consigliere Bartolomeo Riva di studiare le vie legali per annullare gli atti di Ottavio a favore di Barbara. L’opposizione del conte di Fuentes, protettore di Barbara, lo bloccò. Ciò non gli impedì di infiltrare spie a Colorno che lo tennero costantemente informato di ogni sua azione. Sentendosi braccati, Girolamo e Barbara cercarono di rientrare in possesso del palazzo di Barbara a Viadana, venduto nel 1600 con patto di retrovendita. Ad agosto 1611 Barbara svuotò la rocca, chiuse le porte e si trasferì con i suoi servitori a Parma. Morto Fuentes nel 1610, il duca aveva ripreso il suo progetto di incamerare il feudo investendo della questione il Collegio dei dottori di Padova, dal quale, grazie a elargizioni di denaro, ottenne un parere favorevole (5 maggio 1611), gettando nella disperazione Barbara; mentre Girolamo aveva quasi raggiunto un compromesso, circolarono voci di una congiura contro il duca e i suoi familiari.
All’origine di questa drammatica vicenda la mancanza di eredi da Margherita Aldobrandini fino al 1612, quando, dopo il sordomuto Alessandro, nacque Odoardo. Uomo dalla religiosità profondamente superstiziosa, solito ricorrere a esorcisti e ciarlatani, il duca attribuì le difficoltà ad avere figli alle pratiche magiche dell’ex amante Claudia Colla e della madre Elena. Contestualmente all’arresto delle due donne e dei loro complici, il 28 aprile 1611 il duca istituì una speciale commissione inquirente contro «le persone delinquenti di streghe, stregoni, incantesimi et maghi» (Ceriotti - Dallasta, 2008, p. 166), esautorando l’inquisitore. Il loro processo, dal quale risultarono le complicità di alcuni nobili coinvolti nella ‘grande congiura’, si intrecciò con l’arresto del conte Alfonso Sanvitale (10 giugno 1611) per tentato omicidio della moglie e di Onofrio Martani (15 giugno), accusato di torbide manovre ai danni dello Stato. Sotto tortura Martani confessò il progetto di eliminazione del duca, del figlio Alessandro, del cardinale Odoardo Farnese e di Ottavio, nato (1598) dalla relazione con Briseide Ceretoli e successivamente legittimato.
Dalle confessioni di Martani emersero le responsabilità di Gianfrancesco Sanvitale, nipote di Barbara, nell’ideare la congiura e nel procurarsi l’aiuto del cugino Alfonso Sanvitale. Seguì l’arresto (24 giugno 1611) di Gianfrancesco e dall’interrogatorio del giudice Filiberto Piozasco risultò la complicità di Barbara e del marito, presenti nei primi mesi del 1611 agli incontri a Parma dei congiurati, tra i quali figuravano numerosi feudatari esasperati dalle pretese di Ranuccio. Le confessioni di Gianfrancesco e di Alfonso Sanvitale portarono all’arresto di Orazio Simonetta, Girolamo, Benedetta Pio e di Barbara (12 febbraio 1612), la quale, ricordando che «anco lei è nata Principessa», «fa il gran diavolo nella prigione e [...] sempre parla delle sue grandezze passate et [...] raconta quante amicitie et cose ha avuto et fatto in vita sua» (Dall’Acqua - Mondelli, 1995, pp. 108 e 112). Interrogata da Piozasco, negò fermamente di essere a conoscenza della congiura e di averne informato la marchesa di Grana e Vincenzo Gonzaga, fin quando cedette e confessò la sua complicità, fiduciosa di essere graziata. Resi noti i capi d’accusa a metà marzo 1612, la sentenza, che prevedeva l’impiccagione dei rei di lesa maestà seguita da squartamento dei cadaveri, fu emessa il 26 aprile dal Consiglio di giustizia e pubblicata il 4 maggio. Il generale raccapriccio per gli spietati tormenti inflitti agli imputati indusse Ranuccio a ordinare la decapitazione dei rei nobili. La gran giustizia ebbe luogo il 19 maggio 1612 con imponente spettacolarità sulla piazza grande e la prima a salire sul patibolo fu Barbara, fino all’ultimo incredula della sua sorte. Straziata dal boia che, non essendo riuscito a decapitarla con la mannaia, usò il «mannarino», Barbara subì anche «atti di poca modestia» da parte del boia il quale, incitato dalla folla impietosa, si accanì sul cadavere alzandole «la camisa et dattogli delle sculazzate» (Cadoppi, 2012, p. 214).
Pur se estorte con la tortura, le confessioni dei rei non lasciano dubbi sulle trame ordite contro i Farnese da esponenti della feudalità parmense e piacentina, decisi a opporsi al progressivo ridimensionamento del loro potere. Tuttavia, i giudici sembrano aver gonfiato i disegni dei congiurati pur di conseguire la confisca dei loro beni che il duca si era prefissa. All’indomani dell’esecuzione della sentenza la Camera ducale poté finalmente appropriarsi dei loro feudi, dei loro palazzi cittadini e delle loro straordinarie collezioni artistiche e soprattutto del lungamente appetito e conteso feudo di Colorno, la cui difesa era costata la vita a Barbara.
Cantata da vari poeti, tra i quali Maffeo Venier, Girolamo Catena, Torquato Tasso, Muzio Manfredi, Diomede Borghesi, Battista Guarini, Barbara fu ritratta da Jeannin Bahuet (Napoli, Museo di Capodimonte).
Fonti e Bibl.: il materiale archivistico relativo a Barbara è conservato in maniera confusa e sparsa. Si vedano, comunque, all’Archivio di Stato di Parma, Epistolario scelto, b. 14; Famiglie, Sanvitali Sanseverini, bb. 492-494; Famiglie, Sanseverini, bb. 484-488.
A. Ronchini, Vita di B. S. contessa di Sala e Marchesa di Colorno, Modena 1863, estratto da Atti e memorie delle RR. Deputazioni di Storia patria per le provincie modenesi e parmensi, I (1863); A. Solerti, Ferrara e la corte estense nella seconda metà del secolo decimosesto, Città di Castello 1900, pp. CLXXXVII-CCV; G. Bertini, La quadreria farnesiana e i quadri confiscati nel 1612 ai feudatari parmensi, Parma 1977; M. Dall’Acqua - M.E. Mondelli, La spia di corte. Da un carteggio inedito un intrigo nella Parma farnesiana, Parma 1995, ad ind.; L. Arcangeli, Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano 2003, passim; M.G. Barilli, B. S. nella corrispondenza con Vittoria di Capua Gonzaga, contessa di Novellara, in Archivio storico per le province parmensi, s. 4, LIX (2007), pp. 491-514; L. Ceriotti - F. Dallasta, Il posto di Caifa. L’inquisizione a Parma negli anni dei Farnese, Milano 2008, pp. 163-170; A. Tallon, L’affaire Sanseverino: un processo tra Francia, Roma e Milano, in Studia Borromaica, XXIII (2009), pp. 115-126; A. Cadoppi, La Gran Congiura. Il processo di Ranuccio I Farnese contro i feudatari parmensi (1611-1612), Parma 2012, ad ind.; G. Fragnito, Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, Bologna 2013, ad ind.; A. Cadoppi, Ranuccio I e la congiura dei feudatari (1611-1612), in Storia di Parma, IV, Il ducato farnesiano, a cura di G. Bertini, Parma 2014, pp. 149-161; G.L. Podestà, Pier Luigi e Ottavio Fanese (1545-1586). Gli albori del ducato di Parma e Piacenza, ibid., pp. 37-65; G. Masola, Un ‘parentado’ fra due grandi casate. Margherita Farnese e Vincenzo Gonzaga (1581-1583), Piacenza 2016, passim.