MALABAILA, Baldracco
Nato ad Asti sul finire del XIII secolo da Francescotto e da Beatrice Solaro, entrambi appartenenti a famiglie guelfe del ceto magnatizio astigiano, fu forse il secondogenito dei fratelli Giacomo, Guidetto (o Guido) e Antonio. I quattro fratelli furono soci della compagnia Malabaila, operante ad Avignone dal 1342 al 1362 e prescelta da papa Clemente VI come unica compagnia - almeno fino al 1348 - accreditata per i trasferimenti di capitali della Camera apostolica, dopo il fallimento delle banche fiorentine.
La prima attestazione del M. compare nella procura da lui rilasciata, col consenso del padre, il 3 ott. 1340 ai fratelli Giacomo e Antonio per ricevere la concessione della castellania di Monticello da parte del vescovo di Asti Arnaldo de Rosette. L'atto, riferito senza data topica nell'investitura vescovile rilasciata l'anno seguente da Avignone, fu redatto dal notaio Pietro Guccio de Tignano, chierico di Firenze; il che potrebbe far pensare a una residenza fiorentina del M., forse qui impegnato nella sua formazione ecclesiastica. Certo è che, quando nel 1342 venne creata la compagnia - principalmente per fornire servizi bancari alla Camera apostolica e con la protezione del papa - il M. subito vi partecipò con i fratelli e nel maggio 1343 compare presso la succursale di Bruges con Guidetto e con il socio Corrado di Vallescaria, complessivamente indicati come "mercatores Astenses tam in Romana curia quam in partibus Flandre commorantes" (Die Einnahmen der apostolischen Kammer, p. 485), senza alcun riferimento a un suo eventuale stato clericale. Tre anni più tardi, tuttavia, il 31 ott. 1346, il M. ottenne un canonicato a Lincoln ed è difficile pensare che abbia maturato la vocazione religiosa nell'intervallo di tempo trascorso: è più probabile che sia stato avviato agli ordini fin da giovane, senza trascurare l'attività mercantile-finanziaria che caratterizzava la sua famiglia. Così, per esempio, viene indicato dopo il 1346 come "Bodracus Malabayla, canonicus Lincolniensis, frater Iacobi, civis et mercator Astensis" (ibid., p. 537). Molto probabilmente il M. svolgeva la funzione di direttore della succursale di Bruges, ma è anche presente in quella di Londra, dove compare autorizzato a ricevere tutti i fondi inglesi e a darne quietanza.
Era ecclesiastico in Inghilterra in quegli anni anche il nipote Giovanni, figlio del fratello Guidetto, che ottenne nel giugno 1346 un canonicato a York, ma - a differenza dello zio - non appare partecipare alla compagnia commerciale della famiglia. La significativa introduzione dei Malabaila presso la corte papale giustifica la particolare protezione elargita ai suoi membri con la concessione dei due canonicati inglesi a zio e nipote, anche se per quello del M. sorsero problemi nel luglio 1347, quando contro di lui fu intentato un processo di revoca e di sospensione del canonicato e nel maggio 1348, in esecuzione del provvedimento, il re d'Inghilterra Edoardo III ordinava l'arresto di chi si fosse opposto al regolare corso della sentenza emanata dalla corte del Common Bench; ignoriamo le ragioni che provocarono tale intervento, ma non è fuori luogo pensare a un diffuso malcontento da parte della clientela della compagnia, dal momento che negli atti del provvedimento ricorre, riferito al M., l'appellativo di "lumbard" con cui si indicavano i prestadenari astigiani, spesso accusati di esercitare l'usura.
Riuscì comunque a conservare il suo canonicato fino al 29 apr. 1349, quando fu ufficialmente sostituito nel suo incarico inglese, in quanto nel frattempo - il 15 ag. 1348 - era stato eletto vescovo di Asti a seguito della morte di Arnaldo de Rosette. Si può anzi ipotizzare che tale elezione fosse anche un modo per tacitare gli Inglesi da parte di Clemente VI.
Il primo atto del suo episcopato risale al 19 marzo 1349 e concerne il rinnovo dell'investitura di un vassallo vescovile; è redatto nel castello di Monticello - di pertinenza dei Malabaila in seguito alla concessione loro fatta da Arnaldo de Rosette nel 1341 - e il M. qui risulta essere vescovo eletto e non ancora consacrato; la consacrazione infatti dovette avvenire fra il 19 maggio e il 18 luglio. L'investitura di marzo fu la prima di una lunga serie che per tutto l'anno occupò l'attività del nuovo vescovo: ne fece seguito un'altra, il 18 aprile, fatta nel castello vescovile di Sant'Albano, dopo di che - dal 26 dello stesso mese - il M. appare residente nel castello di Bene, dove avvennero nei mesi successivi oltre una trentina di altre investiture. Tale castello del Cuneese, privilegiato già dai vescovi di Asti sul finire del Duecento, era divenuto sede permanente della curia vescovile con Arnaldo de Rosette dal 1330 circa, segnando un abbandono quasi secolare della città da parte dei vescovi astigiani che, anche per motivi di sicurezza, ritennero opportuno spostare la residenza nel cuore del loro dominato politico.
L'opera di riorganizzazione dell'irrequieta clientela vescovile, già intrapresa dal vescovo Guido di Valperga e proseguita in modo più sistematico da Arnaldo de Rosette, fu conclusa con molta più energia dal M. fin dai primi mesi della sua elezione: fra aprile e maggio rinnovò infatti le investiture dei vassalli dell'area meridionale, proseguì in luglio, ma soprattutto in agosto ottenne la fedeltà delle importanti famiglie cittadine dei Roero e dei Pelletta, detentori di castelli vescovili, completando infine l'iniziativa in settembre.
In seguito non mancarono problemi che il nuovo vescovo seppe risolvere con energia, come nel caso degli Alfieri, feudatari del castello di Magliano, che in ottobre rifiutarono di accogliere il procuratore vescovile, originando una lite che si protrasse fino al febbraio 1354. Nello stesso tempo il M. risolse anche la delicata questione dei feudatari di Cisterna, i cui predecessori si erano impegnati a mettere il castello a disposizione anche del Comune di Asti nell'eventualità di una guerra: il vescovo rinnovò l'investitura, accondiscendendo alla doppia fedeltà dei castellani, escluso il caso di ostilità contro la Chiesa. In tutte le cerimonie di investitura tenute nel castello di Bene, il vescovo compare attorniato da una piccola corte di fedeli di cui fanno parte occasionalmente, ma con una certa frequenza, il fratello Antonio, condirettore della compagnia mercantile, e un non meglio identificabile Percivalle Malabaila.
I rapporti tra la famiglia e il patrimonio vescovile vennero affrontati dal M. in più riprese, ma con esiti diametralmente opposti, almeno stando all'apparenza. Il vescovo Arnaldo de Rosette nel 1341, come garanzia di un prestito fatto alla Chiesa, aveva infatti concesso in castellania a Francescotto Malabaila e ai suoi figli il castello di Monticello col godimento di tutti i diritti per otto anni e contro un censo annuo di 100 lire astesi, poi abbuonato dal suo testamento del 1348. Trascorso il tempo della concessione e defunto il vescovo concedente, il M., diventato a sua volta vescovo di Asti, in un primo tempo avocò alla Chiesa il castello fin allora tenuto dalla famiglia, ma poi il 17 ott. 1350 - forse su richiesta dell'anziano padre - rinnovò la concessione e, motivando il provvedimento con le eccessive spese di manutenzione e di custodia da parte della Chiesa e con l'esiguità della rendita ricavabile, ne deliberò l'enfiteusi perpetua a Francesco Malabaila, ai figli Antonio e Guidetto e al nipote Ludovico, figlio del fu Antonio, contro un censo annuo di 150 lire. Il vantaggio dell'enfiteusi per i Malabaila, rispetto alla precedente custodia, consisteva nella perpetuità della concessione e in una maggiore disponibilità del castello, benché il censo fosse aumentato e il titolo di possesso continuasse a non essere feudale e dunque non completamente patrimonializzabile. Anche Clemente VI, il mese successivo, manifestò il suo beneplacito, ordinando tempestivamente ai vescovi di Alba e di Noli di ratificare gli accordi intercorsi fra il M. e la sua famiglia. Un anno e mezzo dopo, tuttavia, il M. sembrò ritornare sul primo orientamento, forse in seguito alle pressioni del capitolo e sentendosi in un certo senso disobbligato verso il padre che nel frattempo era defunto; così il 5 maggio 1352, in accordo coi suoi canonici, revocò solennemente il contratto stipulato con i fratelli con la considerazione che il castello di Monticello era la chiave (clavis) dello scacchiere fortificato della Chiesa astigiana che avrebbe potuto subire gravi danni dalla cessione e dichiarando che solo così avrebbe potuto correggere l'errore commesso con la concessione.
Non sono rimaste tracce su come abbia reagito la famiglia, ma il M. continuò ad amministrare con la stessa energia gli affari temporali della sua Chiesa - del 1350 e del 1351 sono rimasti atti relativi alla gestione fiscale del Comune di Mondovì, sottoposto al diretto dominio vescovile - e nel 1353 provvide a fare raccogliere gli atti che attestavano i diritti della Chiesa, creando per la prima volta un vero e proprio codice diplomatico del vescovato astigiano. Nel giugno di quell'anno affidava infatti al canonico di Bene, Giovanni Macario, suo procuratore, e al giurisperito Guglielmo Brusati di soprintendere alla raccolta dei documenti, poi trascritti e autenticati dal notaio Nicolino di Corgnato in nove gruppi di carte, articolate per località, a cui facevano seguito le copie delle bolle papali del XII secolo. Il codice, completato alla fine del Trecento, assunse poi il nome di "Libro verde" con il quale è conosciuto.
Il M. continuò intanto a godere della fiducia anche di papa Innocenzo VI che nel 1353 gli scrisse per sottoporre a idoneità Saladino figlio di Pietro Falletti (socio della compagnia Malabaila), destinato al canonicato di Salisbury. Lo stesso anno egli commissionò allo scultore Giovanni de Chiela la propria lapide tombale, realizzata in marmo, dove la sua effige - ornata dall'arma gentilizia e racchiusa da un'edicola gotica sormontata dalle armi di Clemente VI e di Innocenzo VI - appare ancora nella cattedrale di Asti, infissa nel pilastro di sinistra prima del presbiterio.
Il M. morì nel 1354, prima del 3 luglio, giorno in cui fu eletto come suo successore il già ricordato nipote Giovanni, figlio del fratello Guidetto, trasferito per l'occorrenza dalla sede di Treviso che occupava dal 1351. Segno non ultimo della benevolenza papale nei confronti della famiglia Malabaila.
Fonti e Bibl.: Canale (Cuneo), Castello Malabaila, Archivio Malabaila, m. 1, n. 37; Arch. di Stato di Torino, Corte, Paesi, Asti, m. 29 bis (Fidelitates Astenses); Torino, Università di Torino, Dipartimento di storia, dattiloscritto: V. Abre, Una famiglia di banchieri astigiani: i Malabaila (1300 circa - 1362) [1981]; Ibid., datt.: V. Mortellaro, L'aristocrazia bancaria astigiana: la famiglia Malabaila, Torino [1991]; Calendar of entries in the papal registers, London 1896, p. 157; Papal letters, a cura di W.H. Bliss - C. Johnson, III, London 1897, pp. 200, 237, 274; Calendar of patent rolls, Edward III, London 1903, pp. 153-155; Il Libro verde della Chiesa di Asti, a cura di G. Assandria, Pinerolo 1907, pp. 238-247; Die Einnahmen der Apostolischen Kammer unter Klemens VI., a cura di L. Mohler, Paderborn 1923, ad ind.; Clement VIe. Lettres closes, patentes et curiales, a cura di E. Déprez - G. Mollat, Paris 1960, ad ind.; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, IV, Venetiis 1719, coll. 384-387; G. Claretta, Gli Alfieri e il vescovo d'Asti B. M., in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, XXVI (1890-91), pp. 773-792; Y. Renouard, Les relations des papes d'Avignon et des compagnies commerciales et bancaires de 1316 à 1378, Paris 1941, p. 16; R. Bordone, Un tentativo di "principato ecclesiastico" fra Tanaro e Stura, in Le strutture del territorio fra Piemonte e Liguria dal X al XVIII secolo, Cuneo 1992, pp. 133 s.; C. Natta Soleri - B. Fè d'Ostiani, Testimonianze araldiche, in Araldica astigiana, a cura di R. Bordone, Asti 2001, p. 168.