AVITO (Eparchius Avitus)
Imperatore d'Occidente; nato sul finire del secolo IV, di nobile famiglia arvernate (Apoll. Sidon., Carm., VII, 248; Greg. Turon., II, 11). Il nome Eparchius è attestato da un'iscrizione cristiana di Roma, in De Rossi, Inscr. Chr., I, 344, 345; una moneta, che tuttavia non pare autentica (in Eckhel, VIII, 193; Cohen, VIII, 222), lo chiama M. Maecilius Avitus. Ebbe tre figli: Agricola, amico di Ruricio, vescovo di Limoges (Rur., Ep., II, 32), Ecdicio, che difese strenuamente l'Arvernia al tempo di Giulio Nepote (Iord., Get., 45, 240), Papianilla, moglie di Sidonio Apollinare (Sid., Ep., V, 16; Carm., XXIII, 430; Greg. Turon., II, 21). Giovanissimo ancora (circa il 420) fu inviato ambasciatore dei suoi concittadini a Costanzo, allora magister militum nella Gallia per ottenere la dispensa da un gravoso tributo che opprimeva la sua patria; e la difficile missione riuscì pienamente (Sid., Carm., VII, 208). Più tardi accompagnò Ezio nelle sue campagne (Sid., ib., VII, 460-463) e fu investito di tre comandi militari e infine, nel 439, elevato alla prefettura del pretorio nella Gallia (Sid., ibid., VII, 290, 308, 312, 316). Concluse, in nome dell'Impero, quell'alleanza con Teodorico I re dei Visigoti, che portò alla vittoria di Ezio sulle orde di Attila (a. 451) nei campi Catalaunici o Mauriacensi (Châlons-sur-Marne). Poi, rotti, a quanto pare, i buoni rapporti con Ezio, si ritirò a vita privata, nella sua villa di Avitacum situata nella Gallia meridionale, dove egli si trovava quando l'imperatore Petronio Massimo, che usurpò l'impero nel 455, alla morte di Valentiniano III, lo nominò maestro delle milizie nella Gallia col duplice incarico di respingere le incursioni dei barbari in quella regione e di avviare negoziati di pace con Teodorico II, nuovo re dei Visigoti (Sid., Carm., VII, 375-378). Ucciso Petronio Massimo in un tumulto di soldati e di popolo, rimasto vacante l'impero, mentre Genserico re dei Vandali occupava Roma e la poneva a sacco (2 giugno 455) A. che ambiva la dignità imperiale (Gregor. Turon., II, 11), con l'aiuto dei Visigoti e col favore dei notabili della Gallia, fu proclamato imperatore il 10 luglio 455 nell'assemblea provinciale di Arles (Mommsen, Chronica Minora, I, 304). Dopo una rapida spedizione in una parte della Pannonia che ricondusse sotto il dominio imperiale (Sid., Carm., VII, 589), A. si recò in Italia e giunse il 21 settembre (Mommsen, op. cit., I, 304) a Roma, che, partiti i Vandali, cominciava a ripopolarsi; vi fu ricevuto con molti onori e salutato Augusto dal popolo e dal senato, i quali venivano così a riconoscere l'elezione di un imperatore imposto dalla Gallia. Il primo gennaio 456, A. assunse il consolato (De Rossi, op. cit., I, 795; Sid., Carm., VII, 11) e suo genero Sidonio Apollinare, che recitò un panegirico dinnanzi al senato, in onore del principe, ebbe in premio una statua nel Foro Traiano (Sid., Carm., VII, 8, 11; Ep., IX, 167). Riconosciuto poi come collega da Marciano, imperatore d'Oriente (Hyd., Chr., in Mommsen, op. cit., II, 28), pensò subito a riordinare lo scompaginato esercito d'Italia e a provvedere alla sicurezza della penisola sempre molestata dalle incursioni dei Vandali, dichiarando loro guerra e affidandone il comando al conte Ricimero che su questi barbari riportò due vittorie: l'una presso Agrigento (Prisc., fr. 24, in Fr. Hist. Gr., ed. Müller, IV, p. 102; Sid., Carm., II, 366), l'altra presso la Corsica (Prisc., l. c.) e per ricompensa ebbe dall'imperatore la nomina a comandante supremo di tutte le milizie d'Italia (Mommsen, op. cit., I, 304). Ma questa nomina non poteva render paga la sterminata ambizione di Ricimero; figlio di un principe svevo e nipote del re Vallia, il fondatore del regno Visigoto di Tolosa, egli mirava più in alto, a governare dittatoriamente lo stato, lasciando il vano titolo d'imperatore ad un uomo che gli fosse interamente devoto. Le vittorie riportate sui Vandali avevano procurato a Ricimero grande autorità nell'esercito, tanto da offuscare quella di A., il quale però non era disposto a lasciarsi mettere in disparte. Ma da quel momento il buon accordo che da principio regnava fra loro venne meno, e Ricimero cominciò a meditare la rovina di A. Questi, uomo di non comune valore e capacità militare, ma di carattere estremamente semplice (vir totius simplicitatis lo chiama Vittore di Tunnuna, in Mommsen, op. cit., II, 186), non prevedendo affatto la furiosa tempesta che stava per addensarsi sul suo capo, era partito per Arles (Hyd., in Mommsen, op. cit., II, 29), lasciando a presidio di Roma quei soldati della Gallia e quei Visigoti che etano l'unico suo sostegno. Gravi le condizioni di Roma, in quei giorni, travagliata com'era dalla carestia a cui non si poteva far fronte essendo vuoto il tesoro imperiale, tanto che l'imperatore non aveva esitato a spogliare i monumenti pubblici dei metalli preziosi che contenevano, per venderli e ricavarne il danaro necessario a pagare i soldati stranieri che lo difendevano (Giov. Antioch., fr. 202, in Müller, IV, 614-618). Di qui i malumori, le accuse della popolazione contro l'imperatore prima, e poi l'aperta rivolta che ebbe per effetto la cacciata dei soldati Galli e Visigoti dalla città (Giov. Antioch., l. c.). Il senato, infine, ostile anch'esso al principe che voleva governare lo stato con soverchia indipendenza, lo dichiara decaduto (Greg. Turon., II, 11: imperium luxuriose agere volens a senatoribus proiectus) e affida a Ricimero e a Maggioriano, conte dei domestici, l'incarico d'impedirgli il ritorno a Roma, occupando le vie della Gallia, mentre il movimento popolare contrario all'imperatore s'allarga fuori di Roma (eccettuata l'Italia occidentale che gli resta fedele) fino a Ravenna dove, nel palazzo di Classe, il 17 settembre, è ucciso il patrizio Remisto, creatura di A. (Mommsen, op. cit., I, 304; Theoph., Chr., ad a. m. 5948). Alla notizia di così grave sollevazione, A., con le forze che poté raccogliere in Gallia, scarse però per l'assenza dei Visigoti impegnati nella Spagna, fece ritorno in Italia, ma giunto presso Piacenza si trovò di fronte l'esercito inviatogli contro dal senato e comandato da Ricimero e da Maggioriano. Aspra e sanguinosa la battaglia a cui A. venne costretto il 18 ottobre e che terminò con la piena sconfitta dell'imperatore, il quale vide cadere sul campo un grandissimo numero dei suoi combattenti, fra cui il patrizio Messiano. Avito, fatto prigioniero e obbligato a deporre le insegne imperiali, ebbe salva la vita e fu consacrato vescovo di Piacenza da Eusebio, allora vescovo di Milano e metropolitano (Mommsen, op. cit., I, 304; II, 137, 186, 232; Iord., Get., 45, 240). Ma di lì a poco tempo, mancandogli gli aiuti promessi dai Visigoti e coi quali forse sperava di ottenere una rivincita sui propri nemici e temendo che questi insidiassero alla sua vita, fuggì segretamente da Piacenza per far ritorno in patria, ma, scoperto e inseguito mentre fuggiva, venne ucciso in un luogo sacro, ove aveva tentato di mettersi in salvo, dai soldati di Ricimero e di Maggioriano (Hyd., in Mommsen, op. cit., II, 27, 35; Giov. Ant., l. c.; Chronica Gallica, in Mommsen, op. cit., I, 664). Gli Arvernati eressero alla memoria del loro imperatore, che aveva regnato meno di sedici mesi, un cenotafio nella basilica di S. Giuliano martire, a Brivas (Brivatensis vicus, Brioude, dip. Haute-Loire). Con l'andar del tempo, si affermò che in quel cenotafio era sepolto Avito, il quale, fuggendo da Piacenza, voleva recarsi alla basilica di S. Giuliano martire a Brivas, ma, caduto malato per via, morì, e il suo corpo venne trasportato e sepolto in quella basilica. Questa tradizione fu raccolta e tramandata per primo da Gregorio di Tours (II, 11), che scriveva un secolo dopo la morte di Avito.
Bibl.: C. Bugiani, L'imperatore Avito, Pistoia 1909; L. Cantarelli, Annali d'Italia (455-476), in Studî e Documenti di storia e diritto, Roma 1896, pp. 19-26; id., L'Imperatore Maioriano, in Arch. della Società romana di storia patria, Roma 1883; F. Gabotto, Storia dell'Italia Occidentale nel Medioevo, I, Torino 1911, pp. 251-257; Hodgkin, Italy and her invaders, II, Oxford 1880, p. 377 segg.; O. Seeck, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., II, coll. 2395-97; id., Geschichte des Untergangs der antiken Welt, VI, Stoccarda 1921, p. 327 segg. ed Anhang, p. 475 segg.; O. Holder-Egger, Untersuchungen über einige ann. Quellen zur Geschichte des fünften und sechsten Jahrhund, in N. Archiv für ält. Geschichtskunde, I (1876), pp. 266, 279.