ROSSI, Azaria ben Mosè
de'. – Nacque a Mantova nel 1511 (o fra il 1511 e il 1514).
Visse a Ferrara da quando si sposò e, successivamente anche ad Ancona, Sabbioneta e Bologna, prima di stabilirsi in maniera definitiva a Ferrara dopo il 1569, anno dell’espulsione degli ebrei dallo Stato della Chiesa, dove egli scrisse la maggioranza delle sue opere, fra cui quella principale, il Me’or ‘enayim (Luce degli occhi), apparsa fra il 1573 e il 1575, ormai in tarda età.
Durante la giovinezza studiò letteratura ebraica, latina e italiana, medicina, archeologia greca e romana e la storia, compresa quella del cristianesimo. Non godette di una buona salute e fu curato dal noto medico Amatus Lusitanus. «Bruttissimo di corpo et… di bellissimo e singolarissimo ingegno» lo definì l’inquisitore di Ferrara Eliseo Capo (o Capys) in una lettera di raccomandazione al cardinale di S. Severina Giulio Antonio Santori nel luglio 1577, per «Buonaiuto dei Rossi hebreo», su richiesta dello stesso de' Rossi che si trovava in una situazione economicamente difficile.
Nel 1570 Ferrara fu colpita da un terribile terremoto che continuò con delle scosse di assestamento per una decina di giorni, causando la morte di circa 200 persone. De’ Rossi, la cui casa in parte crollò, rimase illeso con la moglie. Durante la confusione seguita al terremoto egli, sfollato in un villaggio periferico in campagna, restò fortemente impressionato dal tragico evento, che intese come un intervento diretto di Dio. Sentì il bisogno di scriverne un resoconto nel primo capitolo del Me’or ‘enayim intitolato Qol Elohim (La voce di Dio), espressione con cui nei Salmi si indica il tuono. Descrisse il terremoto e ne illustrò il significato secondo le fonti classiche e cristiane medievali, confrontandole con le fonti ebraiche dalla Bibbia al Talmud e medievali. Narrò l’agitazione dei ferraresi dopo le prime scosse e la fuga dalla città in cerca di un riparo sicuro in tende, capanne e baracche di legno, nella periferia e in campagna, perfino affittando barche attraccate nel Po per abitarci. Cristiani ed ebrei pregavano e digiunavano supplicando il favore di Dio. Nonostante ciò, de’ Rossi ci informa che il lume perenne che ardeva davanti all’Aron ha-qodesh contenente il Sefer Torah, non venne mai meno in nessuna delle dieci sinagoghe di Ferrara. Nessun ebreo morì e in questo egli vide un segno della protezione di Dio per il suo popolo. La versione italiana integrale del resoconto è stata pubblicata da Giulio Busi (Il terremoto di Ferrara nel Me’or ‘enayim, in We-zo’t le-Angelo. Raccolta di studi giudaici in memoria di Angelo Vivian, Bologna 1993, pp. 53-92).
La persecuzione a cui fu soggetto da parte di diversi correligionari, specialmente nella questione del calendario e della sua confutazione della cronologia rabbinica, contribuì a causare a de' Rossi una situazione di indigenza. L’elogio che da molti gli fu attribuito nel mondo cristiano è inversamente proporzionale all’ostilità e alla condanna rivolta contro la sua opera, proibita e soggetta a ḥerem (scomunica) dagli ambienti dell’ortodossia rabbinica.
Nel 1574, mentre ancora erano in stampa alcune parti del Me’or ‘enayim, i rabbini di Venezia capeggiati da Samuel Judah Katzenellenbogen, proclamarono un ḥerem contro il possesso e la lettura del libro, seguiti da altri bandi a Roma, Ferrara, Padova, Verona, Ancona e anche a Mantova, dove l'opera di de' Rossi fu proibita ai minori di 25 anni. L’autore, nella stampa della seconda parte della sua opera, fu costretto a modificare alcune pagine e a pubblicare delle osservazioni e domande del rabbino mantovano e suo collega Mosè Provenzali, aggiungendo le sue risposte. Lo stesso avvenne nel centro di Safed, in Palestina, dove fu preparato un ḥerem con la firma di Yosef Caro, il codificatore del diritto ebraico autore dello Šulḥan ‘Aruk ("La tavola apparecchiata") che tuttavia morì e la condanna fu resa operativa da Yudah Loew ben Bezalel di Praga.
Nel 1578 de’ Rossi scrisse una replica alle accuse rivoltegli, pubblicata nel 1845 col titolo Maṣ̣ref la-kesef (La purificazione dell’argento). Nonostante ciò, il bando sulla sua opera rimase per più di un secolo, fino all’illuminismo ebraico della Haśkalah ("illuminismo") settecentesca, quando i maśkilim ("illuministi") apprezzarono le sue indagini e ripubblicarono la sua opera a Berlino nel 1794, per la seconda volta dopo l’edizione di Mantova.
Nella sezione Yeme ‘olam (I giorni del mondo) del Me’or ‘enayim, de’ Rossi critica come infondata la cronologia rabbinica, anche se si affretta a chiarire che aggiungere o togliere anni al calendario lunare ebraico tradizionale, non ha nessun effetto sulle festività ebraiche, né tantomeno mina la fede. De’ Rossi dimostra che lo Yosippon ("Libro di Giuseppe"), considerato dai medievali come una fonte storica attendibile, era in realtà una compilazione medievale che cita Giuseppe Flavio ma falsifica diversi fatti, per cui non ha valore storico, a esempio per la storia del Secondo Tempio. Si può capire l’effetto dirompente e disorientante che queste rigorose analisi storiche, assieme a quelle sulle leggende talmudiche e midrashiche, destituite di ogni valore storico, assieme con la datazione dalla creazione del mondo, dovettero suscitare fra i suoi contemporanei tradizionalisti.
Nel Me’or ‘enayim, ancora, verso la fine, de’ Rossi parla della morte e del significato di porre un epitaffio sui sepolcri. A suo avviso, il senso non deve essere quello di esaltare le virtù del morto o il suo nobile lignaggio, ma solo di ricordare che, se il suo corpo ritorna alla terra, la sua anima sale a Dio e che alla fine dei giorni egli riceverà dalla misericordia di Dio la ricompensa eterna. Egli dice al lettore che non può esimersi dal rendergli noto l’autoepitaffio che egli aveva composto per se stesso, non perché si consideri un uomo retto e nemmeno per attribuire onore al suo casato, che, come egli stesso riferisce, secondo una tradizione di famiglia, era una delle quattro famiglie deportate in esilio a Roma da Tito nel 70 d.C., assieme con quella dei min ha-Anavim (delli Mansi, Piattelli), dei min ha-Tappuḥim (de’ Pomis, Mele) e min ha-Ne‘arim (dei Fanciulli), ritenendo anche la famiglia dei min ha-Zeqenim (Del Vecchio) di avere le stesse prerogative.
De’ Rossi l'anno del terremoto tradusse in ebraico la Lettera dello pseudo-Aristea, un falso del II o I secolo a.C. in cui si narra di come sarebbe nata la versione greca eseguita dai Settanta della Bibbia ebraica (o meglio dei libri che nel III secolo a.C. erano considerati sacri dagli ebrei della diaspora alessandrina), a cui diede il titolo di Hadrat zeqenim (La gloria degli anziani) e che pubblicò come seconda parte del suo opus magnum.
De' Rossi morì circa nel 1578 a Ferrara in uno stato di indigenza, per la quale aveva chiesto aiuto ad alcuni prelati cristiani.
La sua opera fu caratterizzata da un approccio decisamente innovativo nell’indagine della storia e del passato, abbandonando l’interesse quasi esclusivo dei precedenti studiosi ebrei per la catena della tradizione rabbinica, per allargarsi a un interesse generale, variegato ed ecclettico, che metteva insieme lo studio della storia con la filologia e l’enciclopedismo del tempo. Fu il primo intellettuale ebreo a studiare il periodo ellenistico e la versione greca della Bibbia detta Septuaginta, così come la Vulgata latina di s. Girolamo, entrando con piena competenza nel dibattito, a lui contemporaneo, di studiosi del mondo cristiano come Augustinus Steuchus e Sebastian Münster. Nelle sue dimostrazioni mostra una eccezionale abilità nell’uso di diverse fonti: oltre alla Bibbia e alla letteratura rabbinica, padri della Chiesa come Eusebio, Girolamo, Agostino, Giustino Martire e Clemente di Alessandria, il medico e filosofo Maimonide, Pico della Mirandola, Platone, Aristotile, Pitagora, Omero, Esopo, Euclide, Virgiglio, Terenzio, Tibullo, Seneca, Cicerone e Temistio. Fra gli storici non ebrei cita Erodoto, Senofonte, Livio, Svetonio, Plutarco, Cesare, Dionisio di Alicarnasso, Diodoro Siculo e Dione Cassio; tra gli scrittori ebrei conosce Filone Alessandrino e, fra i medievali, cita Tommaso d’Aquino, Isidoro di Siviglia, Ugo da San Vittore, Dante e Petrarca per cui mostra profonda venerazione.
La sua libertà di pensiero, basata sull'uso di tutte le fonti e non solo ebraiche - che nell' Ottocento quando la sua figura fu riscoperta da parte degli studiosi della Wissenschaft des Judentums che videro in lui un libero pensatore ante litteram e un campione nell’indagine basata non sui dogmi religiosi ma sulla scienza gli diede grande fama -,nel Cinquecento e nel secolo successivo, gli aveva procurato l’avversione e la condanna degli ambienti ebraici ortodossi.
Per Leopold Zunz, il fondatore della Wissenschaft des Judentums tedesca, de’ Rossi «fu il primo a insegnare a Israele la scienza dell’erudizione che è la base dell’apprendimento, perché è per mezzo di essa che si distingue il vero dal falso» (1841, p. 139).
Fonti e Bibl.: G.B. De Rossi, Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere, Parma 1802, pp. 105 s.; L. Zunz, Toledot Rabbi ‘Azaryah min ha-Adummim (Storia del rabbino A. de’ R.), in Kerem ḥemed” ("Vigna della delizia"), V (1841), pp. 131-158 (e aggiunte in ebraico di S. Rapoport, ibid., VII [1843], pp. 119-124); B. Levi, La vita e gli scritti di A. de R., Padova 1868; D. Kaufmann, Contributions à l’histoire des luttes d’A. de' R., in Revue des études juives, XXXII (1986), pp. 77-87; S.W. Baron, La méthode historique d’A. de’ R., Paris 1929; H. Friedenwald, The Jews and Medicine. Essays, Baltimore 1944, pp. 391-403; J. Weinberg, Azaryah dei Rossi. Towards a Reappraisal of the Last Years of his Life, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, sez. 3, VIII (1978), 2, pp. 493-511; Id., Azaryah dei Rossi and the Forgeries of Annius of Viterbo, in Aspetti della storiografia ebraica. Atti del IV Congresso Internazionale dell’AISG, S. Miniato, 7-10 novembre 1983, a cura di F. Parente, Roma 1987, pp. 23-47; J. Dan, Rossi, Azariah (Bonaiuto) Ben Moses Dei, in Encyclopaedia Judaica, XVII, Detroit, MI, 2007, pp. 472 s.; The Light of the Eyes - Azariah de’ Rossi, a cura di J. Weinberg, New Haven 2001.