AYAMONTE, Guzmán y Zúñiga, Antonio di
Nato nel 1524, apparteneva alla nobile famiglia spagnola dei Guzmán, imparentata con la dinastia portoghese e insignita, dalla cittadina di residenza, del titolo di marchesi d'Ayamonte.
Aveva ricoperto importanti uffici in patria e faceva parte del Consiglio segreto di Filippo II, quando, nel 1573 fu inviato in Italia quale governatore dello Stato di Milano e capitano generale del re, in sostituzione di don Luis de Requesens, trasferito nelle Fiandre: successione oltremodo difficile, perché Milano era allora in fermento per i vivacissimi contrasti giurisdizionali tra l'arcivescovo Carlo Borromeo e le autorità civili, che si erano conclusi con la scomunica al Requesens e con il suo trasferimento.
L'A. giungeva a Milano il 17 settembre, preceduto da fama di rigido assertore dei diritti regi e infatti, forse anche per reagire all'arrendevolezza del Requesens e del predecessore, il conte d'Alburquerque, assunse subito un atteggiamento di resistenza ad ogni atto dell'arcivescovo che sembrasse ledere la giurisdizione civile.
Il 7 ottobre, ricevendo la visita del cardinale Borromeo, che si era recato da lui con l'intenzione "di non entrare in nissun particolare di queste controversie", dichiarò subito che non avrebbe pensato ad altro "se non a quello gli parrà essere servizio del suo re", soggiungendo che "a questi tempi non s'ha tanto da guardare a quel che vogliono i canoni, et che se gli altri vescovi non si curano di servare questi canoni" non se ne doveva curare nemmeno l'arcivescovo di Milano.
Una simile dichiarazione parve inopportuna e il Borromeo, già meravigliato per essere stato ricevuto pubblicamente alla presenza di tutta la corte, "non so se per grandezza o per cerimonia spagnola", com'egli scrive, ne traeva motivo per un giudizio assai poco lusinghiero sull'A.: "Dal suo ragionamento ho potuto cavar poco, et m'è parso che non sia huomo che possegga le materie, ma più tosto parli secondo che gli viene infilzato" (lettera del 7 ott. 1573 a mons. Castelli, A. Sala, Documenti..., III, p.528). Difatti, nonostante che al Borromeo fossero arrivati da Roma consigli di prudenza, contrasti col governatore non mancarono.
L'A. iniziò la sua attività di governo confermando tutte le gride e gli ordini emanati dal predecessore, introducendo una prassi del tutto nuova perché fino ad allora i governatori avevano emanato ciascuno propri bandi generali, richiamando, ove occorresse, questa o quella disposizione anteriore. Abbondò in genere nella legislazione, intervenendo sulle materie più disparate; crebbero in conseguenza anche le disposizioni esecutive e particolari dei vari organi dell'ammistrazione e degli ufficiali minori, dando il via a quella pletorica legislazione tipica dell'amministrazione spagnola.
Le gride e gli ordini emanati durante la peste del 1576-77, per esempio, formano ben cinque libri a stampa. Oltre alle pene comminate contro gli "untori" e al divieto fatto alle pubbliche autorità di lasciare la città senza sua licenza (ma proprio l'A. aveva dato il cattivo esempio ritirandosi prima a Vigevano e poi a Gambalò), il governatore proibì, per misure igieniche, processioni, funzioni religiose solenni, l'entrata e l'uscita di chiunque, anche ecclesiastico, da Milano. Questi provvedimenti, e il divieto inoltre di tenere risaie nei dintorni della città, divieto che colpiva anche certe proprietà della Chiesa milanese, furono occasione di dissapori tra autorità civile ed ecclesiastica. Il Borromeo acconsentì alla richiesta di sospendere l'irrigazione dei campi di riso, ma autorizzò gli ecclesiastici ad entrare in Milano nonostante l'ordine contrario del governatore.
Tuttavia i primi anni di permanenza dell'A. a Milano furono piuttosto tranquilli e, ad onta delle dichiarazioni di intransigenza, l'A. si mostrò in genere condiscendente: così, avendo l'arcivescovo scomunicati certuni che avevano ristretto la bocca che presso Abbiategrasso immetteva l'acqua del Naviglio nelle terre della mensa arcivescovile, il governatore la fece riallargare, rilasciando un birro dell'arcivescovo condannato alla galera per aver portato la citazione in corte. I rapporti peggiorarono in seguito, più che per veri conflitti di giurisdizione, per la resistenza dell'A. all'intransigenza moralizzatrice del Borromeo. L'A., come pure gli altri governatori di questo periodo, si lasciavano spesso trascinare da polemiche puntigliose su questioni di principio, che finivano con l'inasprire gli animi e distoglierli dai problemi dell'ordinaria amministrazione.
Nel 1578 per la richiesta del governatore di aver posto durante le funzioni solenni in duomo, in qualità di rappresentante del re, fra i canonici nel coro, si ebbe una prima grossa controversia. Nello stesso anno, avendo l'A. richiesto al pontefice Gregorio XIII di poter far celebrare la messa e le funzioni religiose nella sua cappella secondo il rito romano, sollevò le proteste dell'arcivescovo intento al ripristino della liturgia ambrosiana nella diocesi milanese e preoccupato di queste concessioni che turbavano il programma di ricondurre tutti sotto l'impero della sua giurisdizione ordinaria. È pure di questo anno un vibrante appello a Roma perché all'A. non fosse concesso di far cantare nella sua cappella musici in abito secolare senza cotta o far suonare strumenti musicali contro le sue disposizioni.
Ad una pastorale del 22 febbr. 1579 contro le feste e i tornei carnevaleschi l'A. rispose facendo ripetere gli spettacoli in Quaresinia, sollevando ancora proteste da parte dell'arcivescovo. Lo stesso avvenne l'anno successivo: questa volta il Borromeo scomunicò autori ed esecutori degli spettacoli, mentre l'A. faceva incarcerare i soldati che avevano chiesto l'assoluzione dalla scomunica.
La tensione si accrebbe quando l'A. fece raccogliere dal Senato una serie di lagnanze contro l'arcivescovo, inviandole poi a Roma per mezzo di un'ambasceria di membri del Consiglio dei sessanta decurioni. L'ambasceria, prevenuta dall'arcivescovo recatosi personalmente a Roma a spiegare la propria condotta, non poté però consegnare il memoriale, e all'A. non restò che cercare di ottenere qualche soddisfazione inimicando al cardinale i gesuiti.
A Milano aveva, infatti, preso le difese dell'A., sulla fine del 1579, il p. Giulio Mazzarino, zio del celebre cardinale, che dal pulpito accusava il Borromeo di abusare dei suoi poteri e diritti di ordinario. Sospeso il Mazzarino dalla predicazione, ma perdonato poi dall'arcivescovo, si dileguò presto ogni ragione d'attrito e l'A. dovette scusarsi con i gesuiti affermando che non aveva assolutamente inteso creare difficoltà alla Compagnia.
L'A. tentò anche, per quanto permetteva la posizione dello Stato di Milano dopo la pace di Cateau-Cambrésis, qualche iniziativa politica sul piano dei rapporti internazionali, ma senza troppa abilità e senza molta fortuna. Approfittando delle lotte interne in Francia, pensò di poter acquistare almeno Saluzzo alla Spagna e di unirlo al Milanese: per questo diede larghi sussidi al maresciallo de Bellegarde, comandante delle truppe, allora in contrasto col governatore francese di Saluzzo, Carlo Birago.
Sebbene si fossero poi composti i contrasti tra i due, l'A. continuò a sperare in un successo della sua azione, finanziando il Bellegarde e dando notizia delle sue rinnovate manovre, per mezzo del cardinale de Granvelle, allo stesso Filippo II. Dopo la morte del Bellegarde (13 dic. 1579), oramai compromessosi col re, l'A. continuò le sue pratiche per impadronirsi di Saluzzo, appoggiando un certo Pietro d'Anselme, già luogotenente del maresciallo, e poco mancò che non riuscisse nel suo intento. Se non che un deciso intervento di Emanuele Filiberto di Savoia riuscì ad impedire l'occupazione spagnola del Saluzzese, suscitando irate quanto inutili proteste dell'A. sconfessato, sembra, anche dal suo governo.
Morì di lì a poco, il 20 apr. 1580; ma non sembra verosimile la notizia data da qualche storico che la morte sia avvenuta a causa del dolore per lo scacco subito e per la sconfessione: benché avesse solo cinquantasei anni, era infatti di salute già assai malferma. Lo assistette negli ultimi istanti il cardinale Borromeo che aveva interrotto una visita pastorale fuori Milano per accorrere al suo capezzale; fu sepolto in S. Maria della Pace.
Una inclinazione allo sfarzo, l'insofferenza del rigorismo morale del Borromeo e le non celate rivendicazioni di prestigio furono la causa dei contrasti con l'arcivescovo, che crearono talora seri imbarazzi tra la stessa Curia romana e la corte spagnola. Amò la musica e la pittura e fece decorare da valenti artisti il palazzo ducale. Dal Pellegrini fece ornare nel 1575 il suo studiolo e l'oratorio di pitture e stucchi; ancora dal Pellegrini e da Valerio Profondavalle fece dipingere quadri raffiguranti i momenti salienti della storia di Spagna e il suo stesso ritratto.
Fonti e Bibl.: Documenti sull'A. sono nell'Arch. di Stato di Milano: fondo Autografi, b. 196, fasc. II; fondo Documenti Diplomatici, bb. 290 e ss. Lettere e memoriali anche tra la corrispondenza di s. Carlo Borromeo all'Ambrosiana (ad vocem).Due lettere dell'A., una al generale dei gesuiti p. Everardo Mercurian in data 29 marzo e una al p. Parra in data 7 apr. 1580 - dunque di appena qualche giorno prima della morte -, sono conservate nell'Arch. stor. della Curia generalizia della Compagnia di Gesù (Hist. Soc.,164, ff. 242-247). Gli ordini dell'A. e del Magistrato di Sanità in occasione della peste del 1576-77 sono editi ne I cinque libri degl'avvertimenti, ordini, gride et editti fatti et osservati in Milano, ne' tempi sospettosi della peste ne gli anni 1576 et 1577... raccolti dal cavagliero Ascanio Centorio de' Hortensii..., In Vinegia 1579. Sull'A. cfr. F. Bellati, Serie de' Governatori di Milano dall'anno 1535 al 1776 con istoriche annotazioni, Milano 1776, p. 5; A. Sala, Documenti circa la vita e le gesta di s. Carlo Borromeo, II, Milano 1858, pp. 115, 136, 178, 185, 196-198, 200-203, 448; III, ibid. 1861, pp. 512, 518, 552, 660-669; F. Malaguzzi-Valeri, Pellegrino Pellegrini e le sue opere in Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 3, XXVIII (1901), pp. 324, 331-335; C. Orsenigo, Vita di S. Carlo Borromeo, in San Carlo Borromeo nel terzo centenario della canonizzazione (1610-1910), Milano 1910-11, pp. 174, 219 s., 263 s., 335, 431; C. Pellegrini, San Carlo e i Gesuiti, ibid., p.166; R. Quazza, Preponderanze straniere, Milano 1938, pp. 95-101; G. Soranzo, S. Carlo Borromeo, II, Milano 1945, pp. 69 ss.; L. Papini, Il Governatore dello "Estado" di Milano (1535-1706), Genova 1957, p. 1154; M. Bendiscioli, Politica amministrazione e religione nell'età dei Borromei, in Storia di Milano, X, Milano 1957, pp. 28 s., 233, 235-237, 247, 250, 289.