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Castiglione, Baldesar

di Giancarlo Mazzacurati - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Castiglione, Baldesar

Giancarlo Mazzacurati

Il C. si incontra con l'opera di D. (più particolarmente col De vulgari Eloquentia) in maniera piuttosto indiretta, in una sforzata confluenza tra le teorie linguistiche espresse nel I libro del Cortigiano e la dottrina del volgare ‛ illustre ', recuperata al dibattito critico del primo Cinquecento da G.G. Trissino. In realtà non sembra che nell'elaborazione della sua teoria il C. abbia potuto ricevere dal De vulgari Eloquentia più di qualche labile spunto, giuntogli (se mai gli giunse) filtrato attraverso quel nucleo di esperienze letterarie, critiche e sociali che si irradiarono dai circoli romani (Calmeta, Colocci) a tutte le corti italiane: il frammento colocciano nel quale si fa esplicitamente riferimento al trattato dantesco è datato dal Debenedetti intorno al 1526, anche se il Neri tende a riportarne ai primissimi anni del secolo la conoscenza da parte del Colocci: ma le prove addotte potrebbero riferirsi al Convivio, già posto a stampa nel 1490. Sono insomma piuttosto indefinibili le suggestioni che il C. potè ricevere dalla dottrina dantesca, mentre componeva il I libro del Cortigiano e quando più tardi tornava sull'argomento, nella lettera dedicatoria a don Miguel de Sylva: di certo c'è invece una considerazione negativa, cioè il fatto che egli non ricordi mai l'opera di D., che escluda l'autore della Commedia dal novero degli autori antichi e moderni proposti all'imitazione letteraria dal ‛ cortegiano ' (Cortegiano I XXX). Né si può dimenticare infine che egli esprime a più riprese un concetto di ‛ grazia ' e di ‛ decoro ' (sia sul piano rappresentativo che su quello sociale) dal quale implicitamente si può desumere, se non avversione, almeno incomprensione e distacco rispetto alle forme del realismo dantesco (le stesse riserve esprimerà più tardi un altro scrittore di costume, il Della Casa: e lo farà esplicitamente). C'è infine in tutta la sua dottrina una spinta anti-arcaicizzante e anti-dottrinaria che non lascia molti dubbi sulle capacità del cavaliere mantovano di apprezzare i modi dell'esperienza dantesca.

Nel decennio successivo alla composizione del Cortegiano, in una prospettiva sconvolta dalle polemiche suscitate dal Trissino, il C. viene scelto da Claudio Tolomei a rappresentare (nel Cesano) l'istanza cortigiana, entro schemi che sostanzialmente arretrano e deformano il suo pensiero. L'inno alla lingua cortigiana come lingua letteraria illustre che il Tolomei fa elevare al C. nel suo dialogo, sfruttando i temi di recente riscoperti della ‛ curialità ' dantesca, rappresenta tutto sommato un fraintendimento della sua posizione, ignora la spinta anti-letteraria che da essa si esprime. In effetti (malgrado le tante contraddizioni che l'incrinano) la proposta del C. tende prima alla lingua ‛ comune ', a un parlato vivacemente inteso come tramite sociale, strumento di trasmissione ideologica e di colloquio politico, piuttosto che a una lingua ‛ illustre ' e destinata a una circolazione di tipo letterario. Non mancano ovviamente coincidenze o affinità tra la teoria ‛ cortigiana-italiana ' del C. e la dottrina del De vulgari Eloquentia; tra queste varrà la pena di sottolineare la somiglianza degli strumenti cui è affidata la selezione del linguaggio (" discretio " da un lato, " bon giudicio " più " giudicio naturale " dall'altro), il vivo senso del fluire e delle trasformazioni dell'uso, infine l'intellettualismo che accomuna le due posizioni nell'indicazione delle origini sociali e delle qualità culturali di coloro cui spetta in definitiva la selezione e l'immissione nell'uso (letterario o parlato) delle forme ecletticamente affluenti.

Bibl. - Sulle teorie linguistiche del C. basti il rinvio a V. Cian, La lingua di B.C., Firenze 1942; all'introduzione di B. Maier alla sua ediz. del Cortegiano (Torino 19642, 34-40) e da ultimo a G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967 (partic. 122-123, 130-131). Per la forzata confluenza tra teoria dantesca e teoria del C., cfr. C. Tolomei, Il Cesano, in Il Castellano di G.G. Trissino e Il Cesano di C. Tolomei, Milano 1864, 24-30. Vedi inoltre S. Lattès, Sulla diffusione del De vulg. Eloq. nel '500, in " Rendic. R. Accad. di Sc. Lett. Arti Napoli " XVII (1937) 155-168; Th. Labande-Jeanroy, La question de la langue en Italie, Strasburgo 1925, partic. 127-134. Accenni a confluenze e divergenze in P. Rajna, La lingua cortigiana, in Miscellanea in onore di G.I. Ascoli, Torino 1901, 295-314; F. Neri, Note sulla letteratura cortigiana del Rinascimento, in Letteratura e leggende, Torino 1951, 4-5; P.V. Mengaldo, Appunti su V. Calmeta e la teoria cortigiana, in " Rassegna lett. ital. " LXIV (1960) 448 e passim.

Vedi anche
cortigiano Figura della corte del Rinascimento, il cortigiano (gentiluomo esperto di lettere, diritto, armi e diplomazia) costituiva un consigliere e un collaboratore prezioso per il principe, della cui casa era infatti ospite. A tale figura e alle sue caratteristiche il letterato B. Castiglione, nel 1528, dedicò ... dialogo La parte di uno scritto e, più spesso, di un’opera scenica, narrativa, o di un film, in cui sono introdotti a parlare due o più personaggi.  letteratura Prescindendo dalle opere sceniche, dove è nel suo proprio luogo, e senza tener conto degli elementi dialogici contenuti nelle liriche, nei poemi, nella ... Guidobaldo I da Montefeltro duca d'Urbino Guidobaldo I da Montefeltro duca d'Urbino. - Figlio (n. 1472 - m. Fossombrone 1508) di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza, ebbe educazione umanistica, sotto la direzione di O. Ubaldini. Uomo d'arme, combatté i Francesi di Carlo VIII in Romagna (1494) e nel Napoletano (1496). Tradito da C. Borgia, ... Giovanni Della Casa Letterato (n. nel Mugello, o forse a Firenze, 1503 - m. Roma 1556), noto soprattutto per il Galateo (1558), piccolo trattato di regole universali che valgono ad assicurare il successo nella vita. Vita. Fu a Padova nel 1528 e di lì si trasferì a Firenze, indi a Bologna e infine a Roma dove si stabilì ...
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