Abstract
La voce esamina il sistema delle azioni nel processo amministrativo muovendo da una ricostruzione storica che mette in luce, come accanto all’azione di annullamento introdotta in occasione dell’istituzione del giudice amministrativo alla fine del secolo scorso, emersero nel corso del tempo altre azioni come in particolare quelle di accertamento e di condanna ora recepite nel Codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 2.7.2010, n. 204.
1. Introduzione. L’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo
Il controllo giurisdizionale sull’attività amministrativa esercitato dal giudice amministrativo ha avuto storicamente al suo centro l’azione di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo.
Oltre un secolo è trascorso da quando quest’azione venne introdotta in occasione dell’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato (l. 31.3.1889, n. 5992) con l’attribuzione a quest’ultimo della competenza a esaminare i ricorsi contro gli atti amministrativi viziati per «incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge» lesivi di un interesse individuale. In caso di accoglimento del ricorso la sezione poteva annullare il provvedimento illegittimo con effetto retroattivo.
In precedenza, in base alla legge del 1865 abolitiva del contenzioso amministrativo (l. 20.3.1865, n. 2248, All. E) il cittadino poteva tutelare i propri diritti nei confronti dello Stato soltanto proponendo un’azione di fronte al giudice ordinario. Ma in conformità con il principio della separazione dei poteri, interpretato in modo rigoroso, il giudice ordinario non aveva il potere di annullare gli atti amministrativi. Poteva soltanto di verificare in via incidentale se l’atto era contrario alla legge e conseguentemente di risolvere la controversia senza tener conto dell’atto amministrativo (la cosiddetta disapplicazione). L’accertamento dell’illegittimità dell’atto comportava peraltro in capo all’amministrazione l’insorgere di un dovere conformativo che, in ipotesi, poteva consistere nella rimozione in via di autotutela del provvedimento illegittimo. Il giudice ordinario poteva in ogni caso condannare l’amministrazione, al pari di ogni soggetto privato, al risarcimento del danno causato da un comportamento illecito o da inadempimento.
Tuttavia il giudice ordinario negli anni successivi alla legge del 1865 interpretò i propri poteri in modo molto restrittivo concedendo alla pubblica amministrazione ampie zone di immunità e riducendo così la possibilità per i cittadini di ottenere tutela nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. In parallelo le pubbliche amministrazioni tendevano a non conformarsi al giudicato del giudice ordinario che pur aveva accertato l’illegittimità di un provvedimento.
La legge del 1889, confluita poi nel Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (R.d. 26.6.1924, n. 1054), rimasto in vigore fino al recente Codice del processo amministrativo, concepì il rimedio dell’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice amministrativo come una integrazione e un potenziamento della tutela offerta dal giudice ordinario in base alla legge del 1865 che non venne abrogata.
Si venne così consolidando un sistema di giustizia amministrativa che ruotava intorno a due azioni principali attribuite alla giurisdizione di due giudici distinti: l’azione di annullamento esperibile davanti al giudice amministrativo contro gli atti amministrativi illegittimi lesivi di un interesse legittimo; l’azione di risarcimento del danno che costituiva invece la forma di tutela principale esperibile davanti al giudice ordinario nei confronti di comportamenti illeciti della pubblica amministrazione lesivi di un diritto soggettivo.
In particolare, l’azione di annullamento consentiva un controllo giurisdizionale del potere discrezionale particolarmente efficace soprattutto attraverso la verifica dell’eccesso di potere.
Anche il potere del giudice di annullare gli atti amministrativi illegittimi era concepito in modo tale da rispettare il principio della separazione dei poteri. La sentenza infatti, nel disporre l’annullamento dell’atto, doveva contenere la formula «fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa». In altri termini, l’annullamento azzera per così dire l’operato dell’amministrazione, ma non stabilisce direttamente, soprattutto se si tratta di un potere discrezionale, come l’amministrazione deve provvedere. Il giudice amministrativo cioè non può sostituire in modo diretto la sua valutazione e la sua decisione a quelle dell’amministrazione.
A poco a poco, la giurisprudenza, seguendo una ricostruzione della dottrina (Nigro, M., Giustizia amministrativa, Bologna, V ed., 2000, 303 ss.), chiarì che la sentenza di annullamento produce tre tipi di effetti: l’effetto di annullamento che rimuove l’atto e i suoi effetti retroattivamente; l’effetto ripristinatorio, che mira a ricostruire per quanto possibile la situazione di fatto e di diritto nella quale sarebbe stato il ricorrente al momento dell’emanazione della sentenza in assenza dell’atto amministrativo illegittimo (per esempio, la restituzione di un bene occupato illegittimamente o la ricostruzione della carriera di un dipendente dichiarato decaduto); l’effetto conformativo (o ordinatorio), che crea un vincolo in capo all’amministrazione nel momento in cui essa emana, ove possibile, un nuovo provvedimento in sostituzione di quello annullato. L’ampiezza di quest’ultimo effetto si determina in funzione dei motivi di ricorso dedotti in giudizio e posti alla base della sentenza di annullamento. In generale, l’accertamento di un vizio di natura sostanziale (assenza di un presupposto di legge necessario per l’emanazione dell’atto, sviamento di potere) può determinare talvolta una preclusione assoluta alla reiterazione del provvedimento emanato.
2. Le insufficienze dell’azione di annullamento
L’annullamento dell’atto illegittimo costituì dunque in origine, e costituisce ancor oggi, un rimedio efficace in tutti i casi nei quali l’amministrazione ha il potere di sacrificare o di incidere altrimenti negativamente sulla posizione giuridica del privato e il privato ha interesse a contrastare l’esercizio del potere. Ciò avviene, per esempio, nei casi di una espropriazione, di una sanzione, di un ordine di abbattere un edificio pericolante, della revoca di una licenza. L’annullamento ripristina a favore del privato la situazione precedente all’emanazione dell’atto amministrativo ed elimina così la lesione subita. Così, se l’espropriazione è annullata l’amministrazione deve restituire al proprietario il terreno; se viene annullata la revoca di una licenza, il privato può riprendere a svolgere l’attività.
I danni ulteriori ai quali l’annullamento non riesce a porre rimedio possono essere risarciti. Così, per esempio, può essere risarcito il danno per non aver potuto utilizzare il bene espropriato per un determinato periodo di tempo o per non aver potuto svolgere un’attività commerciale a causa della revoca della licenza poi annullata. L’azione di risarcimento del cosiddetto «danno consequenziale» all’annullamento, fino a pochi anni fa, si doveva proporre davanti al giudice ordinario. Come si è visto, in base alla legge del 1865 quest’ultimo era essenzialmente il giudice del risarcimento del danno prodotto da comportamenti della pubblica amministrazione lesivi di diritti soggettivi. Ciò costringeva il privato a proporre un doppio giudizio davanti a due giudici diversi: il primo finalizzato all’annullamento dell’atto illegittimo; il secondo finalizzato a ottenere il risarcimento.
Solo nel 2000, in seguito alla svolta della Corte di Cassazione (Cass., S.U., 22.7.1999, n. 500) che ha superato il principio tradizionale della non risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, il legislatore ha stabilito che il giudice amministrativo possa non solo annullare l’atto amministrativo, ma anche condannare l’amministrazione al pagamento dei danni provocati dall’atto illegittimo (art. 7, l. 21.7.2000, n. 205 che ritoccò numerosi istituti del processo amministrativo). Ciò allo scopo ridurre i tempi e i costi a carico del privato.
L’azione di annullamento si rivelò subito poco efficace in una serie di ipotesi diverse da quelle sopra indicate. Si pensi al caso in cui il privato chiede all’amministrazione il rilascio di una autorizzazione o di una licenza necessaria per poter avviare un’attività e l’amministrazione emani un atto che rigetta la domanda presentata perché l’interessato non è in possesso di un requisito richiesto dalla legge. Il privato che ritiene illegittimo il diniego può certamente rivolgersi al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto. Ma il giudice amministrativo potrà soltanto verificare se il motivo del diniego (la mancanza di un requisito) è legittimo o illegittimo e in questo secondo caso annullare l’atto negativo. Il giudice non potrà invece stabilire direttamente se l’amministrazione è tenuta a emanare l’atto amministrativo richiesto. Dopo l’annullamento dell’atto di diniego l’amministrazione cioè deve operare una nuova valutazione della domanda proposta dal privato. All’esito di questa, potrebbe ben accadere che l’amministrazione confermi il diniego dell’atto richiesto, magari perché accerta la mancanza di un altro requisito richiesto dalla legge, diverso da quello posto alla base del primo diniego annullato.
Si pensi ancora al caso in cui, dopo che il privato ha presentato una domanda per il rilascio di un’autorizzazione o di una licenza, l’amministrazione rimanga inerte, cioè non prenda alcuna decisione esplicita, né positiva né negativa. Contro il silenzio della pubblica amministrazione l’azione di annullamento è uno strumento inutilizzabile. Infatti, il giudice non ha, per definizione, di fronte a sé un atto da annullare, ma un mero comportamento omissivo (l’inerzia) della pubblica amministrazione. Ciò determina un paradosso. Infatti, da un lato, nel caso meno grave di atto espresso di rigetto dell’istanza del privato, nel quale almeno l’amministrazione l’ha esaminata e ha ritenuto di non poterla accogliere, il privato poteva, come si è visto, ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto di diniego. Dall’altro lato, nel caso più grave di inerzia totale, che può essere dovuta a trascuratezza o negligenza dell’amministrazione o volontà di non assumere il rischio di una decisione, il privato era privo di ogni tutela.
Per risolvere questo problema, il Consiglio di Stato, fin dai primi anni del secolo scorso, fece ricorso ad alcuni artifici interpretativi. Qualificò infatti il silenzio mantenuto dall’amministrazione oltre un certo tempo di fronte a un’istanza di privato come un atto tacito di diniego di rilascio del provvedimento richiesto. Contro questa finzione di atto ritenne pertanto proponibile l’azione di annullamento. Il privato, però, prima di proporre il ricorso al giudice amministrativo, doveva notificare all’amministrazione una diffida assegnandole un termine congruo entro il quale rispondere all’istanza. Decorso il termine senza che l’amministrazione avesse emanato un atto positivo o negativo, il silenzio poteva essere impugnato come se fosse un atto tacito di diniego.
Questa costruzione fu superata dalla giurisprudenza alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Il Consiglio di Stato, infatti, ritenne che di fronte al silenzio dell’amministrazione il privato potesse proporre direttamente un’azione di accertamento volta a far dichiarare illegittimo il comportamento inerte mantenuto sulla istanza presentata dal privato e, addirittura, a condannare l’amministrazione a prendere una decisione espressa (positiva o negativa) sull’istanza. In alcune sentenze (rimaste isolate) il Consiglio di Stato si spinse fino al punto di stabilire che il giudice amministrativo avesse anche il potere di condannare l’amministrazione emanare l’atto richiesto, ove quest’ultimo avesse natura discrezionale.
Il Consiglio di Stato operò così un primo passo, integrando in via interpretativa le norme legislative vigenti, verso l’introduzione del processo amministrativo di un’azione di accertamento e di un’azione di condanna, oggi recepita nel Codice del processo amministrativo.
3. L’introduzione di altri azioni nel processo amministrativo
Un ampliamento dei poteri del giudice amministrativo avvenne anche per effetto di un altro tipo di evoluzione. Com’è noto, i confini della giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo furono segnati dalla giurisprudenza in base al criterio della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo. Poiché tuttavia in molte materie queste due figure erano intrecciate in modo inestricabile e ciò creava gravi incertezze, il legislatore, a partire dagli anni XX del secolo scorso, pensò di introdurre eccezioni al criterio generale.
Si stabilì cioè, che per alcune specifiche materie indicate in modo tassativo dalla legge (pubblico impiego, concessioni-contratto, ecc.), il giudice amministrativo potesse decidere su controversie riguardanti non solo gli interessi legittimi, ma anche i diritti soggettivi. Si introdussero così, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, i casi definiti di giurisdizione esclusiva, nel senso appunto che in essi il giudice amministrativo decide su tutte i possibili tipi di controversie. La prima materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo fu quella del pubblico impiego. Come eccezione dell’eccezione anche nei casi di giurisdizione esclusiva il giudice civile manteneva un ambito importante di intervento, quello cioè dell’azione di risarcimento del danno.
Lo spostamento della giurisdizione di alcune controversie dalla sede naturale del giudice ordinario a quella del giudice amministrativo comportò un ampliamento dei poteri di quest’ultimo. Infatti, nei casi di controversie riguardanti i diritti soggettivi un siffatto spostamento poteva essere concepito se e solo se la tutela offerta a quest’ultimi rimanesse invariata. In altri termini, il giudice amministrativo doveva essere investito degli stessi poteri (istruttori e decisori) del giudice ordinario. Così, nell’esempio già fatto, l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di risolvere le controversie sui canoni di concessione implicava che il giudice potesse accertare l’ammontare del canone dovuto ed eventualmente condannare il concedente al pagamento delle somme dovute. In definitiva, anche nell’ambito della giurisdizione esclusiva i poteri del giudice amministrativo si estesero ben al di là del potere di annullare gli atti illegittimi.
I casi di giurisdizione esclusiva si moltiplicarono nel corso dei decenni per effetto di interventi legislativi che integrarono via via l’elenco originario delle materie (per esempio, tra i casi più importanti, gli atti delle autorità amministrative indipendenti, lo smaltimento dei rifiuti, i contratti pubblici, ecc.). Anzi il Parlamento, specie nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, ampliò questo tipo di giurisdizione non più soltanto a casi particolari bensì a interi «blocchi di materie» (servizi pubblici, urbanistica, edilizia in base al d.lgs. 31.3.1998, n. 80) comprimendo così sempre più lo spazio del giudice ordinario. La Corte Costituzionale, con la sentenza considerata come quella più importante fino a oggi in materia di giustizia amministrativa (C. cost., 6.7.2004, n. 204), dichiarò infatti incostituzionali le disposizioni del d.lgs. n. 80 del 1998 (artt. 33 e 34) e stabilì il principio secondo il quale il giudice amministrativo ha come sua funzione specifica quella del controllo sul potere amministrativo in senso proprio («l’amministrazione-autorità»), non già quella di giudicare sui meri comportamenti della pubblica amministrazione. Sono meri comportamenti che rientrano sempre e necessariamente nella giurisdizione del giudice ordinario, per esempio, per riprendere uno dei casi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla base delle disposizioni dichiarate incostituzionali, il mancato pagamento da parte di un ospedale pubblico delle somme pattuite per l’acquisto di farmaci o l’occupazione di fatto di un terreno privato per ampliare una strada pubblica (cd. occupazione usurpativa).
Un altro filone legislativo che portò all’ampliamento dei poteri del giudice amministrativo riguarda materie particolari. Così, per esempio, in materia di accesso ai documenti amministrativi detenuti dagli uffici pubblici da parte dei soggetti privati interessati, la l. 7.8.1990, n. 241 prevede che nel caso di diniego di accesso, il richiedente possa proporre azione davanti al giudice amministrativo entro 30 giorni e che quest’ultimo possa ordinare all’ufficio di esibire e di rilasciare una copia dei documenti richiesti.
Di recente, il legislatore ha introdotto una particolare rimedio contro l’inefficienza dell’amministrazione che per esempio non rispetta gli standard minimi di servizio pubblico. Essa consiste in una specie di «class action» da proporre davanti al giudice amministrativo che si può concludere con una condanna dell’amministrazione a porre in essere entro un termine congruo le attività necessarie per porre rimedio all’inefficienza lamentata (d.lgs. 20.12.2009, n. 198).
Ma il caso più importante di ampliamento della giurisdizione del giudice amministrativo è costituito, come si è già accennato, dal potere di condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti all’emanazione di atti illegittimi previsto dalla l. n. 205/2000. Questa legge ha trasformato il ruolo del giudice amministrativo che non è più soltanto il giudice dell’annullamento, ma anche il giudice del risarcimento dei danni. Quest’ultimo ruolo in base alla legge del 1865, prima ricordata, è sempre stato proprio del giudice ordinario.
Tutti i casi di ampliamento dei poteri del giudice amministrativo vennero interpretati, fino a poco prima dell’approvazione del Codice del processo amministrativo, come casi di deroga alla regola generale in base alla quale la giurisdizione amministrativa ammette soltanto l’azione di annullamento. Comunque sia, venne mantenuto fermo il principio del «numerus clausus» (o della tipicità) delle azioni proponibili nel processo amministrativo. Ciò a differenza di quanto accade nel processo civile nel quale, come regola generale, il giudice può adottare ogni tipo di sentenza necessaria per dare piena soddisfazione e tutela al privato vincitore in giudizio (il principio della «atipicità»). Solo alcune sentenze del Consiglio di Stato emanate tra il 2009 e il 2010 considerarono superato il principio della tipicità, ammettendo in particolare, in assenza di una norma di legge espressa, un’azione di accertamento (Cons. St., sez. VI, 9.2.2009, n. 717, Cons. St., sez. VI, 15.4.2010, n. 2139). Questa può essere esperita per esempio da un privato per opporsi all’avvio di un’attività commerciale o alla edificazione di un terreno da parte di un altro privato nei casi in cui non è richiesta un’autorizzazione preventiva (cioè un atto contro il quale può essere proposta l’azione di annullamento), ma è sufficiente una semplice comunicazione all’amministrazione, che poi, ad attività avviata, può effettuare i controlli necessari per verificare che l’attività non violi norme di legge.
4. La struttura del Codice del processo amministrativo
Dopo tante novità introdotte dal legislatore e dalla giurisprudenza nel processo amministrativo in modo frammentario soprattutto nell’ultimo decennio, era indispensabile un riordino generale della disciplina. Ciò è accaduto nel 2010 con l’approvazione del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104) che introduce molte innovazioni e abroga tutte le disposizioni precedenti.
Una delle parti più organiche del Codice riguarda le azioni e i rimedi nel processo amministrativo che vengono riordinati allo scopo di rendere più completa la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
In primo luogo, il Codice disciplina l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo, senza novità particolari. L’art. 29 conferma che l’azione va proposta entro 60 giorni allo scopo di verificare se l’atto amministrativo impugnato sia viziato per «violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere». Se l’azione viene accolta il giudice «annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato» (art. 34, co. 1, lett. a). È stata invece soppressa la formula precedente, già segnalata, «salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa» e questa omissione è uno dei sintomi che il Codice non vieta più in modo assoluto al giudice di emanare sentenze di condanna al rilascio da parte dell’amministrazione di un determinato atto (azione di adempimento).
L’art. 30 del Codice disciplina principalmente l’azione di condanna al risarcimento del danno provocato da un atto amministrativo illegittimo che lede un interesse legittimo. Essa può essere proposta o in collegamento con l’azione di annullamento o in modo autonomo.
In primo luogo, l’azione deve essere proposta entro un termine di 120 giorni dal fatto o dalla conoscenza del provvedimento che ha provocato il danno. Molti commentatori hanno ritenuto che si tratti di un termine troppo breve. Infatti, nel diritto civile l’azione per danni può essere proposta usualmente entro termini molto più lunghi (quello generale è cinque anni).
In secondo luogo, il Codice contiene una disposizione molto controversa volta a penalizzare il ricorrente che scelga di proporre l’azione di risarcimento senza proporre insieme (o aver proposto prima) l’azione di annullamento. Infatti, nel momento in cui determina l’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere i danni «che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti». Quest’ultima espressione è già stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che si riferisce anche alla mancata richiesta dell’annullamento dell’atto illegittimo (Cons. St., A.P., 23.3.2011, n. 3).
In definitiva, il Codice sembra dare una preferenza all’azione di annullamento e considera l’azione di risarcimento del danno soltanto come un’azione complementare alla prima, cioè riguardante soltanto i danni ai quali, come si è visto, l’annullamento del provvedimento amministrativo non riesce a porre rimedio.
Il Codice accoglie così una soluzione molto vicina a quella preferita dal giudice amministrativo, in contrasto con il giudice ordinario. Da un lato, quest’ultimo aveva ritenuto in alcune pronunce del 2006 e del 2008 che il privato è libero di scegliere se proporre l’azione di risarcimento in modo autonomo o in connessione con l’azione di annullamento (Cass., S.U., ordd. 13.6.2006, n. 13659, n. 13660, n. 13911 e Cass., S.U., sent. 23.11.2008, n. 30254). Dall’altro, il giudice amministrativo aveva negato questa possibilità di scelta ammettendo che possa essere proposta l’azione di annullamento solo se è stata proposta l’azione di risarcimento (la cosiddetta pregiudizialità amministrativa) (Cons. St., A.P., 26.3.2003, n. 4 e Cons. St., A.P., 22.10.2007, n. 12). Questa seconda tesi è volta a limitare gli esborsi economici a carico dello Stato in conseguenza dell’incremento prevedibile delle azioni di risarcimento del danno. Essa è più conforme alla visione tradizionale dell’interesse legittimo che lo configura come strettamente legato e in qualche misura servente rispetto all’interesse pubblico tanto da giustificare l’onere in capo al ricorrente di impugnare l’atto illegittimo anche che nei casi in cui questa forma di tutela non soddisfa il suo interesse effettivo. Si pensi al caso di un’impresa che impugna l’esclusione da una procedura di gara ad evidenza pubblica, che sarebbe risultata vincitrice ove essa si fosse svolta in modo legittimo e che, per qualsivoglia ragione, non abbia più interesse a stipulare il contratto e preferisca ottenere soltanto il risarcimento del danno.
Il conflitto interpretativo tra giudice ordinario e giudice amministrativo esploso dopo la riforma del 2000 che, come si è visto, ha attribuito al giudice amministrativo il potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, è stato risolto in modo compromissorio. Infatti, come detto, l’art. 30, da un lato, consente l’azione risarcitoria autonoma (o pura), dall’altro prevede una restrizione (termine breve) e una penalizzazione (sotto il profilo dell’ammontare del risarcimento liquidato) entrambe di dubbia costituzionalità. Il Tar Sicilia (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, ord. 7.9.2011, n. 1628) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di costituzionalità del termine di 120 giorni.
Accanto all’azione di condanna al risarcimento del danno si è posta la questione se l’art. 30 ammette anche altri tipi di azione e in particolare l’azione di condanna all’emanazione di un atto amministrativo richiesto. Infatti, il progetto di codice elaborato dalla commissione tecnica istituita presso il Consiglio di Stato conteneva una disposizione sulla cosiddetta azione di adempimento. Essa riprendeva il modello tedesco della Verpflichtungsklage, ammessa, ormai da molti decenni, nei casi in cui alla conclusione del processo amministrativo risulta che l’amministrazione non ha alcuna discrezionalità nel negare l’atto richiesto. In questo caso, oltre all’annullamento dell’atto di diniego del provvedimento, la sentenza ordina all’amministrazione di emanare l’atto.
Il Governo nell’approvare in via definitiva il Codice ha espunto l’articolo sull’azione di adempimento. Tuttavia alcune disposizioni del Codice consentono di ritenere di ritenere che nel processo amministrativo è ammessa anche questa particolare azione di condanna. Infatti, in particolare, l’art. 34 che disciplina i tipi di sentenze che possono essere emanate a conclusione del processo attribuisce al giudice amministrativo anche il potere di adottare le «misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio». Il Codice non ha cioè accolto il principio della tipicità e dunque il giudice può emanare, su richiesta della parte, ogni tipo di sentenza, a seconda dello specifico bisogno di tutela. Ciò ha consentito alla giurisprudenza di ritenere ammessa anche l’azione di adempimento (Cons. St., A.P., n. 3/2011; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 8.6.2011, n. 1428).
L’art. 31 del Codice disciplina due altre azioni: quella che può essere proposta nel caso di inerzia (o silenzio), cioè di mancata risposta da parte dell’amministrazione di fronte alla richiesta di un provvedimento amministrativo presentata da un privato; l’azione di accertamento che ha lo scopo di accertare che un atto amministrativo è viziato in modo così grave da dover essere ritenuto nullo, cioè inidoneo a produrre un qualsiasi effetto giuridico.
Il primo tipo di azione il Codice va proposta entro il termine di un anno. Se nel frattempo l’amministrazione emana un atto che nega la richiesta, esso può essere impugnato con la normale azione di annullamento. Il giudice può condannare ordinare l’amministrazione di provvedere sulla richiesta del privato assegnando un termine. Nei casi in cui il giudice accerti che l’amministrazione non ha discrezionalità, e che dunque l’emanazione dell’atto richiesto è dovuta, può, come si è visto, condannare l’amministrazione a farlo.
Il secondo tipo di azione può essere proposta entro 180 giorni, ma il giudice può dichiarare la nullità dell’atto anche ex ufficio, cioè, per esempio, nel corso di un giudizio nel quale la parte privata ponga alla base della sua azione un atto amministrativo. Ciò potrebbe accadere, volendo fare un esempio estremo, se un concessionario di un servizio pubblico si rivolgesse al giudice amministrativo per ottenere un aggiornamento del canone che può richiedere ai privati utenti del servizio, l’amministrazione potrebbe eccepire la nullità della concessione. In realtà i casi di nullità dell’atto sono poco frequenti nella prassi concreta.
Il Codice disciplina anche due altri tipi di azione che completano quelle sin qui esaminate.
La prima è l’azione cautelare, che consente di richiedere al giudice provvedimenti interinali nei casi in cui vi è la necessità di evitare danni gravi e irreparabili che si potrebbero produrre in attesa della sentenza definitiva. Questo tipo di azione era già contemplata dalla legge del 1889 e fu rafforzata notevolmente in via giurisprudenziale e poi ad opera della l. n. 205/2000. Tuttavia il Codice la disciplina in modo più articolato in ben sette articoli (da 55 a 62) e la potenzia ulteriormente. Anzitutto le misure cautelari che possono essere richieste già nel ricorso principale o in qualsiasi momento successivo all’instaurazione del giudizio spaziano dalla sospensione degli effetti dell’atto impugnato (per esempio, di un ordine di demolizione di un edificio) al pagamento in via provvisoria di una somma di danaro. Il Codice attribuisce cioè ampia discrezionalità al giudice nell’individuare il rimedio più efficace per prevenire il danno.
Di regola la richiesta di tali misure viene rivolta al collegio che poi decide la causa nel merito e viene esaminata in tempi piuttosto brevi (poche settimane). Nei casi di estrema gravità e urgenza esse possono essere chieste al presidente del collegio o da un suo delegato che provvede immediatamente con una pronuncia provvisoria (decreto) che poi deve essere confermata (o non confermata) in occasione della prima riunione del collegio. Una novità del Codice è che le misure cautelari possono essere richieste, in casi eccezionali di urgenza, anche prima che sia proposto il ricorso principale (ricorso ante causam). Quest’ultimo deve essere notificato entro 15 giorni dalla concessione delle misure che altrimenti decadono automaticamente. Dopo la proposizione del ricorso le misure devono essere confermate dal collegio.
La seconda azione è quella che può essere proposta nei casi in cui l’amministrazione non esegua una sentenza del giudice amministrativo (ma anche del giudice civile). Si tratta di un’azione che può essere esperita nel cosiddetto «giudizio di ottemperanza» introdotto dalla legge del 1889 proprio per rimediare a una lacuna della legge del 1865 che poneva in capo all’amministrazione l’obbligo di conformarsi al giudicato del giudice ordinario senza prevedere alcuno strumento coattivo consentendo così di fatto alle amministrazioni di non trarre alcuna conseguenza dall’accertamento della illegittimità dei provvedimenti amministrativi. Nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito che gli consente di sostituirsi all’amministrazione rimasta inadempiente. Così in particolare, se in seguito alla sentenza l’amministrazione è tenuta a emanare un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno espropriato, il giudice può prescrivere all’amministrazione le modalità esecutive o addirittura provvedere direttamente o tramite un delegato (il cosiddetto «commissario ad acta»). L’azione può essere proposta entro dieci anni dal giorno in cui si forma il giudicato. Il giudice può anche condannare l’amministrazione al risarcimento dei danno derivanti dalla mancata esecuzione della sentenza e al pagamento di una ulteriore somma di danaro per ogni giorno ulteriore di ritardo da parte dell’amministrazione.
5. Cenni conclusivi
Il Codice rappresenta un evento storico nell’evoluzione della giustizia amministrativa, perché per la prima volta il processo amministrativo è disciplinato in un testo unitario che affianca i codici procedura civile e di procedura penale approvati da lunghissimo tempo.
Una particolarità del Codice è che si tratta volutamente di un testo «snello» (137 articoli) che disciplina gli aspetti specifici e rinvia per tutto il resto alle disposizioni del codice di procedura civile ritenute compatibili con la particolare natura delle controversie che investono il potere amministrativo.
In tema di azioni, il Codice prende atto dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha via via integrato il modello originario fondato sull’azione di annullamento. Quest’ultima resta ancor l’azione più importante, ma fanno contorno ad essa tutti tipi di azione necessari per rendere completa ed effettiva la tutela richiesta dal cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Anche la mancata inclusione nel Codice dell’azione di adempimento, che costituisce comunque un’occasione perduta, non ha impedito al giudice amministrativo, come si è visto, di ritenerla comunque inclusa nella più generale azione di condanna.
La novità principale riguarda l’azione di condanna al risarcimento del danno sulla quale, peraltro, come si è accennato, dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. In ogni caso questa azione rende necessario un cambiamento di mentalità da parte del giudice amministrativo, non abituato, com’è invece il giudice ordinario, a esaminare questioni come per esempio l’onere della prova, la colpa dell’amministrazione o la quantificazione del danno. È prevedibile che occorra ancora molto tempo prima che il giudice amministrativo riesca a darsi criteri più certi. Per ora la giurisprudenza sembra propendere per un atteggiamento forse troppo protettivo dell’amministrazione, motivato dall’esigenza di non aggravare troppo l’onere finanziario a carico dello Stato.
In conclusione, il Codice nel suo complesso e, in particolare, la disciplina delle azioni hanno dato nuova vitalità e dinamismo al processo amministrativo allineandolo agli standard di altri Paesi, come in particolare la Germania, che offrono al cittadino livelli elevati di tutela nei rapporti con l’amministrazione. Spetta ora al giudice amministrativo dare applicazione piena alle nuove norme in modo tale da trarre da migliorare sempre più la qualità della giustizia amministrativa.
Fonti normative
D.lgs. 2.7.2010, n. 104
Bibliografia essenziale
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