AZIONE (lat. actio; fr. action; sp. acción; ted. Klagerecht, Anspruch; ingl. action)
Diritto. - Nell'affrettato lavoro di codificazione che accompagnò il sorgere del regno d'Italia non venne affatto curata la precisione e la costanza della terminologia; così per azione s'intende talvolta, nelle nostre leggi, nient'altro che un diritto soggettivo (articoli 193, 1353, 1716, 1743, ecc., cod. civ.) e tal'altra la domanda giudiziale con cui il diritto vien fatto valere (articoli 1342, 1999, ecc., cod. civ.; articoli 70, 71, 90-103, 341, 880, ecc., cod. proc. civ.). Non manca tuttavia qualche raro esempio in cui la parola azione si può ritenere usata nel senso di diritto di rivolgersi al magistrato per ottenerne provvedimenti diretti a difendere un proprio diritto leso (articoli 2135, 2138-2140, 2146 cod. civ.). Com'è naturale la stessa indeterminatezza passò poi, e continua tuttora, sia nella giurisprudenza sia nel parlar comune; eppure vi sono pochi concetti fondamentali di diritto, che, come l'azione, siano stati sottoposti, durante gli ultimi decennî, dalla dottrina a uno studio così accurato, e che vi abbiano guadagnato una base altrettanto solida quanto completamente nuova.
Azione civile.
Nel diritto romano l'actio (da agere) non ricorre mai, almeno nell'epoca storica, disunita dall'idea di un'attività di parte davanti al magistrato. E poiché già nella più antica forma processuale, immediatamente successa al periodo della civiltà primitiva in cui le controversie si risolvevano con la ragion fattasi, l'attività di parte prevalse su quella del magistrato, da essa appunto venne preso il termine tecnico per indicarne i procedimenti, sia di cognizione sia esecutivi, e cioè le legis actiones enumerate da Gaio (IV, 12). Nella ulteriore fase di sviluppo del processo romano, che va sotto il nome di "periodo del procedimento formulare", e che ha come caratteristica un progressivo allargamento della sfera degli interessi tutelati dal diritto, il pretore, nell'editto col quale ogni anno proclamava le direttive cui si sarebbe inspirata la sua giurisdizione, prometteva di accordare l'azione a chi si trovasse in determinate situazioni di fatto, anche se di fronte alle stesse il vecchio diritto classico era rimasto insensibile: actionem dabo. Così accadde che azione diventò un po' alla volta sinonimo di diritto soggettivo, perché da un lato questo esisteva solo in quanto il pretore gli accordava protezione e dall'altro non v'era protezione per chi non vantasse un diritto. Ecco la ragione per cui si suol dire che secondo gl'insegnamenti del diritto romano l'azione è semplicemente un aspetto, un'espressione della vita del diritto soggettivo (Windscheid), una sua funzione (Coviello) o, meno propriamente, una sua fase, la quale subentra con la lesione del diritto (Savigny).
È questa la cosiddetta concezione privatistica dell'azione, affermata in tutti i vecchi manuali di diritto romano e di diritto comune, e ancor oggi difesa da qualche raro patrocinatore: non diritto indipendente ma semplice aspetto d'un altro diritto: e non rivolto allo stato per tutela, ma rivolto contro il debitore per averne, sotto la pressione di mezzi specialmente energici, la prestazione dovuta.
La nota definizione di Celso nihil aliud est actio quam ius quod sibi debeatur iudicio persequendi (Dig., XLIV, 7, de obligat. et act. V, 51) si limita per verità a proclamare l'impossibilità di imbattersi in un'azione scompagnata da un diritto soggettivo cui abbia riferimento; essa non esclude invece che all'azione si dia un contenuto autonomo e la si consideri come vero e proprio diritto, per quanto d'indole secondaria, cioè tendente all'attuazione di altro diritto. Tuttavia l'elaborazione dottrinale, continuando fin verso la metà del secolo scorso a tener in poco conto il grave fenomeno dell'intervento dell'autorità statale nelle controversie dei cittadini e pensando che nel processo l'attore si rivolga, sia pure con speciale solennità, al suo debitore e non al giudice, ha negato decisamente una propria individualità del diritto d'azione.
L'impulso alla revisione di queste concezioni è dovuto alla scienza germanica, e specialmente agli studî di due romanisti (Windscheid e Muther) seguiti da due insigni cultori del diritto processuale (Bülow e Wach); l'Italia, alquanto in ritardo, accettò in generale l'indirizzo nuovo (Chiovenda), portando largo contributo di osservazioni acute e di limpidezza latina in un campo nel quale il pericolo di costruzioni arbitrarie e slegate dalla vita (recentemente, con questi difetti, Sauer e Goldschmidt) è notevolissimo.
A convincere dell'insostenibilità delle vecchie teorie sull'azione contribuì l'esame di istituti processuali, che nelle leggi moderne trovarono più largo sviluppo e perciò meglio s'imposero all'attenzione degli studiosi. L'azione positiva di accertamento, p. es., potendosi proporre prima che il diritto sia scaduto, costituisce la prova migliore che può aversi azione senza previa lesione di diritto; e l'azione negativa d'accertamento sta a provare che si ha azione anche senza che vi sia diritto soggettivo da tutelare. Nello stesso tempo prendeva terrenp un altro ordine di constatazioni. Nello stato moderno il magistrato non interviene con la modesta missione che gli spettava nell'antico processo romano. Gli atti processuali più rilevanti (lȧ sentenza, la vendita esecutiva deġli oggetti del debitore, le disposizioni cautelari) emanano da lui; nel processo non si può dunque continuare a vedere le sole parti: v'è un terzo, che, invocato da una d'esse, le frena e le domina; un terzo che entra in rapporto con loro (rapporto processuale) e che, traendo la ragione del suo intervento dall'ordinamento della giurisdizione nello stato, dà al rapporto processuale e al processo in genere il carattere di un istituto di diritto pubblico.
L'azione, che riconoscemmo diritto autonomo, cioè indipendente dal diritto soggettivo, trova con ciò il suo contenuto: essa è il diritto verso lo stato, perché svolga un'attività mirante all'attuazione della legge e spetta a chi provi di avere un determinato interesse a tale attuazione di legge; è diritto pubblico, perché rivolto allo stato, perché provoca l'attività di un organo pubblico, perché tende all'attuazione del diritto obiettivo, sia pure - solitamente - attraverso alla tutela di un diritto soggettivo.
Se nell'affermare l'autonomia del diritto d'azione dal diritto soggettivo, e così pure quella del diritto processuale dalle norme del diritto privato, fu raggiunto l'accordo quasi unanime degli studiosi, le teorie più diverse si contendono il campo circa la formulazione costruttiva dell'azione. Secondo alcuni il cittadino vanta una pretesa contro lo stato per la tutela del proprio diritto leso o pericolante (Rechtsschutzanspruch di Wach, Schmidt, Hellwig, Skedl), secondo altri vi sarebbe un diritto astratto d'azione spettante a chiunque in buona fede asserisce in giudizio di averlo (Degenkolb, Plosz, Mortara), secondo altri un diritto potestativo con cui si pone in essere la condizione per l'attuazione della volontà della legge (Chiovenda, Weismann), secondo altri infine la parte svolge con l'azione un privato esercizio di Iunzione pubblica, mirante alla composizione delle liti (Carnelutti).
In rapporto alla concezione pubblicistica del diritto di azione stanno le categorie che di esso suole stabilire la scienza moderna, a seconda della diversa attività chiesta al giudice del processo; la quale attivid può essere, come è noto, di cognizione, di esecuzione o cautelare. Nello stadio di cognizione, poi, l'azione può di nuovo assumere aspetti diversi a seconda che essa tenda a una condanna del convenuto (azione di prestazione), oppure all'accertamento dell'esistenza o della inesistenza di un rapporto giuridico o di un diritto (azione positiva o negativa d'accertamemo), oppure alla formazione o all'estinzione di un rapporto giuridico (p. es. alla separazione dei coniugi, allo scioglimento di una comunione; azione costitutiva).
Teoricamente meno rilevante è la divisione delle azioni basata su criterî in prevalenza formalistici, cioè attinenti allo svolgimento esteriore delle attività dei soggetti processuali; ad esempio, si sente parlare di azione formale o sommaria e (nelle terre redente) di azione incidentale, bagatellare, monitoria, di mandato, ecc.; così pure, nello stadio esecutivo, di azione esecutiva mobiliare o immobiliare. Anche questa distinzione si regge dunque su basi d'ordine processuale.
Invece si ricollega a superate concezioni romanistiche, pur mantenendosi tuttora nell'uso comune per evidenti ragioni di pratica utilità, una designazione delle azioni, naturalmente non esauriente, fatta con riguardo al diritto privato cui possono riferirsi; alludiamo alla rivendicatoria e alla pubbliciana (che tutelano il diritto di proprietà), alla negatoria (con cui il proprietario vuole far riconoscere l'inesistenża del diritto di servitù sulla sua cosa, vantato da un terzo), alla confessoria (che tutela il diritto di servitù), all'ipotecaria, all'ereditaria, alla quanti minoris (per la restituzione di parte del prezzo in seguito a vizî riscontrati nella cosa comperata), alla de in rem verso (art. 1307 cod. civ.), alla pauliana (per annullamento di atti d'alienazione compiuti dal debitore in danno dei suoi creditori), all'aquiliana (per danni recati con colpa extracontrattuale), all'actio de pauperie (per il danno causato da un animale; art. 1154 cod. civ.), all'actio finium regundorum (per una nuova determinazione della linea di confine diventata incerta), all'actio communi dividundo (per ottenere lo scioglimento della comunione) e alle diverse azioni che traggono il nome da un contratto (actio emti, depositi, conducti, commodati, mandati, ecc.). Nelle provincie annesse si parlava anche, per effetto della legislazione ex austriaca che vi rimase in vigore sino al 1 luglio 1929, di azione di paternità (promossa dal figlio illegittimo, non dalla di lui madre, contro il padre naturale; § 163 cod. civ.), di sindacato (per danno recato da un funzionario giudiziario nell'esercizio delle sue funzioni, del quale rispondono solidalmente il funzionario e lo stato; legge 12 luglio 1872, n. 112), di azioni tavolari (promosse in base alla legge 25 luglio 1871, n. 95, relativa ai pubblici libri dei diritti reali).
Bibl.: In ordine cronologico, e senza distinzione di tendenze: F. Savigny, System des heutigen röm. Rechtes, Berlino 1841, V, § 204 segg.; B. Windscheid, Die actio des röm. Zivilrechts vom Standpunkte des heutigen Rechts, Düsseldorf 1856; Th. Muther, Zur Lehre von der röm. actio, ecc., Erlangen 1857; O. Bülow, Die Lehre von den Prozesseinreden, ecc., Giessingen 1868; A. Bekker, Die Aktionen des röm. Privatrechts, Berlino 1871-1873; H. Degenkolb, Einlassungszwang und Urteilsnorm, Lipsia 1877; A. Wach, Der Feststellungsanspruch, Lipsia 1889; K. Hellwig, Anspruch und Klagerecht, Jena 1900; G. Chiovenda, L'azione nel sistema dei diritti, in Saggi di dir. proc. civ., Bologna 1904, pp. 1-130; id., Nuovo contributo alla dottrina dell'azione, in Nuovi saggi di dir. proc. civ., Napoli 1912, pp. 17-38; W. Sauer, Grundlagen des Prozessrechts, Stoccarda 1919, pp. 524-570; J. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtsklage, Berlino 1925; F. Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi di dir. proc. in onore di G. Chiovenda, Padova 1927, pp. 231-238, 273-279, 283 segg.; H. Sperl, Il processo civile nel sistema del diritto, ibidem, pp. 807-833. Si consultino anche, oltre gli articoli sull'"azione" nel Digesto Italiano (di Brugi) e nel Dizionario del diritto privato diretto da Scialoia (di Chiovenda; con indirizzo abbandonato nei posteriori scritti dello stesso autore), i più autorevoli manuali di diritto processuale italiano (Mortara, Chiovenda, Carnelutti), germanico (Wach, Schmidt, Hellwig) e austriaco (Pollak).
Azione possessoria: v. possesso.
Azione penale.
L'azione penale (fr. action pénale; sp. acción penal; ted. Strafverfahren; ingl. public prosecution) ha il fine di provocare l'attuazione della legge penale riguardo all'autore di un reato (art. 1 cod. proc. pen. del 1913). Al pari delle altre azioni, essa viene modernamente concepita come un diritto autonomo, con contenuto proprio, indipendente dal diritto che tutela, ma con reciproca coordinazione. Siffatta indipendenza appare più evidente per l'azione penale, poiché l'esercizio di essa non appartiene a chi ha subito il danno diretto del reato. L'azione penale si riallaccia e si fa coincidere con il diritto soggettivo statuale punitivo, la cui affermazione in Italia è stata fatta sulle orme della dottrina tedesca. È stato sollevato il dubbio se l'azione penale sia unica e indifferenziata per tutti i reati, o se sia plurima, in maniera che esistano tante distinte azioni quante sono le figure delittuose. L'opinione della pluralità è sostenuta per analogia con le azioni civili e per la ragione che, nei singoli reati, l'azione è alle volte subordinata alla querela di parte o alla risoluzione di questioni pregiudiziali, ed è soggetta a diversi termini di prescrizione. Ma non sembra che le diverse modalità bastino a differenziare l'azione penale, che dalla legge è concepita come unica nella sua struttura. L'azione penale è pubblica, e il suo esercizio spetta a un organo statuale (pubblico ministero). Nell'ordinamento processuale penale italiano non esistono azioni private. La dottrina di qualche scrittore che afferma il contrario basandosi sull'istituto della querela di parte, che è solamente una condizione cui è subordinato l'esercizio pubblico dell'azione penale, non corrisponde al diritto positivo. L'azione penale spetta sempre al pubblico ministero, e non è ammessa presso di noi l'azione penale popolare, né suppletiva né correttiva (per eccezione, l'ammettono la legge elettorale politica testo unico del 1919, art. 120, e la legge com. e prov. testo unico del 1911, art. 113, per i reati elettorali). La dottrina, peraltro, propenderebbe ad ammetterla; e anzi è stata rilevata la contraddizione cui andrebbe incontro il cod. proc. pen. del 1913 che favorisce la costituzione di parte civile, richiesta anche per conseguire la "riparazione pecuniaria", rispondente a scopi di privata vendetta, ed esclude l'azione popolare che ha un contenuto più elevato e la cui esistenza contribuirebbe a educare il senso civico. Non costituisce eccezione alla regola che l'esercizio dell'azione penale spetti al pubblico ministero, la norma secondo cui, nei delitti di diffamazione e d'ingiuria, la persona offesa può presentare istanza, equivalente a querela, al giudice, perché citi in giudizio l'imputato. Si tratta, infatti, pur sempre di una querela qualificata per l'efficacia, che non restringe o limita i poteri del pubblico ministero. L'azione penale si promuove d'ufficio, non è discrezionale, e per questo bene si dice che essa si risolve in un potere-dovere. Una volta promossa, il pubblico ministero non può rinunziarvi. Anzi, se egli si convinca che il reato non esiste o non è provato, deve provocare sentenza di assoluzione da parte del giudice; parimenti se, presentata denunzia di un reato, il pubblico ministero la ritenga infondata, deve chiedere al giudice istruttore di pronunziare decreto. Il principio, per altro, ammette eccezioni. Anche a prescindere da condizioni e ostacoli (querele, istanze, pregiudiziali, autorizzazioni) che impediscono il promuovimento d'ufficio, vi sono secondo autorevoli opinioni casi di promuovimento dell'azione sottoposti a valutazioni discrezionali. La legge stabilisce taluni casi di valutazioni discrezionali, o da parte della pubblica amministrazione o da parte dello stesso pubblico ministero, anche in omaggio al principio che questo è il rappresentante del governo presso la magistratura; onde la sua azione è subordinata alle direttive del governo, al fine di ottenere unità e coordinamento nel complesso dell'azione statale.
Da qualche autore si è fatta differenza fra "esercizio" e "promuovimento" dell'azione penale. Tale diversa terminologia sarebbe in relazione con i tipi caratteristici del procedimento, giacché il pubblico ministero "promuoverebbe" l'azione mediante richiesta di istruzione formale, e la "eserciterebbe" mediante la richiesta di citazione (istruzione sommaria). Sembra, invece, più esatto ritenere che il promuovere è, rispetto all'esercizio, un momento antecedente, che può essere compiuto anche da privati (poiché l'art. 1 cod. proc. pen. dice che è pubblico l'esercizio, e non già il promuovimento dell'azione penale).
L'azione penale non sempre è libera nel suo esercizio. Vi sono determinate questioni che possono ostacolarla e che devono essere pregiudizialmente risolte. Inoltre, in certi casi, l'esercizio dell'azione penale è subordinato al concorso di particolari dichiarazioni di volontà, di organi statuali o di privati. La "pregiudizialità" importa la sospensione dell'esercizio dell'azione penale, in attesa che un altro giudice (civile) risolva una questione, ritenuta più specialmente di sua competenza. La sospensione dell'azione penale è assoluta e obbligatoria quando si tratti di questioni pregiudiziali riferentisi allo stato di filiazione, è relativa e facoltativa quando si tratti di "controversie civili" (fra esse sono comprese le questioni di diritto amministrativo) di altra specie, dalla cui risoluzione dipenda la decisione sulla esistenza del reato (art. 3 cod. pen.). Diversa importanza hanno le pregiudiziali assolute rispetto a quelle facoltative, le quali sospendono, non già l'esercizio dell'azione penale, ma solamente il giudizio. Analoghi alle questioni pregiudiziali facoltative sono gli "incidenti di falso", che eventualmente il pubblico ministero o le parti sollevino relativamente a un atto o documento del processo e che autorizzano il giudice a sospendere la istruzione o il giudizio (art. 147).
Le condizioni, al verificarsi delle quali, per certi reati, è subordinato l'esercizio dell'azione penale sono: la querela, la ríchiesta, l'autorizzazione.
a) La querela di parte è un diritto soggettivo civico, e consiste in una istanza di procedimento fatta da persona che si pretenda lesa da un reato, per il quale non si deve procedere d'ufficio. Politicamente, la querela si fonda sull'insufficienza di un interesse pubblico (tenuità di certi reati), o sulla collisione del pubblico col privato interesse (desiderio di tranquillità), o su ambedue le considerazioni collegate insieme (ragioni di convenienza). Psicologicamente, la querela si basa sull'opportunità di dare rilevanza, in taluni casi, alla volontà del privato, diretta alla soddisfazione dell'offesa patita. Giuridicamente, si fonda sulla disponibilità di taluni diritti soggettivi individuali. Un dubbio fondamentale investe tale istituto, e cioè se esso abbia carattere sostanziale o solamente processuale. La complessità della querela rivela la sua duplice natura per la quale essa, sebbene attenga essenzialmente all'esercizio dell'azione penale, determina anche la punizione del fatto, il quale, diversamente, rimarrebbe penalmente irrilevante. Il contenuto sostanziale della querela si chiarisce considerando la situazione giuridica che si determina in caso di perdono, di riconciliazione o di mera inattività della parte lesa. La querela, una volta proposta, è revocabile (remissione); inoltre, costituisce un diritto personale, non trasmissibile se non per eccezione nei casi di diffamazione o ingiurie, quando la persona offesa muoia prima di aver dato querela o quando i delitti siano commessi contro la memoria di un defunto. In tal caso, hanno facoltà di dar querela, invece del defunto, il coniuge, gli ascendenti, i discendenti, i fratelli e sorelle e loro figli, gli affini in linea retta, gli eredi immediati. Se non che, se normalmente intrasmissibile è la facoltà di dar querela, si trasmette il diritto alla situazione giuridica determinata dall'esercizio di tale facoltà.
b) La richiesta è un'istanza di procedimento che non muove dalla parte immediatamente lesa dal reato, ma da determinati organi pubblici, che non sono la parte lesa né agiscono nell'interesse di questa. Il querelante agisce per sé o per persona di cui abbia la rappresentanza; il richiedente agisce per conto di altri. La facoltà di richiesta spetta, nei casi speciali in cui la legge subordina a essa l'esercizio dell'azione penale (es.: le ipotesi degli articoli 3, 4, 5, 6, 128, 129 cod. pen.), a un'autorità italiana (ministro della giustizia) o a un'autorità straniera (governo straniero o rappresentante dello stato estero accreditato presso il governo italiano). Comunemente si dice che la richiesta sostituisce la querela o che equivale a querela: ma tale equazione regge solamente orientando tutto il sistema sulla base della querela, mentre la richiesta è istituto autonomo, fondato su particolari considerazioni di carattere prevalentemente pubblicistico.
c) L'autorizzazione non è atto di chiedere, ma di permettere o non permettere, per ragioni di opportunità o di convenienza, che il pubblico ministero eserciti l'azione penale. Non si tratta quindi di domanda, ma di consentimento a che si proceda. L'organo che autorizza ha così una precedenza di esame su quel diritto all'esercizio dell'azione penale che spetta all'organo di accusa. L'autorizzazione inserisce nel processo penale la valutazione dell'elemento politico di opportunità, subordinando l'azione penale a un criterio di discrezione governativa. Quindi, essa è esplicazione dell'ingerenza della funzione di governo nel campo penale. Data la sua natura, l'autorizzazione, a differenza dalla querela e dalla richiesta, è provocata dal pubblico ministero. I casi di autorizzazione preveduti nel cod. pen. sono: per le offese al re, alla regina ecc., al senato e alla camera dei deputati (articoli 122, 123, 124, 127) l'autorizzazione del ministro della giustizia; per le offese ai corpi giudiziarî, politici o amministrativi (articoli 197, 400 cod. pen.) l'autorizzazione dei corpi medesimi o dei loro capi quando i corpi non siano costituiti in collegio. L'art. 56 dell'editto sulla stampa offre, a un tempo, casi di richiesta e di autorizzazione. Per l'art. 45 dello statuto del regno, l'autorizzazione della camera è richiesta per arrestare, fuori del caso di flagrante reato, nel tempo della sessione, un deputato, e per tradurlo in giudizio per materie criminali. Inoltre, per l'art. 8 della legge comunale e provinciale, il prefetto, il sottoprefetto e coloro che ne fanno le veci non possono essere sottoposti a procedimento per alcun atto inerente all'esercizio delle loro funzioni, senza autorizzazione del re (cosiddetta garanzia amministrativa).
La vitalità dell'azione penale è subordinata alla mancanza di taluni fatti (legislativi, giuridici, naturali), i quali, se intervengano, la troncano e annullano nel suo essere. Sono i casi di "estinzione dell'azione penale", che trovano la loro disciplina, non nel codice di procedura penale, ma nel codice penale. Tale collocazione dipende da ciò che quei fatti (ad es., amnistia, morte del reo, ecc.), oltreché sull'azione e sul processo, influiscono anche sul rapporto giuridico punitivo e sull'attuazione della pena. Perciò, il progetto Rocco usa una terminologia differente da quella del codice Zanardelli, dicendo che l'amnistia, la morte del reo, ecc., estinguono non già l'azione penale, ma addirittura il reato (art. 150 segg. del progetto Rocco di codice penale). Le cause estintive dell'azione penale e del reato sono: a) La morte del reo, che estingue la stessa soggettività giuridica e fa cessare anche l'esecuzione delle pene pecuniarie, salvi i provvedimenti di confisca, i quali non hanno carattere di pena ma sono misure di sicurezza patrimoniale (art. 85 cod. pen.). b) L'amnistia, la quale, insieme con l'indulto e la grazia, è prerogativa della corona (art. 8 dello statuto del regno), mentre in altri paesi spetta al potere legislativo. L'amnistia si differenzia dall'indulto e dalla grazia, perché questi non estinguono l'azione penale, ma fanno cessare solamente l'esecuzione della pena (art. 87 cod. pen.). Da alcuni autori all'amnistia si attribuisce il carattere di legge abolitrice di una o più norme penali; ma sembra più coerente all'istituto raffigurarlo come oblio del reato, per ragioni di carattere generale. Il progetto Rocco (art. 151, ult. capov.), per reagire contro l'applicazione dell'amnistia a pericolosi delinquenti, dispone che di essa non beneficino, salvo espressa norma del decreto concessivo, i delinquenti recidivi, gli abituali e professionali e quelli per tendenza istintiva. c) La remissione della parte lesa, nei casi in cui è necessaria la querela (art. 88 cod. pen.), produce pur essa l'estinzione dell'azione penale. La remissione è una dichiarazione di volontà formale della parte lesa, che sia accettata dall'imputato, e che intervenga prima della condanna (salvo speciali eccezioni). La vólontà di rimettere la querela può essere anche manifestata con "fatti di riconciliazione", che siano incompatibili con la volontà di querelarsi (art. 160 cod. proc. pen.). Secondo l'art. 152 del progetto Rocco di cod. pen. la remissione estragiudiziale, oltreché risultante da fatti di riconciliazione, può essere espressa, ciò che non sarebbe consentito secondo il cod. proc. pen. del 1913. d) La prescrizione dell'azione penale si effettua per il decorso di un certo tempo, proporzionato alla gravità e natura del reato, a partire dalla consumazione del reato medesimo o dalla cessazione della sua continuazione o permanenza (articoli 91 e 92 cod. pen.). A differenza dalla morte dell'imputato e dall'amnistia, le quali operano anche sulla condanna, il decorso di un certo tempo opera solamente sull'azione penale: per l'estinzione della condanna occorre un termine prescrizionale per sé stante e più lungo. e) L'oblazione volontaria è un modo di estinzione dell'azione penale, efficace solo per le contravvenzioni punibili con pena pecuniaria non superiore a lire trecento, e consiste nel pagamento, prima dell'apertura del dibattimento, di una somma corrispondente al massimo della pena, oltre le spese. Essa è un volontario assoggettamento alla pretesa punitiva dello stato, prima ancora di ogni dichiarazione giudiziale. Il suo punto debole sta nell'obbligo, imposto al reo, di pagare il massimo stabilito dalla legge per la contravvenzione. A tale inconveniente ripara la: f) conciliazione amministrativa, istituto disciplinato da leggi speciali, che si applica anche a contravvenzioni che importino pena pecuniaria superiore a lire trecento, e può effettuarsi a dibattimento aperto, con il pagamento della somma che la pubblica amministrazione determini in relazione al caso.
Bibl.: V. Manzini, Trattato di dir. process. penale, Torino 1925, I, p. 176; S. Longhi, Dell'istruzione, in Commento al Cod. proc. pen., Torino 1921, V, p. 163; V. Lanza, Sistema di dir. process. pen., Roma 1922, I, p. 53; B. Alimena, Procedura penale, Napoli 1914, p. 289; E. Massari, La norma penale, S. Maria C. V. 1913, p. 211; id., Politica e giustizia penale, S. Maria C. V. 1921; Battaglini, Il diritto di querela, Torino 1915; G. Sabatini, Principii di scienza del dir pen., Catanzaro 1924, parte terza, p. 389; C. Civoli, Manuale di proc. pen., Torino 1921, p. 18.
Azione popolare.
L'azione popolare (fr. action populaire; sp. acción popular; ted. Popularklage; ingl. popular action) è l'istituto di diritto pubblico, il quale consente che alla tutela giudiziaria d'interessi generali spettante, in via normale, agli organi competenti degli enti pubblici che quegl'interessi rappresentano, provveda spontaneamente, in via eccezionale, l'attività dei cittadini appartenenti agli enti stessi. La denominazione trae motivo dal fatto che quisque de populo può metterla in movimento. Mediante tale istituto si attua una forma volontaria di partecipazione alla vita pubblica da parte del cittadino. Questa partecipazione importa una deroga al principio, secondo cui l'esercizio dei diritti spetta al soggetto che ne è titolare o a chi lo rappresenta. Il cittadino che promuove l'azione popolare non difende diritti sostanziali suoi, ma diritti di un ente pubblico, e, d'altra parte, ciò facendo, egli non assume la figura di rappresentante dell'ente, di cui cerca di tutelare gl'interessi. Egli è piuttosto un sostituto processuale, il quale inizia e svolge un giudizio in nome proprio per difendere un diritto altrui. Di qui l'influenza del giudicato ottenuto dall'attore popolare, quale titolare del rapporto processuale, sul diritto sostanziale. L'istituto, nonostante la completezza di organizzazione moderna degli enti pubblici, trova anche oggi applicazione in molti stati, e ciò per un criterio d'opportunità, considerandosi che, specie per talune materie, possa servire utilmente a rimediare a inevitabili manchevolezze di ordinamenti e a omissioni più o meno colpose di organi. Tale applicazione è ampia nel diritto inglese, in virtù di molte leggi speciali, particolarmente in materia contravvenzionale, per cui è sanzionato l'obbligo dell'accusa, tanto per i magistrati quanto per i cittadini, e sono accordati determinati premî all'accusatore popolare. In Francia e nel Belgio l'azione popolare è ammessa in materia elettorale e a tutela dei comuni; in taluni stati americani è consentita nel campo della responsabilità dei pubblici funzionarî e dei magistrati; ma la materia in cui più generalizzata se ne riscontra l'applicazione è la materia elettorale. Nella legislazione italiana, tre sono i campi in cui l'azione popolare trova applicazione: in materia elettorale; per l'esperimento di diritti del comune; per la tutela di diritti delle istituzioni pubbliche d'assistenza e beneficenza.
Origini. - Le origini dell'azione popolare risalgono al diritto romano. Nel Digesto il giureconsulto Paolo la definisce come "quell'azione che garantisce il diritto proprio del popolo", ma sulla sua natura e sul suo carattere molte controversie sono sorte fra i romanisti; controversie che però hanno nel diritto italiano un interesse limitato, giacché, se la dottrina romana sulle azioni popolari ha esercitato larga influenza sul diritto inglese, poca ne ha esercitata nel nostro, dove le più importanti azioni popolari si riconnettono, non tanto all'istituto dell'azione popolare quale ci viene dal diritto romano, quanto a quello che venne configurato nell'art. 150 della legge comunale belga 30 marzo 1836, e nell'art. 49 della legge comunale francese 18 luglio 1837, riprodotto nell'art. 123 della legge 5 aprile 1884, e poi modificato dalla legge 8 gennaio 1905.
Specie. - Nel nostro diritto positivo si conoscono diverse specie di azioni. A seconda del carattere che rivestono, si hanno azioni popolari penali e azioni civili. Avuto riguardo allo scopo, si distinguono azioni suppletive, sussidiarie e correttive: le prime, dette anche procuratorie, intendendosi far riferimento a una nozione sostanziale e non formale di procura, sono quelle in cui l'attore popolare si sostituisce ai rappresentanti legali dell'ente nell'esperimento dei diritti a questo spettanti; le seconde, quelle in cui l'attore popolare procede insieme con gli organi dell'ente per coadiuvarne l'azione; le correttive, quelle dirette contro l'operato dei rappresentanti dell'ente.
Azioni popolari elettorali. - Dopo l'istituzione dei podestà in tutti i comuni e la riforma delle camere di commercio, sostituite dai consigli provinciali dell'economia, il campo d'applicazione delle azioni popolari elettorali è ristretto alle elezioni politiche. Stando al testo unico della legge elettorale politica 2 settembre 1928 n. 1993, oggi in vigore, si hanno due specie di azioni popolari: azioni penali, per i cosiddetti reati elettorali (art. 107 segg.), esperibili da ogni elettore (art. 117); azioni civili per l'irregolare formazione delle liste, lo svolgimento delle operazioni elettorali e le questioni di eleggibilità, esperibili da ogni cittadino (articoli 26, 36, 86). Entrambe hanno scopo correttivo.
Azione popolare a tutela d'interessi comunali. - È prevista nell'art. 225 del testo unico della legge comunale e provinciale 4 febbraio 1915, n. 148, e si tratta di azione procuratoria o suppletiva. Spetta a qualsiasi contribuente, il quale può esperimentarla per far valere contro i terzi i diritti del comune o di una frazione, supplendo ad omissioni degli organi dell'ente. L'azione può esercitarsi dinnanzi a qualsiasi giurisdizione ordinaria o speciale, a condizione che intervenga l'autorizzazione preventiva deila giunta provinciale amministrativa, la quale, prima di accordarla, è tenuta a sentire la rappresentanza legale del comune. Nel caso che l'autorizzazione sia concessa, il magistrato ordinerà l'intervento in causa dell'ente. Tale intervento non esonera l'attore popolare dal sopportare le conseguenze tutte dell'azione da lui intentata.
Azione popolare in materia d'istituzioni di beneficenza. - È configurata negli articoli 82-83 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, i quali riconoscono a ogni cittadino che appartenga, ai fini del domicilio di soccorso, alla provincia, al comune o alla frazione cui la beneficenza si estende, di promuovere azione, tanto per la difesa di diritti attuali di un'istituzione, quanto per la tutela di diritti che essa avrebbe facoltà di far valere nell'interesse dei poveri. Tale azione può essere esercitata dall'attore popolare, sia in luogo e vece dei rappresentanti l'istituzione, sia insieme con essi, sia contro gli stessi amministratori, il che vuol dire che sono previste tutte e tre le specie di azioni: suppletiva, sussidiaria e correttiva. Se non che, mentre le due prime non hanno limiti circa l'obietto, l'azione correttiva deve esercitarsi limitatamente ai tre oggetti previsti nell'art. 82 della legge. L'azione dev'essere sempre sperimentata in contraddittorio del prefetto e della legittima rappresentanza dell'ente, ed è sottoposta alle condizioni previste nell'art. 83.
Bibl.: Oltre le trattazioni generali di diritto amministrativo e quelle sull'amministrazione comunale e sulle istituzioni pubbliche di beneficenza, v.: O. Luchini, L'Azione pop. in materia di pubblica beneficenza, in Annuario Scienze giuridiche, sociali e politiche, 1882, pp. 366-406; C. G. Bruns, Le azioni pop. romane, trad. e note di V. Scialoja, in Arch. Giur., XXVIII (1882), p. 166 segg.; M. Campagna, Delle azioni pop. nel diritto amm. ital. in Filangieri, 1885, p. 223 segg.; A. Codacci Pisanelli, Le azioni pop., Napoli 1887; id., L'azione pop. penale, relazione al congresso giuridico nazionale, Firenze 1891; A. Costa, Sulle azioni pop. romane: a proposito di recenti studî, Roma 1891; C. L. Garbasso, Delle azioni pop. nel diritto antico e moderno, Casale 1892; R. Porrini, Appunti critici sull'azione pop., in Giurisprudenza it., IV (1893), p. 293; C. Fadda, L'azione pop., Torino 1894; id., Le qualità morali dell'attore pop., in Filangieri, 1899; C. Fadda e Bensa, in note alle Pandette del Windscheid, I, i, p. 663 segg.; Sulla legittimazione attiva nei gravami relativi alle azioni pop., in Atti R. Accad. Scienze mor. e pol. di Napoli, XXXV (1905); F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano 1901 segg., p. 259 segg.; A. Barsotti, Osservazioni critiche in tema di azione pop. suppletiva, in Foro Ital., I (1907), p. 1401; U. Borsi, Le funzioni del comune, in Trattato di dir. amministrativo a cura di V. E. Orlando, Milano 1897 segg., II, ii, p. 398 segg.; G. Manca, Sulla natura giuridica dell'azione pop., in Studî della Fac. di Giur. R. Università di Cagliari, III (1911), p. 167 segg.; G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli 1912; G. Zanobini, L'esercito privato delle funzioni e dei servizi pubblici, in Trattato di dir. amm. a cura di V. E. Orlando, Milano 1897 segg., II, iii, p. 261 segg.