CASTIGLIONE, Baldassarre
È una delle figure più schiettamente rappresentative del Rinascimento italiano, così nei riguardi morali, come in quelli letterari e politici, anche perché la sua vita si stende in quel periodo, a cavaliere dei secoli XV e XVI, nel quale si susseguirono eventi decisivi della storia nostra.
Nacque il 6 dicembre 1478 nella villa di Casatico, in quel di Marcaria Mantovana, da un ramo dell'antica e illustre famiglia lombarda trapiantatosi in Mantova a tempo del marchese Ludovico Gonzaga. Il padre di B., Cristoforo, soldato e cavaliere, uomo di azione, era allora poco più che ventenne; la madre, Luigia Gonzaga, era stretta di parentela coi signori della città sua.
Fu educato degnamente, dapprima in Mantova, poscia in Milano, dove fu affidato alle cure dei parenti, soprattutto di Giovan Stefano Castiglione e frequentò non solo, pare, la scuola di Giorgio Merula e di Demetrio Calcondila, maestri d'umanità latian e greca, ma anche la corte di Lodovico Sforza e di Beatrice d'Este.
Mancatogli prematuramente - nel marzo 1499 - il padre, dovette prenderne il posto nella sua famiglia. Nell'ottobre del 1499 accompagnò Francesco Gonzaga a Milano, per assistere all'ingresso di Luigi XII. Nel 1500 assunse, per volere del marchese, l'ufficio di vicario di Castiglione Mantovano, ufficio che acquistava importanza speciale per il fatto che quel paesello si trovava presso il confine veronese. Nel 1503 il C. seguì il suo signore nella sfortunata campagna di Napoli contro gli Spagnoli, e nel ritorno, visitando Roma e Urbino, provò il fascino, tanto diverso, ma egualmente profondo, delle due città; e a quel fascino cedette, l'anno seguente, allorquando egli chiese e ottenne licenza dal Gonzaga di passare ai servizî di Guidobaldo. il duca feltresco. Il marchese non osò negare, sebbene gliene serbasse poi in cuor suo un risentimento che era quasi rancore. A quella decisione il C. fu indotto non soltanto dal non vedersi adeguatamente apprezzato dal marchese, ma più ancora forse dalle attrattive irresistibili della "piccola città" nella cui corte regnava, non invano per lui, con la sua pensosa attraente bellezza, la duchessa Elisabetta Gonzaga. E fu grande ventura questa per lui e per le lettere italiane; ché, in tal modo, in un ambiente raccolto e tranquillo, con una libreria come quella ducale, che era fra le più ricche d'Italia, il C. poté assicurarsi quella maggiore libertà d'azione e quell'otium studioso che gli permisero di prepararsi alle prove e alle fortune future, così della vita negotiosa, come di quella letteraria. Senza quel soggiorno non avremmo avuto il Cortegiano, il libro che ben può dirsi urbinate d'ispirazione e di nascita; né il C. avrebbe avuto il beneficio di stringere relazioni feconde con la Roma di papa Giulio II, nonché l'amicizia fraterna che doveva legarlo con Raffaello. Grazie a questa, il mondo s'allieta ancora di quel capolavoro che è il ritratto esistente oggi al Louvre, il quale ci ha serbato insieme con le sembianze esteriori, l'anima vera del C., una gravità signorile con una dolcezza che sarebbe serena, se non vi apparisse disteso un velo sottile di malinconia. Sennonché non è da credere che quella sua vita urbinate sia stata tutto un idillio. Infatti per i suoi nuovi signori egli riprese ben presto le dure fatiche della guerra, necessarie a recuperare loro lo stato, dopo le rapine borgiane; e poscia ebbe a recarsi ambasciatore in Inghilterra presso Enrico VII; e ancora, fra il 1509 e il 1513, sostenne nuovi travagli guerreschi e alla Mirandola vide il vecchio pontefice bellicoso muovere all'assalto di quella rocca. Ne ebbe in premio dal suo signore il castello e la contea di Novellara in quel di Pesaro, l'anno 1513; anno singolarmente felice per lui, soprattutto nel periodo che precedette immediatamente la morte di Giulio II (20 febbraio), quando, cioè, il C. partecipò al carnevale urbinate di corte, di cui ci rimangono due documenti curiosi e preziosi, il prologo alla Calandria del Bibbiena che il C. dovette comporre e fu recitato e stampato in luogo di quello dell'autore, e la sua lettera a Lodovico da Canossa, nella quale è descritta la scena, preparata nella sala del palazzo ducale per quelle rappresentazioni.
Da quell'anno è probabile s'iniziasse la composizione vera, cioè regolare e continuata, del Cortegiano, che è presentato anch'esso dall'autore suo come il frutto d'un ludus, d'un "gioco". Un lungo intervallo di tempo era corso dopo il primo abbozzo che è di poco posteriore alla primavera del 1507; ripresa nel 1513, la composizione dell'opera fu continuata a Roma sotto il pontificato di Leone X. Durante questo periodo l'attività diplomatica del C. in nome dei duchi di Urbino e più tardi (dal 1519, cioè dalla morte del marchese Francesco Gonzaga), anche in nome dei signori di Mantova, non gl'impedì d'attendere ai suoi studî, anzi egli poté educare e nutrire sempre meglio, affinandolo, il suo spirito, partecipando intensamente alla vita letteraria e artistica di quel massimo centro culturale del nostro Rinascimento. Nell'ottobre 1516 il C. sposò, in Mantova, Ippolita Torelli, della nobilissima famiglia modenese. La fedeltà coraggiosa ai suoi duchi il C. dimostrò in quegli anni dal '15 al '18, in cui essi patirono la spogliazione del loro stato per la politica sleale del papa mediceo; ma solo gli eventi poterono coronare più tardi i suoi sforzi generosi, ché dalla morte di Lorenzo de' Medici (1519) e, poscia (dicembre '21), dello zio pontefice, derivò la salvezza tardiva della duchessa Elisabetta. Nel '23 il C. ridiventò per l'ultima volta soldato, partecipando, a fianco di Federico II Gonzaga, alla campagna contro i Francesi. In quell'occasione, egli che aveva avuto il dolore di perdere la moglie, sentì il bisogno di far testamento (16 settembre 1523, in Mantova).
Il breve del 9 giugno 1521, con cui Leone X gli aveva conferito il carattere clericale e la tonsura, era stato un segno del nuovo avviamento del suo spirito. Forse anche mosso dal rispettabile proposito di riparare i danni che il suo patrimonio domestico aveva risentiti dal soggiorno urbinate e romano, il C. si sentiva attirato dalla grande diplomazia e dalle alte dignità ecclesiastiche. Nell'estate del '24 Clemente gli affidò la nunziatura di Spagna e, poco prima della sua morte prematura, Carlo V lo designava al vescovado di Avila. L'11 marzo '25 il C. giungeva a Madrid, quasi contemporaneamente alla notizia della battaglia di Pavia, cioè nelle condizioni meno favorevoli per svolgere utilmente l'opera sua diplomatica. Furono per lui più che quattro anni di dure e, non di rado, tormentose fatiche. Questa nunziatura la si suol considerare come un grave insuccesso per il C., ma se il quinquennio che precedette il Congresso di Bologna segnò il fallimento della politica pontificia nei suoi rapporti con l'Impero, sarebbe inesatto attribuirne la colpa al nunzio, invece che al pontefice, la cui politica, debole e contradditoria, pareva fatta apposta per irritare e provocare l'imperatore e rendere impossibili quegli accordi leali ai quali il C. si sforzava di giungere. Il destino crudele lo colse proprio allorquando egli, contro ogni apparenza e dopo eventi sciagurati (sciaguratissimo il sacco romano del '27), cominciava a cogliere i frutti dell'opera sua: il C. - colpito, a detta di un contemporaneo, da una "febbre pestilenziale" che, secondo un'altra testimonianza sincrona, sarebbe stata una spelentia, forse un'infezione alla milza (veneto spienza) - morì dopo tre giorni, il 2 febbraio 1529, a Toledo.
Fortunatamente il C., durante il suo soggiorno in Spagna, aveva provveduto ad assicurare, con l'aiuto di Pietro Bembo, la stampa del suo Cortegiano, che fu come il testamento letterario e morale della sua vita più bella e di una età e d'una società che in lui trovarono un pittore felice e un interprete fedele.
Quest'opera (che vide la luce in Venezia, presso gli Aldi, nel 1528) è fra le più notevoli del nostro Cinquecento per il suo valore storico e letterario. Rappresenta la vita e la cultura di quella società aulica in un felice contemperamento, così per la materia come per la forma, di classico antico e di moderno, di tradizione letteraria e di realtà vissuta. I ragionamenti del Cortegiano s'immaginano tenuti nel palazzo ducale d'Urbino, durante quattro serate nel marzo 1507, a ognuna della quali corrisponde uno dei quattro libri onde si compone l'opera del C. Nella prima, il conte Ludovico di Canossa espone le qualità e le condizioni del "perfetto cortegiano"; nella seconda, Federico Fregoso discorre del modo migliore di applicare e usare quelle qualità e condizioni, e a lui succede Bernardo Bibbiena nel trattare, con larghezza di esempî, delle "facezie". La terza serata è occupata dal Magnifico Giuliano de' Medici, che parla della donna in genere e poscia, in particolare, della donna, anzi della dama di corte; la quarta, infine, è divisa fra Ottaviano Fregoso, che s'intrattiene sulle relazioni del cortigiano col suo principe e quindi anche di politica, e Pietro Bembo, che discorre, con un crescendo d'ispirazione e di tono platonici, dell'amore e della bellezza in attinenza ai doveri del cortigiano.
Il C. con questi ragionamenti non ci ha lasciato uno dei soliti trattati a dialogo, astratti e freddi. I personaggi partecipanti ad essi sono tutti più o meno cospicue figure storiche, vive storicamente e psicologicamente individuate e caratterizzate; essi non dissertano dottrinalmente, ma espongono nel giusto tono conversevole, discutendo e suscitando discussioni, alle quali partecipano anche le donne. Così il C. ha saputo evitare ogni pesantezza e pedanteria, dando un bell'esempio, anche nel suo pioseggiare succoso e colorito, di felice assimilazione dell'antico e di spregiudicata disinvoltura e insieme di lodevole equilibrio fra l'ossequio alla tradizione della toscanità arcaica e alla toscanità moderna e le esigenze dell'uso letterario più propriamente italiano. Ma la sua italianità si manifesta chiara nel campo politico con accenti caldi e sinceri, tanto più efficaci per la sobrietà loro. La sua arte di vero umanista scaltrito nei segreti della latinità classica si affermò in prose e in versi, fioriti sobriamente d'ogni eleganza, ma senza eccessi di virtuosismo formale e con buona sostanza di fantasia, di sentimento e di pensiero. Eleganza e signorilità - sia pure senza quella originalità profonda e potente che anche nel nostro splendido Cinquecento fu di pochissimi - si notano egualmente nelle sue liriche volgari, poche di numero, ma scelte, e nell'egloga pastorale Tirsi, scritta per il carnevale d'Urbino. La fama del C. si fonda tuttavia principalmente sul Cortegiano, che, tradotto e imitato in moltissime lingue, ha avuto e continua ad avere la fortuna che gli aveva vaticinata Torquato Tasso. Ma il valore dell'uomo e dello scrittore s'accrescerà senza dubbio il giorno in cui avremo una raccolta completa delle sue lettere, oggi ancora per buona parte inedite o manchevolmente date in luce.
Ediz.: Opere volgari e latine del co. B. C., edite da G. A. e G. Volpi, Padova 1733; Poesie volgari e latine del co. B. C., corrette a cura di P. A. Serassi, Roma 1760; Lettere del co. B. C., edite da P. A. Serassi, voll. 2, Padova 1769-1771; Il Cortegiano annotato ed illustrato da V. Cian, Firenze 1894 (cfr. Giornale stor. lett. it., XXIII, pp. 260-66); 3ª ed. 1929; il The Book of the Courtier by Count B. Costiglione translated from the Italian a. annotated by L. Eckstein Opdyke, New York 1901, contiene pregevoli illustrazioni iconografiche (cfr. Giorn. stor. lett. it., XLI, p. 440 segg.).
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, B. C., artic. tratto dal materiale lasciato manoscritto per gli Scrittori d'Italia e pubbl. da E. Narducci, Roma 1879; C. Martinati, Notizie stor. biogr. con docum. ined., Firenze 1890 (cfr. Giorn. stor. lett. it., XVII, pp. 117-22); V. Cian, Candidature nuziali di B. C., Venezia 1892 (cfr. Giornale stor., XX, p. 479); J. Cartwright (Mrs Ady), B. C., Londra 1908, mediocrissima opera (cfr. Giorn. stor. lett. it., LV, pp. 111-20); Civiltà cattolica, 1909, p. 398 segg.; V. Cian, B. C., 1529-1929, in Nuova Antol., 1° luglio 1929.