BARBA
(fr. barbe; sp. barba; ted. Bart; ingl. beard).
Antico Oriente e mondo musulmano.
L'uso di radersi la barba è antichissimo in Egitto, poiché già nei monumenti delle prime dinastie le figure maschili compaiono con il volto completamente raso, e solo in tempi più recenti appare la barba, forse per influenza semitica. Nei tempi più antichi, sono barbute soltanto alcune immagini di divinità, nelle quali la barba è fortemente stilizzata, e il faraone, mostrandosi in costume divino, si orna talvolta di una barba finta. Anche i Sumeri si radevano completamente il volto; anzi l'assenza della barba costituisce una delle differenze più caratteristiche tra il tipo sumerico e quello dei Semiti che fin dal 4° millennio a. C. occuparono le sedi dei Sumeri nella Babilonide e nella Mesopotamia. I Semiti sono sempre rappresentati barbuti, sia nei monumenti egiziani (caratteristici sono la barba a punta e il labbro superiore raso dei Beduini sinaitici in un rilievo di Sesostri I, 1906-1887 a. C.) sia in quelli babilonesi e assiri. In questi ultimi, tanto gli dei quanto i sovrani compaiono con lunghe barbe fluenti e spesso ricciute, accuratamente pettinate e squadrate all'estremità, con baffi spuntati e spesso (specialmente tra gli Assiri) accorciati al disopra del labbro. I Semiti occidentali sono invece forniti di barba a punta piuttosto corta: tali compaiono gli Amorriti, gli Aramei, gli Ebrei. Caratteristico degli Hittiti è il labbro superiore raso, mentre la barba, a punta, è tenuta più lunga di quella dei Semiti occidentali.
Notizie abbondanti si hanno sul modo di portare la barba degli antichi Ebrei, per i quali, oltre alle testimonianze dell'Antico Testamento, possediamo la rappresentazione figurata del re d'Israele Jehu e del suo seguito nel noto obelisco di Salmanassar. La barba era portata piena, e la legge religiosa vietava di tagliarla sulle guance (Levitico, XIX, 27, XXI, 5), forse perché un tale atto aveva assunto carattere di sacrificio presso i Semiti idolatri. Il tagliarsi la barba (come d'altra parte il radersi il capo) era segno di lutto (Geremia, XLI, 5), e il tagliarla ad altri costituiva ingiuria suprema: un tale affronto, fatto dal re degli Ammoniti agli ambasciatori di David, ebbe per conseguenza la guerra (II Re [Samuele], X, 4), ed esso è minacciato da Dio a Israele, nei libri profetici, come segno dell'ignominia in cui cadrà il popolo ribelle ai comandi divini (Isaia, VII, 20, XV, 2; Geremia, XLVIII, 37; Michea, I, 16). Lo stesso significato ignominioso ha tuttora il taglio della barba presso gli Arabi. Caratteristico è l'uso, attestato anche presso altri popoli, di prendersi per la barba nell'atto di baciarsi (II Re [Samuele], XX, 9).
Anche gli Arabi portarono fin dall'età preislamica la barba piena, e tale la portano tuttora i beduini, che la radono soltanto al disotto del mento. Nella sunnah musulmana (costumanza ispirata al presunto esempio di Maometto) è prescritta la barba accorciata fino alla lunghezza di una spanna e sfoltita, ma non rasa, sulle guance; i baffi devono essere spuntati e accorciati sopra il labbro. I dotti, o presunti tali, solevano accrescere la propria imponenza col portare la barba lunga e prolissa, il che ha dato occasione al malizioso detto popolare: ṭawīl al-liyḥah qaṣīr al-‛aql ("lungo di barba, corto d'ingegno").
L'uso di radere la barba conservando i soli baffi, e questi lunghi e spioventi, è stato introdotto nell'Islām dai Turchi, ed è rimasto, fino ai tempi più recenti nei quali una gran parte delle classi più elevate del mondo musulmano ha subito l'influsso della moda europea, caratteristica dei Turchi, e specialmente dei militari. Gli stessi sultani ottomani portarono a lungo la barba secondo la moda araba (si ricordi il celebre ritratto di Maometto II di Gentile Bellini): il primo a raderla fu Selīm I (1512-1520), che si scusò dell'averlo fatto con l'osservare "che in tal modo il suo Gran visir non avrebbe avuto luogo per dove afferrarlo...".
Bibl.: H. Mötefindt, Zur Geschichte der Barttracht im alten Orient, in Klio, XIX, pp. 1-61.
Età classica.
L'uso di radersi fra i Greci comincia nell'età macedonica; prima portavano usualmente la barba. Antichissimo, invece, è l'uso di farsi i baffi. Nelle più antiche figurazioni, come nella maschera d'oro dell'età micenea riportata qui accanto, si osserva che l'adulto porta una barba tagliata a tondo o a punta, ma ha il labbro superiore rasato.
Anche nei poemi omerici i baffi non sono nominati mai; gli eroi di Omero dobbiamo immaginarli con la barba e senza baffi. Questa moda arcaica si riflette nella più antica scultura e pittura vascolare, dove nelle teste virili i baffi o mancano o sono estremamente ridotti, e talvolta è raso anche il labbro inferiore in modo che buona parte del mento rimane scoperta. Ma tale uso nell'età classica è scomparso; se ne aveva una formale sopravvivenza fra gli Spartani ai quali gli efori ricordavano che dovevan radersi i baffi e ubbidire alle leggi (Plutarco, Cleom., 2, κείρεσϑαι τὸν μύστακα καὶ προσέχειν τοῖς νόμοις). Ma questa era probabilmente un'espressione convenzionale; che anche nell'età classica gli Spartani si radessero il labbro superiore non è credibile, perché, non essendo rare le allusioni alla loro folta barba, non si capirebbe il silenzio delle fonti su di un particolare che avrebbe colpito per la sua stranezza.
Nelle facce barbute di statue dell'età arcaica (sec. VI e inizio del sec. V a. C.) e di stile arcaicizzante si nota che le masse dei peli facciali sono distribuite regolarmente in tre gruppi: baffi (μύσταξ, ὑπορρίνιον), pizzo (πάππος), barba (πώγων, σϕηνοπώγων). Questo doveva rispondere alla moda dei tempi antichi; va tuttavia tenuto presente che nell'età arcaica baffi, barba, capelli sono stilizzati in uno schema che non è naturale, e solo dopo Fidia, nel sec. IV a. C., la statuaria greca riuscì, con Prassitele, Lisippo, Scopa, ecc., a render con naturalezza folte e soffici masse di capelli e di barba. Nell'età classica si portavano baffi e barba; quest'uso è così generale che il radersi sembrava ridicola effeminatezza. Gli Spartani imponevano ai vili, come segno della loro pusillanimità, di lasciarsi crescere la barba su una sola guancia (Plut., Ages., 30; ξύρονται μέρος τῆς ὑπήνης δὲ τρέϕουσι). L'uso di radersi cominciò nell'età macedone (Athen., XIII, pp. 564-5: τοῦ ξύρεσϑαι τόν πώγωνα κατ' 'Αλέξανδρον εὑρημένου). Vi erano naturalmente delle eccezioni, p. es., erano barbuti i vecchi e i filosofi. Questa eccentricità dei filosofi trovò imitatori anche nelle età successive, specie fra i cinici e gli stoici; e la barba del filosofo divenne proverbiale anche fra noi.
Si potrebbe supporre che presso gli Etruschi - in continui rapporti commerciali con la Grecia, e la cui arte ha spesso tratto ispirazione da modelli greci - la moda riguardante l'acconciatura della faccia avesse seguito, specialmente nella classe più agiata, le fasi della moda greca. In monumenti figurati vediamo infatti rappresentato l'uomo con baffi e barba, talora con barba e senza baffi alla moda degli eroi omerici. Si deve peraltro notare che ci troviamo di fronte a monumenti strettamente ispirati all'arte ionica, e si può facilmente pensare che essi riproducano modelli greci, e forse idealizzando ed acconciando alla greca personaggi etruschi. Questa supposizione è confermata dal fatto che nei bronzetti etruschi arcaici, nelle maschere dei canopi - rozzi ma veristici ritratti in pieno contrasto con la tendenza idealistica che ispirava l'arte greca di quel periodo - in una notevole statuetta fittile di Montalto di Castro, monumenti databili fra la fine del secolo VII e il principio del VI, troviamo personaggi accuratamente sbarbati, siano giovani o adulti. Naturalmente questa, che sarà stata la moda più largamente difffusa, avrà, come tutte le mode, avuto le sue eccezioni.
L'uso di sbarbarsi completamente permane, in Etruria, anche nei secoli seguenti.
I Romani del buon tempo antico erano intonsi; solo nel sec. III a. C. cominciò a diffondersi l'uso di radersi, uso che anteriormente era piuttosto raro e sporadico, ma non assolutamente ignoto (il rasoio infatti è antichissimo oggetto di toilette maschile). Sulla fine del sec. III, cioè nel periodo della seconda guerra punica, quest'uso è già divenuto generale. Scipione Africano fu il primo che cominciò a farsi la barba tutti i giorni, secondo una notizia tramandata da Plinio (Nat. Hist., VII, 211), che però va accolta con riserva, tenendo conto della tendenza della tradizione a far di Scipione l'iniziatore di tutte le raffinatezze d'importazione greca.
Il primo personaggio storico la cui effigie appare rasata nelle monete è Marcello, il conquistatore di Siracusa. Dalla seconda guerra punica all'età di Adriano (fine del sec. III a. C. - primi del sec. II d. C.) l'uso di radersi è divenuto normale, come, si può dire, nell'età nostra. Tuttavia fra l'uso romano e il moderno vi sorio delle differenze: 1. si faceva crescere liberamente la prima pelurie che spunta sulle guance del giovinetto sinché non avesse preso l'aspetto di vera barba; allora, ma non prima, si tagliava (depositio barbae): questo era, come per i Greci, un giorno di festa; 2. anche dopo aver deposto la prima barba, si continuava di regola a portar una barbetta (barbula) sino ai 40 anni. Da quest'uso derivano alcune espressioni che parrebbero incomprensibili a chi non sapesse che i Romani associavano alla barba l'idea di giovinezza (p. esempio, Giovenale, VI, 105, radere guttur coeperat "cominciava ad aver la sua età"; ibid., 215, iam senior cuius barbam tua ianua vidit "vecchio ormai, ma tu l'hai conosciuto giovane"). La barbula con cui è rappresentato Augusto dopo la sua apoteosi è simbolo di eterna giovinezza.
Come presso altri popoli, lasciarsi crescere una lunga barba incolta era segno di lutto (barbam promittere, demittere, submittere) o anche un mezzo di far pietà ai giudici, davanti ai quali gli accusati si presentavano sudici e male in arnese (sordidati).
Con l'imperatore Adriano, costretto a portare la barba lunga per nascondere i difetti del volto, cessò la moda di radersi, ma per poco tempo: dall'età di Costantino in poi si tornò all'uso di prima. Degl'imperatori posteriori a Costantino solo Giuliano ha la barba, apostata anche in questo. È nota la sua operetta satirico-polemica Misopogon (l'odiatore della barba), vivace risposta agli abitanti di Antiochia che canzonavano e riprovavano il suo uso di andare barbato.
Bibl.: Mau, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, coll. 30-34, s. v. Bart; E. Saglio, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., I, p. 667 segg., s. v. Barba; Blümner, Griech. Privataltert., in Lehrbuch del Hermann, IV, 3ª ed., Friburgo 1882, pp. 208-210; id., Röm. Privataltert., Monaco 1911, p. 267 segg. Uno studio fine ed esauriente sul ritratto romano, dove sono notate le caratteristiche relative ai capelli e alla barba, si troverà in E. Strong, La scultura romana da Augusto a Costantino, II, Firenze 1926 (trad. Giannelli), p. 351 segg. Per una sommaria informazione sull'iconografia imperiale si veda il pratico manuale Hoepli di Fr. Gnecchi, Monete romane, Milano 1896.
Il barbiere. - Il rasoio è oggetto antichissimo. Se ne hanno degli esemplari fra i reperti archeologici delle popolazioni italiche primitive. Anche Omero lo nomina (Il., X, 173), sebbene in una delle parti ritenute più recenti. Che il rasoio fosse in uso sin dai tempi remoti si desume dal modo con cui l'arte micenea e la più arcaica arte greca rappresentano la faccia dell'uomo adulto, cioè con barba tonda o a punta, ma con i baffi rasati. Il rasoio antico (come, per una notevole analogia, il trincetto del calzolaio) ha forma di mezzaluna.
Già nell'età classica vi sono fra i Greci delle botteghe di barbiere (κουρεῖον), nonostante che l'uso di radersi sia raro e screditato (v. sopra); ma ai barbieri non mancavano clienti, perché oltre a curare i capelli e la barba, facevano servizio di callista e di manicure. Nelle loro botteghe gli sfaccendati passavano delle ore, come del resto presso altri esercenti (cfr. Lisia, XXIV, 20), perché il Greco, a giudicar dagli Ateniesi, era assai poco attaccato alla casa domestica, e se non aveva da fare, passava tutto il suo tempo nelle botteghe. Come luogo di ritrovo il κουρεῖον acquistò una preminenza sulle altre botteghe, quando, nell'età alessandrina, venne la moda di radersi la faccia. Teofrasto (in Plut., Quaest. conv., VII, 10, 2) con celebre frase chiamò la bottega del barbiere ἄοινον συμπόσιον "banchetto senza vino", un posto cioè, in cui, tranne che il bere, si fa quel che si fa nei simposî, dove ognuno vuol dir la sua.
Nel sec. III a. C., allorché la penetrazione della cultura greca nel mondo romano si faceva più intensa, non solo nella letteratura e nel pensiero, ma anche nel costume, a Roma e fra gl'italici si diffuse l'uso ellenistico di farsi la barba. Secondo Varrone (De re rust., II, 11, 10), che afferma di aver tolto la notizia da un documento di Ardea, i primi barbieri vennero in Italia dalla Sicilia nel 300 a. C. Si tratta probabilmente di barbieri venuti a esercitare pubblicamente la loro arte nelle tonstrinae; l'antichità del rasoio e le stesse parole di varrone (antiquorum statuae.... pleraeque habent capillum et barbam magnam) c'impediscono di credere con i più che tagliarsi i capelli e la barba prima di quell'età fosse addirittura ignoto ai Romani. Dalla fine del sec. III a. C. in poi l'uso di radersi divenne generale anche a Roma. Di tonsores a Roma vi sono due tipi: a) il barbiere pubblico, che faceva il suo mestiere in una botteguccia, o andava in giro per le case (circitores). Alcuni barbieri divennero famosi per la casa imperiale (Marziale VIII, 52). Nella bottega del tonsor si davano ritrovo gli elegantoni che si consultavano a lungo sui minimi particolari della loro toilette (Sen., Ep. 114, 21). Che oltre a ciò la bottega del tonsor fosse nido di pettegolezzi è noto: proverbiale è divenuto l'oraziano lippis et tonsoribus; b) il barbiere privato, uno schiavo addetto a questo ufficio. Nella famiglia rustica, dove gli schiavi che attendevano al lavoro dei campi avevano altri schiavi addetti al loro servizio (vicarii, cioè servi di servi, o, come dicevano le fonti giuridiche, instrumentum instrumenti) vi erano i tonsores degli schiavi, la condizione dei quali era molto umile; in città invece i raffinati tenevano come tonsor un bel giovinetto particolarmente caro al padrone (Marziale VI, 52). È poco probabile, come altri afferma, che nelle famiglie signorili lo stesso schiavo facesse la barba al padrone e ai servi. Sull'uso di farsi la barba da sé mancano attestazioni sicure.
La bottega del barbiere sia in Grecia sia in Roma è messa su con una certa civetteria; vi sono in mostra dei grandi specchi (all'esterno, sembra, non come da noi all'interno), delle insegne e dei vasetti di profumeria. Dentro la bottega sono esposti gli strumenti del mestiere, forbici (forfex, μαχαιρίδες), rasoio, pettine, le pinzette depilatorie (volsellae), e unguenti d'ogni specie per profumare, per tingere, e anche per depilare (dropax). Il cliente siede su di un'alta seggiola; gli vien posto intorno al collo un panno bianco e quindi comincia il servizio: i capelli vengono tagliati o alti (per pectinem) o radi (strictim) e la barba è pettinata o rasa.
Bibl.: Mau, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, coll. 3-4, s. v. Barbier, V. Chapot, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr. et rom., V, pp. 354-57; Becker-Göll, Charicles, III, Berlino 1878, p. 292 segg.; id., Gallus, III, Berlino 1882, p. 237 segg.; Blümner, Römische Privataltert., p. 267 segg.; Paoli, Barba e specchi presso i Greci, in Atene e Roma, n. s., V (1924), n. 79: contro l'opinione che vi fosse nell'antichità l'uso di radersi da sé.
Medioevo ed età moderna.
Contro quello che si può dedurre dalla requisitoria di Clemente Alessandrino contro gli sbarbati (es. nel Pedagogo), la maggior parte dei sacri personaggi figurati nell'arte cristiana dei primi tre secoli, porta solo di rado la barba. All'art. gesù cristo: Iconografia, si vedrà che il tipo del Cristo barbato è estremamente raro. Con sempre maggior frequenza lo si nota dagli ultimi del sec. IV in poi. Dell'Antico Testamento, appaiono imberbi Noè, Daniele, Giona, Isacco, Giobbe. Mosè, che è più spesso barbato, ha molti esempî di tipo imberbe. Profeti ed apostoli sono molte volte imberbi. Si eccettuino Pietro e Paolo i quali, derivando da un prototipo che potrebbe anch'essere un ritratto realistico di origine romana, sono quasi sempre barbati. Si è detto: quasi, giacché in talune rappresentazioni (specie in vetri dorati e nel mosaico di un'absidula di S. Costanza) si mostrano imberbi. È barbato il vescovo nella scena della velatio virginis dipinta in un cubicolo del cemeterio di Priscilla. È barbato il misterioso tipo di vecchio svolgente il rotulo, che appare su molti sarcofagi cristiani. Non ci si può, come il Leclercq, appellare alla statua di S. Ippolito al Laterano, perché essa ha la testa di restauro moderno.
L'epigrafia paleocristiana ci dà l'epitafio di un Octavianus tusor (Corp. Inscr. Lat., VI, p. 2, n. 9942). E in un altro epitafio del Museo Lateranense sono graffiti gli arnesi del mestiere, e cioè lo specchio, i rasoi, le forbici.
L'ascetismo non transige sul fatto della barba, che dei monaci orientali è un assoluto distintivo. I testi abbondano di queste notizie sulle barbe monastiche ed hanno pure curiosi particolari. Per esempio dai Verba seniorum (Patrol. Lat., LXXIII, col. 958) apprendiamo che l'abate Arsenio gestabat barbam longam quae ad ventrem pertingeret. E dalla Vita Pachomii sappiamo che questo celebre archimandrita per sottolineare l'importanza speciale di un ordine prendeva in mano la barba del suo interlocutore (Acta sanctorum, maggio, III, pp. 325-328).
In Occidente invece i monaci barbati sono meno frequenti. Nella Regula di S. Benedetto, così minuziosa nelle prescrizioni, non se ne parla. Tuttavia in una delle più antiche miniature cassinesi i monaci appaiono con barba corta (v. quella del sec. XI riprodotta in L. Tosti, Vita di S. Benedetto, ed. illustr., Montecassino 1892, p. 201).
La regola dei Solitarî (cap. L) riferita dal Leclercq, prescrive che costoro de quadraginta in quadraginta diebus se radant et capillos tondant. Ma in ciò, più che una prescrizione rituale, noi scorgiamo una prudente norma igienica.
In età carolingia e posteriore troviamo abbondanti ritratti di monaci col volto raso. Altri si adornano di una corta barba che frangia appena il mento (v. il ritratto di Ruperto di Deutz riprodotto da una miniatura in M. Kemmerich, Die Frühmittelalterliche Porträtmalerei in Deutschland, Monaco 1907, p. 108, fig. 31). Completamente raso è l'abate Teofrido di Echternach (1108) quale appare dalla miniatura del manoscritto del suo Liber Florum (v. H. Swarzenski, Vorgotische Miniaturen, Lipsia 1927, p. 23). E così pure, in epoca molto anteriore, è raso l'abate Viviano del chiostro di S. Martino di Tours, quello che appare in una miniatura della Bibbia di Carlo il Calvo alla Nazionale di Parigi (v. riproduzione a colori in H. Suchier e A. Birch-Virschfeld, Geschichte der Französischen Literatur, I, Lipsia e Vienna 1913, tav. I).
Il nuovo ordine francescano predilige la barba. Il Serafico nel ritratto di Subiaco e nelle immagini assisiati appare con una corta barba. Molte altre figurazioni dei frati minori ce li mostrano con la barba. È tradizionale e proverbiale la barba dei cappuccini. Vi sono però talune famiglie francescane che non curano l'"onor del mento". S. Antonio di Padova e i suoi seguaci sono sbarbati. L'ordine domenicano aborre anch'esso dalla barba. Più tardi, nel Cinquecento, non vi saranno regole fisse per l'ordine gesuitico.
Il clero secolare si è quasi sempre raso. Questo noi possiamo constatare dalle numerose rappresentazioni. D'altra parte fino al sec. XVI numerosi concilî vietano la barba agli ecclesiastici. Le immagini di pontefici del Medioevo sono in maggioranza a volto rasato (v. nel Wilpert, Mosaiken und Malereien, ecc., 2ª ed., 1917, passim). Anche i papi del sec. XV sono quasi sempre rasati. Nel Cinquecento invece la moda della barba si manifesta. Giulio II ha una barba breve ed energica. Paolo III ha una voluminosa barba che gli si può ammirare nel parlante ritratto del Della Porta (monumento sepolcrale in S. Pietro). Sisto V ha un'arguta barba incavata a scodella. Anche nel sec. XVII i papi sono spesso barbati. Un'aristocratica barbetta a fiocco possiede Urbano VIII. Nel XVIII i papi ordinariamente non si discostano dalla moda contemporanea. Nel XIX tornano a radersi ristabilendo la tradizione clericale. Uno dei tanti episodî della rasura ecclesiastica è quello di Clemente VII che, nel 1527, per il dolore del Sacco di Roma, si lasciò crescere la barba (Gregorovius, Storia d. città di Roma, VI, II, p. 484, nota 35). Molti preti anche in Francia lo imitarono, ma Francesco I ottenne un breve in cui si diceva che gli ecclesiastici dovevano pagare per non rasarsi (v. anche Pierio Valeriano, Pro sacerdotum barbis, in app. agli Hieroglyphica, Venezia 1604).
Le storie pie narrano persino di monache, o comunque di virgines sacrae, cui crebbe la barba per reazione a costrizioni fisiche o per sottrarle a pericoli di vario genere. Assai curiosa la storia di Galla patrizia, figlia del console Simmaco, raccontataci da San Gregorio Magno (Dialog., IV, c. XIV, ed. Moricca, in Fonti per la storia d'Italia, Roma 1924, p. 247). Santa Paula di Avila e Santa Wilgefortis (o Liberata), martire portoghese, insidiate da uomini, ottengono da Dio di cambiare il volto coprendolo di foltissima barba (Vita S. Paulae Barbatae in Acta Sanct., 1658, febbraio, III, p. 174; 3ª ed., p. 177 e A. Bouvenne, Légende de Sainte Wilgeforte, in Revue de l'art chrétien, 1866, X). Persino la liturgia si occupa della barba, poiché in alcuni Libri ordinum o "Pontificali" è descritta la cerimonia del primo taglio della barba nei monasteri, cerimonia che sembra sostituire quella della depositio barbae pagana che dava luogo ad offerte alle divinità. Si veda la strana cerimonia monastica riferita nel Liber ordinum della chiesa mozarabica trascritto da don Férotin (Monum. eccles. liturgica, V, 1904, pp. 43-46; riferito anche dal Leclercq).
Tra le suppellettili trovate nelle tombe dei popoli slavi fra il secolo IX e l'XI, non appare il rasoio. Ma sappiamo che lo s'importava dai territorî romani fra il sec. I e il V d. C. e la parola che significa "radersi" (briti) è slavo comune ed antico (v. L. Niederle, Manuel de l'antiquité slave, II, Parigi 1926, p. 30). Certo che il portare la barba era più frequente. La s'intrecciava financo. Svjatoslav portava i mustacchi, e così pure certi principi figurati sulle antiche monete. Altri principi avevano invece una grande barba. I Cèchi, secondo le antiche leggende, erano barbati, ma le miniature di un manoscritto di Wolfenbüttel ci dànno personaggi con i mustacchi, a fianco di Venceslao che ha la barba completa. Gli Slavi baltici di Rujana si radevano e solo il gran sacerdote di Svantovit portava capelli e barba lunghi. Non vi era quindi regola fissa, ma il portare la barba (che si chiamava brada) o almeno i mustacchi, era senza dubbio l'uso più diffuso prima del sec. XI (Niederle, op. cit., p. 80).
Le razze germaniche hanno tenuto in onore i mustacchi e la barba. Lo testimoniano i varî storici dell'antichità, e lo affermano anche le antiche saghe nordiche. Di una che spiega in modo ingenuamente fantasioso l'origine della gente longobarda, è traccia nella storia di Paolo Diacono. Un giorno i Vandali si recarono dal dio Wotan per impetrare la vittoria sui Winili, cioè sui Longobardi. Ed egli rispose che l'avrebbe data a chi per primo avesse veduto il levar del sole. Allora Gambara, madre d'Ibore ed Aione, va da Frea, moglie di Wotan, per chiedere la vittoria longobarda. E Frea consiglia alle donne longobarde di comporre i capelli a mo' di lunghe barbe e di disporsi con gli uomini verso la plaga orientale. Quando, alle prime luci, Wotan li scorse, domandò subito: Qui sunt isti longibarbi? Ed allora Frea gli ricordò la promessa e Wotan dovette cedere. Paolo Diacono, monaco cassinese, soggiunge: haec risui digna sunt et pro nihilo habenda (Hist. Lang., I, ed. Crivellucci e Morghen, in Ist. storico ital., Roma 1918, pagg. 14-15).
Che i re longobardi tenessero in onore la barba potrebbe testimoniarlo la lamina di Val di Nievole ove re Agilulfo (v. agilulfo) ha veramente una barba maestosa. E una delle leggi di Rotari condanna a 6 soldi aurei d'ammenda chi in una rissa per barbam aut per capillos hominem liberum traxerit (Lex Langob., I, tit. VI, c. Iv). Grimoaldo aveva barba lunga e spessa e Ariberto, poi ch'ebbe catturato Rotari, gli fece tagliare barba e capelli e lo esiliò a Torino (Hist. Lang., VI, c. 6).
Teodorico, re degli Ostrogoti d'Italia, portava la barba, e così pure Alarico e Clodoveo. Un passo notevole è quello di Eginardo nella Vita Karoli Magni imperatoris, laddove parla dei re della prima razza: neque regi aliud relinquebatur quam ut, regio tantum nomine contentus, crine profuso, barba submissa solio resideret (c. I; v. l'ed. di L. Halphen in Les classiques de l'hist. de France au Moyen-Âge, Parigi 1923, pagg. 8-9). Episodio singolare è quello di carattere piuttosto leggendario relativo a Clodoveo che mandò ambasciatori al visigoto re Alarico per pregarlo di venirgli a toccare la barba in segno d'alleanza. Ma il re prese gli ambasciatori per la barba. Allora Clodoveo con i suoi baroni giurarono sulle loro barbe di vendicare l'offesa.
Queste testimonianze contrastano con l'altra più positiva di Sidonio Apollinare il quale dice che i Franchi avevano piccoli mustacchi accomodati col pettine:.... vultibus undique rasis - Pro barba tenues peraxantur pectine cristae (Carmen, V). Anche i tipi monetali non ci mostrano affatto queste barbe favolose che l'immaginazione dei narratori di gesta molto posteriori attribuì anche a Carlomagno, il sire, secondo essi "dalla barba fiorita".
Nella Chanson de Roland Carlo giura: Par ceste barbe et par cest men gernun, e Blancandrin da parte sua: par la barbe ki al piz me ventelet. Ed alla fine Carlo: pluret des oilz, sa barbe blanche tiret. Gernun è una parola celtica che indica i mustacchi, trapiantata anche in Inghilterra dove al tempo dell'invasione normanna troviamo un William Asgernuns ovvero Oth les gernuns (Guglielmo coi mustacchi) da cui sarebbero discesi gli Algernoon. I ritratti di Carlomagno ce lo mostrano con la barba corta e i baffi spioventi. Così è nel ritratto musivo del triclinio lateranense. D'altra parte sappiamo che, andando a Roma, cercò di conformarsi agli usi della nobiltà locale (v. eginardo). La statuetta equestre di Metz (ora al Museo Carnavalet di Parigi) lo figura con i soli baffi.
L'uso dei baffi dispare nel sec. X e la barba, divenendo di moda, è indispensabile per tutti i liberi. E allora un bel pizzo di barba poteva singolarmente attrarre. Una ridicola scultura romanica in S. Flaviano a Montefiascone mostra, fra le volute di un capitello, un uomo che si tocca la barba. L'iscrizione prende in giro i visitatori: Barbam mirantes aulam vestram (cioè: la chiesa) respicite (A. Sartorio, S. Fl. di M., in Atti e Memorie della R. Accad. di S. Luca, annuario 1923-1924, Roma 1925, p. 79). Tientmaro (VII, c. 1) narra che nella sua venuta in Roma nel 1014, Enrico II procedeva: a Senatoribus duodecim vallatus quorum sex rasi barba, alii prolixa mistice incedebant cum baculis. E chi sa che costoro non si conformassero alla maestà degli antichi patres!
I primi Capeti sui sigilli portano la barba e quelle di Roberto, Enrico I e Filippo I sono abbastanza lunghe. Ma alla fine del sec. XII il favore per la barba vien meno. In tutte le figurazioni cavalleresche, il cavaliere ideale, fiorente di giovinezza, ha il mento raso e la barba è data a qualche personaggio regale, p. es. ad Artù. All'opposto, la si vede nei contadini e nei pellegrini; così appare nelle miniature, nelle cassettine eburnee, nelle sculture in pietra delle cattedrali (es. le scene del ciclo di Artù nel ms. del 1286 della Bibl. Univ. di Bonn; v. la tav. a p. 164-165 della citata opera di Suchier e Birch-Hirschfeld; il cavaliere del duomo di Bamberga, scolpito fra il 1220 e il 1250; v. M. Sauerlandt, Deutsche Plastik des Mittelalters, Lipsia s. a., tav. 32). verso il 1359 il ritratto di re Giovanni (Bibl. Nat., Cabinet des Estampes - Expos. des Primitifs français, 1909, n. 1) mostra che aveva la barba corta, ma poco regolare. Nella seconda metà del sec. XIV si ricominciò progressivamente a sopprimere la barba e sotto Carlo V di Francia la soppressione era un fatto compiuto.
Ai tempi di Carlo VIII e Luigi XII gli uomini continuarono a radersi. Solo Francesco I, salendo al trono, doveva rimettere in vigore la barba. Enrico III si rasava le gote e portava mustacchi e mosca.
Anche in Italia vediamo che agl'inizî del Trecento non portavano barba che i magistrati e i vecchi. Il facchino non sarebbe uscito di casa il giorno di festa con i peli lunghi sul mento e senza il cappuccio magari rattoppato, mentre andava benissimo a piedi nudi. Verso la metà del secolo l'uso della barba a pizzo si diffuse anche tra le plebi. Un cronista romano di questo periodo narra che venne di moda lasciarsi crescere la barba intera, cosa che prima usavano soltanto gli eremiti e gli Spagnuoli (Fragm. hist. rom., in Muratori, Antiquitates italicae medii aevi, III, c. IX).
Gl'Inglesi hanno portato più a lungo la barba ed anzi Mathieu Paris parla della barba come caratteristica assoluta. Nel sec. XIV Chaucer nota i mercanti dalla barba bipartita. Più tardi, nell'età Elisabettiana, soldati e cortigiani erano tutti barbati.
Gli uomini del Cinquecento hanno tenuto in onore la barba, e in tutte le forme: a pizzo, a mosca, a pappafico, a massa, a scodella, forcuta. Si veda come la predilessero gli artisti: Raffaello, che sembrerebbe consacrato alla rasura giovanile, ha invece un ritratto - di G. Bonasone - con barba (v. C. Ricci, in Rassega d'arte antica e moderna, a. VII, fasc. IV, aprile 1920). Bramante si radeva (v. la nota medaglia e l'effigie sua nel "Parnaso" raffaellesco). Michelangiolo si è coltivata una folta barba che aggiungeva una nota severa al suo volto. Meravigliose barbe in cui le ciocche lingueggiano come fiamme, sono in molte creature da lui figurate: basti per tutte il Mosè. Anche i poeti e i letterati in genere si adornano di nobili barbe. Ne ha una aristocratica Ludovico Ariosto e quella sottile di Torquato Tasso accentua il languore del suo pallido volto. Una barba satiresca ha Pietro Aretino nel pomposo ritratto fattogli dal "compare" Tiziano. Il quale ultimo è pure ben dotato di barba come i molti nobili veneziani da lui ritratti. Il Bembo, che nel periodo giovanile ha il mento raso (v. la medaglia di Valerio Belli riprodotta in C. v. Fabriczy, Medaillen, in Monographien des Kunstgewerbes, Lipsia s. a., p. 97) si vanta, in età avanzata, d'una barba mosaica.
Luigi XIV di Francia aveva la mosca. Nel regno seguente si prese il vezzo d'incipriare la barba. Sotto Luigi XVI e sotto la Repubblica lavorò assai il rasoio. La restaurazione rispettò la moda e il mustacchio fu permesso ai soli militari. Dopo la rivoluzione del 1830 tornarono in onore mustacchi e mosca. Solo i notai, i commedianti e le persone di servizio andavano rasi ovvero con brevi mustacchi: gli avvocati dovevano andare completamente rasi. Durante il Risorgimento, portare la barba e i baffi fu considerato come dimostrazione di liberalismo: nel regno delle Due Sicilie la polizia talvolta faceva radere per forza i contravventori e c'è ricordo che in qualche caso chi portava la barba intera o a pizzo fu imprigionato per tale motivo. I partigiani dei governi portavano le basette lunghe con o senza baffi, o la barba a collana, oppure si radevano interamente. Queste mode dell'età romantica hanno perseverato assai. Ma oggi non vi sono, si può dire, interdizioni altro che per qualche categoria di persone.
Queste vicende sono un po' comuni a tutta l'Europa e sarebbe perciò inutile perdersi in ulteriori esemplificazioni. Chiuderemo invece con una curiosità; che cioè in altri tempi fu posto, a proposito di taluni miracoli (v. quello della barba di S. Eligio) il quesito se la barba nascesse ai morti; questione gravemente dibattuta fra gli eruditi dei secoli XVI e XVII.
Il barbiere. - In Italia già nel sec. XIII i barbieri esercitavano il loro mestiere in bottega, mentre nelle città di Francia lavoravano sulle pubbliche piazze e sull'angolo delle vie sin quasi al sec. XVIII. Vi erano anche donne barbiere che tondevano i capelli e radevano la barba, alle quali Fr. da Barberino nel suo libro: Del reggimento e dei costumi di donna, raccomandava di non far civetterie con quelli che ricorrevano ai loro servigi.
In un inventario della Sede Apostolica nel 1295 riferito dal Gay (Glossaire Archéologique, I, Parigi 1887, p. 117), si ricordano gli attrezzi da barbiere: tobaleas ad radendum cum foraminibus in medio ad mittendum ad collum, cum auro et serico diversorum colorum. Per l'anno 1347 si riferisce questo più completo corredo: Barbitonsorii regis: 2 pectines eburnei, unus pare forcipum, una cassa de corio, 1/2 uln. camoka pro uno loculo (Compte de la garde-robe d'Edouard III, in Archaeologia, XXXI, p. 23).
In Inghilterra i barbieri ricevettero un organismo corporativo nel 1461 da Edoardo IV (v. in Annals of the Barber-Surgeons of London, 1890). Peraltro in Francia si erano organizzati già da molto tempo prima. Ai barbieri accenna il Livre des métiers di Stefano Boileau che è del sec. XIII. La corporazione era sotto la giurisdizione del barbiere del re che aveva a casa reale il grado di valet de chambre. Il prevosto metteva a disposizione i sergenti dello Châtelet per l'esecuzione dei suoi giudizî. Questa corporazione resistette sino alla Rivoluzione (v. R. de Lespinasse, Métiers et corporations de la ville de Paris, Parigi 1886-97 e G. Faguier, Études sur l'industrie, Parigi 1877).
Anche in Italia le numerose universitates comprendono, e per tempo, i barbieri. A Roma troviamo la Universitas Collegii tonsorum et barbitonsorum che comprendeva anche profumieri e bassi-chirurghi (flebotomi). È costituita intorno al 1440 ed ha i suoi statuti nel 1478. Ancor oggi un'organizzazione sotto il nome di Università dei parrucchieri si raccoglie in uno stabile di cui è proprietaria, esempio interessante di persistenza delle antiche tradizioni.
La figura del barbiere è delle più complesse, giacché il compito igienico ed estetico della sua professione, gli permette di passare ad arti di vario genere. La più popolare, è il cavar sangue. E vi sono tuttora vecchie botteghe provinciali che conservano almeno la vecchia insegna col braccio nudo spicciante sangue.
Ricaviamo dal Caprin (Il Trecento a Trieste, Trieste 1897, pp. 165-166) che il barbiere triestino era cerusico di mezza matricola. Egli non poteva tagliare i capelli, né radere nei giorni in cui la chiesa celebrava le feste principali, e doveva denunciare al giudice dei malefizî i feriti che aveva medicato e possibilmente anche i feritori. In uno statuto francese del 1621 citato dal Gay (op. cit.) v'è la prescrizione: "Ledit chyrurgien ne pourra tenir ny avoir que une boutique pour son art en chyrurgie, ny ne faire luy ny ses serviteurs aulcune barbe les jours de dimanche des 4 festes annuelles du S. Sacrement, la S. Jean Baptiste, S. Cosme..." sotto pena di una multa, salvo che, aggiunge lo statuto cortigiano, non si fosse costretti a lavorare per persone di qualità.
Tommaso Garzoni, nel Cinquecento, nota che i barbieri "servono" per cavar sangue agli ammalati et per mettergli le ventose, far le stoppate, cavare i denti guasti et simili altre cose, onde l'arte loro è subalternata per questo alla scienza della medicina. Oltre che sogliono essere imbrattati di mille altri mestieri, essendo che si dilettano di suonar di leuto, di cetra, di violino, di far reti da uccellare e da pescare, di servire a' sontuosi pasti per scalchi" (v. altre notizie in G. Dolcetti, I barbieri chirurghi a Venezia, capitolo dall'opera inedita L'arte dei barbieri attraverso i secoli, pubblicato in Ateneo Veneto, a. XIX, II, Venezia 1896). Bastava suonar di cetra e di. violino. Giacché ad uomini così versatili non poteva essere arcigna la musa della poesia. Vien subito in mente la lepida figura del Burchiello che compone versi burleschi di significato astruso (v. burchiello) e poi trova incompatibilità fra i carmi e l'arte sua ed è costretto a gemere: "La poesia combatte col rasoio".
La letteratura si è occupata innumerevoli volte di questo tipo di barbiere enciclopedico, e tutti ricordano mastro Nicola che trattò di letteratura cavalleresca con l'ingenioso hidalgo don Chisciotte della Mancia. Anzi, quando si tratta di condannare al rogo i libri che avevano montato la testa all'eroe cavaliere, il mastro con argomenti serî prende le difese di molti davanti al curato (p. I, cap. VI del D. Ch. d. M., v. la trad. di A. Giannini, Firenze, s. a., p. 48 sgg.). Tramutatosi più tardi in pastorello d'Arcadia, don Chisciotte ragiona con Sancio: "Del curato non dico nulla: ma scommetto che qualche ramo di poeta lo deve avere; e che lo debba avere anche mastro Niccola non ne dubito punto, perché tutti, o la più parte dei barbieri, sono suonatori di chitarra e rimatori" (p. II, cap. LXVII; trad. cit., vol. IV, Bibl. S. Str., n. 62, in giubbetto di raso e reticella sul capo, chitarra sbandata di traverso, queltipo immortale di Figaro che sarà colto da Beaumarchais e passerà festoso nel multiplo suo spirito di sentimentale, di gaudente, di astuto mezzano entro il delirio dei "crescendo" rossiniani.
Ma in Italia non doveva mancare il tipo, degno di lirica e di storia. Ecco, nella leziosità settecentesca, lo Sfregia pariniano sulla cui morte immaginaria ed auspicata piange comicamente il poeta:
Vita lieta e sicura,
Gli è ver, tu meni a casa di Plutone,
Ove benché sii morto,
Fai la barba ad Omero ed a Platone.
Ma lasso!, qual conforto
Sperar poss'io, se più sperar non posso
Chi come te mi rada infino all'osso?
Quante fossero le raffinatezze dell'arte e le cure igieniche di questo barbitonsore ce lo rivela il poeta così al vivo che vien la voglia di ripetere con lui l'augurio nefasto della chiusa.
Purtroppo questo tipo di carnefice non era unico. E fa l'effetto che non si dovesse proprio godere in una bottega di quelle figurate nelle stampe di arti e mestieri incise da J. Amman (secoli XVI-XVII). Oggi la bottega del barbiere tende a chiamarsi sala, anzi, con parola infranciosata salone. Ha grande abbondanza di specchi e marmi, ha lavabi che aboliscono la catinella ad orlo smussato. La moda dei capelli corti richiede un locale separato per le signore. Ed ai bambini si riserba il cavalluccio in mezzo alla sala. L'artista è sempre lui, con qualche nota di riserbo: aggiunta che peraltro è imposta dall'affrettata vita moderna.
L'uso del rasoio automatico ha molto diminuito il lavoro di barba.
Bibl.: Oltre alle opere citate si vedano quelle del copioso cenno bibliografico aggiunto all'articolo di H. Leclercq, Barbe, in Dictionnaire d'Archéologie chrétienne, del Cabrol.
Barba. - Gl'incisori dànno il nome di barbe ai due rialzi che si formano sulla superficie del metallo, ai lati del segno apertovi dalla puntasecca o scavatovi dal bulino. Le barbe prodotte dalla puntasecca sono più forti di quelle del bulino, perché, mentre il bulino taglia e asporta, la puntasecca non fa che aprire il metallo spostandolo e innalzandolo lateralmente. In entrambi i casi, le barbe sulla sinistra guardando il segno sono più abbondanti di quelle opposte, a causa dell'inclinazione che la mano dà allo strumento nell'incidere. Le barbe si tolgono col raschiatoio bene affilato adoperato in piano, nel senso della lunghezza del segno, avendo cura di asportarle tagliando, per evitare che si ripieghino nell'interno del segno stesso, chiudendolo. Nei lavori a bulino è necessario rimuoverle completamente per garantire la purezza del segno; nella puntasecca invece occorre favorirne e disciplinarne la formazione per ottenere quell'effetto vellutato caratteristico di tal genere d'incisione.