MANARA, Baldassarre
Sono scarse le notizie biografiche pervenute su questo pittore ceramografo, attivo a Faenza nella prima metà del XVI secolo, figlio maggiore di Giuliano di Baldassarre, di professione orciolaro.
Molteplici testimonianze documentali (Ravanelli Guidotti, 1996, cui si fa riferimento nel corso della voce, se non altrimenti riportato) indicano il padre Giuliano, nato nel 1478, e morto intorno al 1550, come uno dei più attivi e affermati ceramisti faentini dei primi decenni del Cinquecento; con il fratello Sebastiano, anch'egli orciolaro, lavorò in gioventù presso la manifattura di Girolamo Torrexetto. Giuliano e Sebastiano - già divenuti soci dell'impresa - nel 1507 sposarono rispettivamente Ginevra (probabilmente madre del M.) e Bartolomea, figlie di Torrexetto, del quale dunque divennero eredi. Negli anni successivi numerose compravendite immobiliari e fondiarie, assunzioni di personale e incarichi all'interno della corporazione dei ceramisti, indicano una crescente prosperità e il raggiungimento di uno status sociale di rilievo. La famiglia e l'officina figulina Manara erano insediate nel cosiddetto rione Rosso, tra porta Ravegnana e porta Imolese, in contrada S. Clemente; un documento del 1538 definisce tale area "iuxta Contratam illorum de Manarijs", ciò che rivela che la numerosa famiglia godeva di notorietà in ambito cittadino. Giuliano ebbe sei figli da tre matrimoni e tutti - a eccezione di Giovan Battista - furono ceramisti; solo del M., però, a oggi sono note opere autografe.
La prima attestazione del M. risale al 1529, quando egli compare in qualità di teste in un atto notarile, nel quale è detto abitare in contrada S. Tomaso, vicino a porta Imolese; nel medesimo periodo compare in altre scritture con il padre o con lo zio Sebastiano.
La produzione giovanile del M. non è nota, poiché le sue creazioni firmate e datate risalgono tutte a un breve arco temporale, e palesano la mano di un artista già maturo. È verosimile, secondo C. Ravanelli Guidotti, che dopo un primo apprendistato familiare, il M. sia stato a bottega presso qualche pittore di cassoni nuziali o a contatto con i migliori pittori locali, che risentivano della coeva cultura figurativa ferrarese e bolognese, come attesta l'attenta vena narrativa evidente nelle sue opere. Le prime prove del M. sono dunque da ricercare nell'anonima produzione faentina del primo istoriato, intorno agli anni Venti del XVI secolo, quando gli esiti di N. Pellipario o di F.X. Avelli aprirono nuove strade alla ceramografia; le opere del monogrammista "C.I" ("G.I", secondo Liverani) sembrerebbero connesse alla figura del Manara.
La prima opera attribuita con certezza al M. è il piatto raffigurante Tereo, Procne e Filomela (datato 1532: Göteborg, Museo di arte industriale Röhss), soggetto tratto dalle Metamorfosi ovidiane.
La scena coglie, sullo sfondo di un'architettura rinascimentale, il momento della trasformazione delle due sorelle in uccelli, inseguite dal re Tereo che brandisce una spada, furioso per la terribile vendetta che le due sorelle hanno ordito ai suoi danni. Il M. si rivela qui artista compiuto: sulla base di fonti iconografiche diverse - segnatamente Marcantonio Raimondi e l'edizione veneziana delle Metamorfosi, pubblicata nel 1521 - egli delinea un'immagine equilibrata nella composizione, scandita al centro da una colonna che sostiene gli archi di un porticato e separa l'azione di Tereo dal gruppo delle due donne. Il M. si rivela come artista memore della tradizione tardoquattrocentesca faentina, di cui un esempio è ravvisabile nel pavimento maiolicato della cappella Vaselli in S. Petronio a Bologna (circa 1487), ma anche pienamente informato della contemporanea produzione di ceramica istoriata di ambito marchigiano la cui influenza è evidente sia nello stile sia nella tavolozza, orientata alla gamma dei verdi, degli azzurri, dell'arancio. Il M. dipinge a partire da un solido impianto disegnativo, con contorni ben definiti e ombreggiature a chiaroscuro: ne nascono forme caratterizzate da un elegante linearismo, impreziosito da un cromatismo brillante. La vena narrativa del M. si traduce in immagini aggraziate e decorative, che si apparentano alla miniatura o all'oreficeria e illustrano solitamente soggetti letterari e mitologici. Le ambientazioni del M. integrano la natura - rappresentata da quinte arboree, greti sassosi e ruscelli - con sfondi "a paese", di città turrite, castelli e montagne: la rappresentazione si adatta alla forma del manufatto, assecondandone le curve e le convessità. Esemplare in tal senso il piatto con Orfeo ed Euridice del Museo di Faenza, databile intorno al 1534.
Il corpus di oggetti del M. pervenutici è vasto, contando decine di pezzi, ed è rappresentato nei più importanti musei del mondo; quelli attribuibili con sicurezza - perché datati, firmati o siglati dall'autore - risalgono tutti agli anni tra il 1532 e il 1536, quando il pittore, evidentemente conscio del proprio valore, dovette decidere di uscire dall'anonimato.
Particolare interesse, per l'alta qualità formale e per la rarità del cimelio, riveste la tazza da parto con coperchio oggi al Metropolitan Museum di New York, ma già facente parte della collezione di Alfred Pringsheim, che fu battuta all'asta a Londra nel 1939.
Le tazze da parto, destinate al nutrimento della puerpera, si univano - secondo la descrizione illustrata che ne darà Cipriano Piccolpasso nei suoi Li tre libri dell'arte del vasaio (1556-57 circa) - ad altri pezzi in maiolica, una scodella poco profonda detta ongaresca, una saliera, a comporre un servizio composito da sistemare a guisa di vaso. La tazza del M. presenta all'esterno un decoro a grottesche policrome su fondo blu scuro, mentre internamente è rappresentato Enea in fuga da Troia. Secondo l'usuale iconografia, l'eroe è in primo piano con il padre Anchise sulle spalle e il piccolo Ascanio al fianco, mentre Creusa in atteggiamento di mesto congedo appare all'estrema destra della coppa: sul fondo ardono le mura di Troia. Un'iscrizione latina, che fa riferimento alla forza e al valore di Creusa, corre sul bordo piatto della scodella; si tratta di un indiretto augurio alla partoriente, data la destinazione dell'oggetto dipinto. Il coperchio, invece, raffigura all'interno Ercole e il leone Nemeo, e all'esterno Piramo e Tisbe. Intensamente liriche, le rappresentazioni della tazza rivelano un maestro del paesaggio e della resa dei sentimenti, come attesta il dialogo di sguardi tra Enea e il suo bambino.
In data imprecisata, ma certo prima dell'agosto 1540, il M. sposò Caterina Pizolli, figlia di Vincenzo di origine mantovana, il quale a questa data cedeva un'abitazione al genero a saldo della dote nuziale. Nel 1544 il M. acquistò una casa in contrada S. Maria degli Ughis, dove risultava abitare l'anno seguente. La morte del M. si colloca tra il gennaio 1546 e il 15 giugno 1547 quando in un documento la moglie Caterina viene definita "olim uxor".
Fonti e Bibl.: G. Liverani, Sul disco di B. M. con l'effigie di Battistone Castellini, in Faenza, XXVIII (1940), 4, pp. 78-82; C. Ravanelli Guidotti, Da un'idea di Giuseppe Liverani, la proposta per una monografia su "B. M. figulo faentino del XVI secolo", ibid., LXVII (1991), pp. 147-159; C.S. Däubler, La tazza da parto nella collezione Pringsheim, in Ceramica antica, IV (1994), 6, pp. 26-39; C. Ravanelli Guidotti, B. M. faentino: pittore di maioliche nel Cinquecento, Ferrara 1996 (con ampia bibliografia precedente e regesto dei documenti).