GUALANDI, Bacciameo
Nacque a Pisa, verosimilmente poco dopo il 1250, da Bonifacio di Gerardo di Cortevecchia e, forse, da una Beatrice, d'ignota famiglia, attestata come moglie di Bonifacio nel 1269.
Il bisnonno Cortevecchia (a sua volta pronipote diretto di Alberto, uno dei quattro figli del Gualando di fine XI secolo eponimo della famiglia) era stato, nel 1182, il principale promotore della costruzione del "ponte novo" a Pisa (fra le attuali vie S. Maria e S. Antonio), tesa a porre fine al monopolio dell'unico ponte cittadino sull'Arno esistente fino ad allora. Cortevecchia aveva anche trasferito la propria dimora al di là del fiume, abbandonando l'area tradizionale di residenza della casata. I numerosi personaggi discesi dai suoi figli Gerardo e Opizzone, accomunati talvolta dall'appellativo di "illi de Curtevecchia", abitarono perciò tutti presso l'imbocco meridionale del nuovo ponte (nel quartiere di Chinzica) e detennero il giuspatronato della chiesa parrocchiale dei Ss. Cosma e Damiano, ma continuarono a far parte della più ampia "domus Gualandorum".
Quando il padre fece testamento, il 23 apr. 1269, il G. (il cui nome era la corrente volgarizzazione pisana di Bartolomeo) e il fratello minore Ranieri non erano ancora adulti, perché Bonifacio affidò la loro tutela ad alcuni facoltosi mercanti pisani. Pur appartenendo a una famiglia della nobiltà cittadina, egli dunque non era stato estraneo all'attività commerciale: è probabile che avesse interessi economici in Sardegna, nel Giudicato d'Arborea, dove in quel periodo erano presenti altri Gualandi. L'ancor giovane età del G. e del fratello spiega perché, nel febbraio 1271, essi fossero autorizzati dall'arcivescovo Federico Visconti a procrastinare la pronuncia del giuramento di fedeltà con il quale sarebbero subentrati al padre, ormai defunto, nel ruolo di vassalli della sede arcivescovile pisana; e ancora, nel dicembre 1272, un acquisto di terra lungo la via che dalla città conduceva a San Piero a Grado e alla foce dell'Arno (zona in cui il G. ebbe uno dei principali nuclei del suo patrimonio) fu effettuato da uno dei tutori.
Non stupisce, pertanto, che il G. non sia mai menzionato dalle fonti relative alle complesse e turbolente vicende politiche pisane degli anni '70, alle quali parteciparono attivamente altri Gualandi come fieri avversari del giudice di Gallura Giovanni Visconti e dei suoi sostenitori. Invero, non sappiamo praticamente nulla del G. anche per buona parte del decennio successivo, se si eccettua un'isolata notizia del 15 nov. 1280, giorno in cui egli fu invitato a partecipare, insieme con gli altri Gualandi "Cortevecchia", all'elezione del rettore della chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. È probabile (ma non sicuro) che egli partecipasse alle operazioni belliche contro Genova culminate nell'infausta battaglia della Meloria (6 ag. 1284); sappiamo, comunque, che ancora nel 1297 egli teneva a propria disposizione un prigioniero genovese per potersene servire per uno scambio.
In ogni caso, all'epoca del governo di Ugolino Della Gherardesca e di Ugolino (Nino) Visconti (1286-88) il G. era ormai diventato il più influente personaggio della propria famiglia, nonché uno dei principali oppositori di quel regime (fondato sul connubio fra i capi delle due fazioni che per quasi tutto il secolo s'erano aspramente combattute, ma si erano riavvicinate negli anni '70 quando furono esiliate). La speciale posizione da lui avuta nelle vicende che portarono alla fuga di Nino e alla cattura di Ugolino risulta con grande chiarezza dall'anonima cronica pubblicata dal Muratori con il titolo di Fragmenta historiae Pisanae; anche gli Annali di Iacopo Doria (in Annaligenovesi di Caffaro…) attestano che, nel maggio del 1288, quando il messo genovese inviato a Pisa per reclamare il rispetto del trattato di pace concluso il 15 aprile precedente fu avvicinato dai membri della fazione ostile ai due cosignori, la figura più importante subito dopo l'arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini era proprio il Gualandi. Alla fine, comunque, i congiurati decisero di agire senza appoggi esterni: il 30 giugno 1288 alla testa del contingente armato intenzionato a dare l'assalto al palazzo del Comune, allora sede di Nino, vi furono l'arcivescovo, il G. e alcuni altri nobili cittadini (fra cui due canonici della cattedrale della famiglia dei Lanfranchi).
Benché la cronaca non ne ripeta esplicitamente i nomi nel prosieguo del racconto, è certo però che il G. fu il primo fra quanti attorniarono l'arcivescovo nel prendere possesso del palazzo del Comune (da cui Nino era tempestivamente fuggito), nel condurre le trattative con Ugolino (al quale fu detto che avrebbe potuto conservare il potere solo facendosi affiancare da Ubaldini o da un altro collega gradito ai congiurati) e infine, il giorno dopo, nel decidere di dare battaglia: come è noto, la sera del 1° luglio 1288 l'arcivescovo e la sua fazione assaltarono il palazzo del Popolo e catturarono Ugolino con due figli e due nipoti, che furono rinchiusi in una torre di proprietà dei Gualandi.
Pur in mancanza d'esplicite attestazioni documentarie, possiamo ritenere che il G. fosse fra i principali collaboratori dell'arcivescovo anche dopo che costui fu proclamato rettore e governatore del Comune e del Popolo pisano, e condividesse quindi la decisione di far venire a Pisa il conte Guido da Montefeltro, il quale arrivò in città il 13 marzo 1289 e assunse subito il titolo di capitano generale di guerra del Comune. Quando, alla fine del settembre successivo, Guido inviò in Maremma un contingente di 150-200 cavalieri della masnada allora stipendiata dalla città, vi pose a capo il G. insieme con Ranieri Della Gherardesca conte di Donoratico; non sappiamo però qual parte egli abbia avuto nelle operazioni militari effettuate da queste truppe e culminate nella vittoria riportata sui Grossetani presso Castiglione della Pescaia alla fine d'ottobre. Né è dato sapere fino a quando egli collaborasse attivamente con Guido: quando, nella primavera del 1293, siamo nuovamente informati sulla sua attività politica, vediamo che egli - al pari di altri promotori della rivolta del 1288 - aveva ormai maturato la convinzione che fosse necessario porre fine allo stato di guerra contro Firenze, Lucca e altre città guelfe di Toscana (alleate dal 1284 in funzione antipisana); e in tale prospettiva, dopo alcuni incontri più o meno segreti con l'inviato del Comune di Lucca, partecipò, con l'assenso dello stesso Guido da Montefeltro, alla delegazione cittadina incaricata di concludere gli accordi di pace, siglati a Fucecchio il 12 luglio 1293. I patti sottoscritti prevedevano, fra l'altro, l'allontanamento da Pisa del conte, il quale non appena ne fu informato, accusò il G. di tradimento e lo fece mettere al bando in contumacia. Questi apprese della condanna al proprio ritorno in città e, pur facendo in tempo a fuggire, non poté evitare che il vicario del conte eseguisse la sentenza, facendo "disfare li beni tutti di messere Bacciameo" (Fragmenta…, col. 657). Non sappiamo però fino a qual punto si sia spinta la distruzione dei beni immobili del G., il quale - verosimilmente - poté tornare a Pisa subito dopo la partenza di Guido, avvenuta nel settembre dello stesso 1293.
Nei dieci anni successivi, a quanto sembra, il G. non si impegnò particolarmente nell'attività politica, pur mantenendo tutto il proprio prestigio. Nel settembre 1299 gli Anziani del Popolo lo assolsero da una condanna emessa contro di lui in quanto mallevadore del capitano di una certa imbarcazione che aveva commesso ruberie ai danni di fiorentini: interessante, ma isolato, accenno a una sua qualche partecipazione ad attività commerciali.
Nel primo decennio del nuovo secolo egli tornò ad assumere ruoli pubblici di rilievo; la sua esperienza e il suo prestigio gli valsero per almeno due volte la chiamata a partecipare ai negoziati lungamente condotti dal Comune con il re Giacomo II d'Aragona, al quale nel 1297 Bonifacio VIII aveva concesso in feudo la Sardegna e la Corsica. Come tanti altri pisani, anche il G. doveva essere personalmente interessato al mantenimento, da parte della propria città, del controllo politico ed economico sulla Sardegna: a Cagliari, all'inizio del secolo, operava, fra gli altri, suo figlio Vannuccio, che nel 1305 è menzionato come curatore di una contessa discendente dal giudice Mariano d'Arborea. La prima ambasciata alla corte aragonese alla quale il G. fu chiamato a partecipare è della primavera del 1303; ma nel settembre successivo egli era di nuovo a Pisa, dove partecipò all'elezione del pievano di Asciano (diritto riservato ai membri della "domus Gualandorum"). Forse ancor più delicato fu il compito affidato a lui e ad alcuni altri cittadini nella primavera del 1309, quando si trattò di fare l'ultimo tentativo di mandare a buon fine le febbrili trattative condotte nei mesi precedenti, tese ad assicurare a Pisa, in cambio del passaggio della città sotto la dominazione del re d'Aragona, la salvaguardia delle posizioni da essa detenute in Sardegna e un'efficace protezione contro le città guelfe della Toscana. Quando il G. e gli altri ambasciatori partirono era però già chiaro che un accordo di così ampia portata era reso impossibile dalla contrarietà della Curia papale; i negoziati condotti a Barcellona fra maggio e l'inizio di giugno riguardarono praticamente solo la sorte degli interessi pisani nell'isola, senza però che si giungesse ad alcuna conclusione.
Interessante per cogliere le implicazioni personali di un siffatto incarico è il fatto che proprio alla vigilia della partenza, ossia il 24 apr. 1309, il G. vendesse a un Sismondi un suo terreno posto a Oratoio (nel Valdarno prossimo alla città) per la cifra di 95 lire, che verosimilmente gli servivano per far fronte alle spese che avrebbe incontrato durante la legazione. Da un documento di pochi mesi prima (dicembre 1308) sappiamo che il G. aveva preso a prestito del denaro dal monastero vallombrosano pisano di S. Paolo a Ripa d'Arno (posto non lontano dalla sua abitazione), al quale aveva consegnato un pegno non meglio definito. E in quello stesso mese, un ex monaco di S. Paolo aveva rivelato agli antichi confratelli che, un paio di mesi prima, l'abate generale di Vallombrosa, Ruggero Buondelmonti, gli aveva suggerito di coinvolgere il G. in una congiura contro l'abate di S. Paolo, facendogli balenare la possibilità che il nipote Fazio (figlio del fratello Ranieri), qualora avesse accettato di passare dall'Ordine domenicano a quello vallombrosano, avrebbe potuto prenderne il posto. Sempre secondo il racconto dell'ex monaco, il G., pur rifiutando di aderire alla congiura, si sarebbe mostrato interessato alla seconda parte della proposta, riservandosi di discuterne con il nipote e con gli altri parenti. Anche se questa notizia non è sicuramente del tutto attendibile, essa mostra quantomeno che il G. era personaggio ben noto anche al di fuori della propria città.
Il disegno d'installare il nipote (oppure un altro suo parente) in S. Paolo a Ripa d'Arno non dovette però avere alcun seguito, giacché il G. scelse di farsi seppellire presso un ente ecclesiastico cittadino diverso sia dal monastero di Ripa d'Arno, sia dalla cattedrale di S. Maria, alla quale la sua famiglia era tradizionalmente assai legata. Il momento di prendere questa decisione giunse nel dicembre 1314, sette mesi dopo l'ultimo incarico pubblico di cui sia rimasta notizia, ossia la partecipazione a una commissione di savi insediata dagli Anziani, nel periodo in cui la città era sotto la signoria di Uguccione Della Faggiuola (dell'eventuale attività pubblica dispiegata dal G. nel corso di quegli anni non è rimasta alcuna traccia).
Giunto alla vigilia della morte il G. affidò il proprio corpo e i propri beni allo Spedale nuovo della Misericordia, l'ente fondato nel 1257 sul lato meridionale della piazza del Duomo. Il testamento del G. fu dettato il 7 dic. 1314; il giorno dopo egli fu accolto formalmente fra i fratres dello spedale, e il 14 dicembre morì.
Lo spedale provvide poi a redigere l'inventario dei suoi beni. Apprendiamo così che egli era stato proprietario di varie case nella "cappella" dei Ss. Cosma e Damiano, e aveva detenuto quote del complesso d'immobili di proprietà familiare posto a nord dell'Arno, nella cappella avita di S. Alessandro. Inoltre aveva posseduto un gran numero di terreni lungo la via per San Piero a Grado, nel Valdiserchio e a Calci. Alla vedova Bertina, figlia di Noradino da Vico (della vecchia casata signorile degli Upezzinghi), lo spedale restituì il corredo e le consistenti masserizie domestiche, e assicurò l'uso di un'abitazione. Una parte dell'eredità fu presto reclamata dalla figlia Bice, sposata con un Lanfranchi. Dei figli maschi, oltre al Vannuccio già ricordato, conosciamo Ranieri, che nel 1314 doveva essere già stato emancipato. Alcuni anni dopo egli fece oblazione di sé e dei propri beni al monastero di S. Donnino, posto subito a sud della cinta muraria del quartiere di Chinzica, e sottoposto a S. Paolo a Ripa d'Arno.
Fonti e Bibl.: Pisa, Archivio arcivescovile, Mensa, Contratti, nn. 3, c. 337r; 4, cc. 172r-174r, 262v; Diplomatico, nn. 1424, 1600; Ibid., Archivio capitolare, A/2, cc. 16r-17r; A/10, cc. 24v-26v; Arch. di Stato di Pisa, Comune. Divisione A, nn. 81, c. 47v; 82, c. 65r; 85, c. 5r; Diplomatico, Alliata, 1309 apr. 24 (st. pis. 1310 apr. 24); Spedali di S. Chiara, nn. 18, 20; Arch. di Stato di Firenze, Capitoli, n. 40, c. 37v; Archivio Grifoni, n. 245, cc. 121r-122v; Fragmenta historiae Pisanae, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXIV, Mediolani 1738, coll. 651 s., 657, 664 s.; Annali genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori, V, a cura di C. Imperiale di Sant'Angelo, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], XIV bis, Roma 1929, pp. 85-88; V. Salavert y Roca, Cerdeña y la expansión mediterránea de la Corona de Aragón, II, Barcelona 1956, nn. 377, 391, 392, 394, 395; Documenti inediti relativi ai rapporti economici fra la Sardegna e Pisa nel Medioevo, I, a cura di F. Artizzu, Padova 1961, n. 51 pp. 78 s.; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa, Napoli 1962, pp. 247-257, 278, 283-287, 394 s.; G. Garzella, Ceti dirigenti e occupazione dello spazio urbano a Pisa dalle origini alla caduta del libero Comune, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale. Atti del III Convegno, … 1980, Firenze 1983, pp. 244-246.