AVALOS, Francesco Ferdinando, marchese di Pescara
Primogenito di Alfonso, marchese del Vasto, e di Maria d'Aragona, nacque verso il 1530.
L'eminente posizione della famiglia, di origine spagnola e tra le più cospicue dell'Italia meridionale per ricchezza e rilievo politico-sociale, e l'antica tradizione di fedeltà che la legava agli Aragona e poi agli Asburgo di Spagna, lo destinavano a raggiungere le più alte cariche nel sistema di Stati che faceva perno sulla monarchia spagnola. Una prima significativa indicazione in questo senso è costituita da un privilegio del 26 marzo 1536 col quale Carlo V gli confermava la carica di "Camarero mayor" (cfr. Privilegios otorgados por el emperador Carlos V en el reino de Nápoles, a cura di J. E. Martinez Ferrando, Barcelona 1943, p. 23).
L'infanzia e l'adolescenza dell'A. trascorsero nell'ambiente fastoso del padre, governatore dello Stato di Milano, a contatto con umanisti e poeti, letterati e pittori. Secondo la tradizione familiare (cugino del padre era stato l'omonimo marchese di Pescara vincitore a Pavia), l'A. ebbe educazione schiettamente cavalleresca. Della sua istruzione militare si occupò in particolare uno dei più insigni capitani italiani del sec. XVI, G. B. Castaldo. Nel 1546 la morte del padre lasciò il principale erede del prestigio, delle cariche e del ricco patrimonio della famiglia alle cure della madre, nota per le sue vive simpatie per la riforma cattolica e per la sua consuetudine con i circoli umanistici e religiosi della Napoli della prima metà del Cinquecento. Probabilmente all'influsso materno occorrerà ricondurre certi elementi della formazione del futuro uomo di stato, che rivelano anche una pietà religiosa non insensibile a taluni motivi della riforma cattolico-tridentina. In questi anni l'A. ebbe precettore Luca Contile (dal 1546 al 1548), con il quale fondò a Pavia l'accademia della "Chiave d'oro" che contò fra i suoi membri anche Andrea Alciato. La sua educazione letteraria fu affidata oltre che al Contile, ad A. Bagarotti e a B. Moccia, ma non mancarono contatti con altri letterati, anche di gran nome, come A. Caro.
Nel 1548 la madre gli ottenne l'ingresso a corte, dove restò per qualche tempo al servizio del principe Filippo.
L'A. debuttò come capitano nel 1551, al comando di una compagnia, nell'esercito imperiale impegnato nella guerra di Parma contro Ottavio Farnese. Nel 1552 sposò Isabella Gonzaga, figlia di Federico, primo duca di Mantova, e nipote di Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano, e del cardinal Ercole, un matrimonio che accresceva le brillanti prospettive della sua carriera: nel 1553 era già al seguito del Gonzaga a Milano.
Nel 1554 fu tra i gentiluomini che accompagnarono il principe Filippo in Inghilterra, in occasione del suo matrimonio con Maria Tudor, e, nell'autunno dello stesso anno, investito Filippo del Regno di Napoli, si recò a Roma per rendere atto di vassallaggio a nome del nuovo re a Giulio III, e quindi a Napoli per ricevere il giuramento di fedeltà dai rappresentanti della città e del Regno
Mentre l'A. era impegnato nella sua missione in Italia, alla corte di Filippo si svolgeva un serrato duello politico nel corso del quale Ferrante Gonzaga, revocato poco prima dal governo dello Stato di Milano, cercò un compenso ai gravissimi scacchi subiti, sostenendo la candidatura del giovane nipote a un'alta carica nello Stato di Milano. Il Gonzaga mirava a una carica politicamente assai qualificata, ma la sua posizione a corte era ormai troppo indebolita; e d'altra parte l'A. era ancora troppo giovane per un incarico di grande responsabilità. Un compenso fu tuttavia concesso al Gonzaga: l'A. nel dicembre del 1554 fu nominato generale della cavalleria leggera dello Stato di Milano col comando supremo della cavalleria dell'esercito spagnolo in Lombardia e Piemonte.
Entrato, già nel gennaio del 1555, in possesso della carica, l'A. s'immerse nelle operazioni militari in corso contro i Francesi, rivelando eccezionali doti personali di coraggio e di dedizione alla causa del suo re che manifestavano l'educazione cavalleresca tradizionale nella sua famiglia. A tal proposito va ricordato che, nel marzo del 1555, dopo la caduta di Casale in mano ai Francesi, non esitò a prestare di sua iniziativa 20.000 delle 30.000 corone avute in dote dalla moglie, per sopperire alle gravissime difficoltà finanziarie del governatore di Milano, ripetendo un gesto, già abituale al padre, assai indicativo di una tradizione di personale fedeltà al sovrano ancora di tipo schiettamente feudale.
La campagna di Piemonte diretta dal duca d'Alba, succeduto al Gonzaga nel governo dello Stato di Milano e nel comando dell'esercito spagnolo, si concluse nel novembre del 1555 con un completo insuccesso. La grande attività dispiegata dall'A., che si ammalò per gli eccessivi strapazzi, lo mise però in piena evidenza nell'esercito spagnolo, e gli guadagnò la stima dello stesso duca d'Alba, avversario politico del Gonzaga e come tale non troppo ben disposto verso l'uomo che ne aveva raccolto in certo qual modo l'eredità nell'esercito spagnolo. Avvenne così che l'Alba, quando nel dicembre del 1555 dovette lasciare Milano per assumere la carica di viceré di Napoli, decise di lasciare il comando dell'esercito proprio all'A., che, come scrisse a Filippo II, "se ha tomado lo más conveniente al servicio de V. M.".
Tale decisione fu presa in verità con grande esitazione, dovuta alla giovane età e alla relativa inesperienza militare dell'A., al quale però vennero affiancati come consiglieri vecchi ed esperti capitani. Lo stesso duca d'Alba sentì il bisogno di giustificare la sua scelta a Filippo II, in una lettera del 12 genn. 1556: "habiendo primero considerado sobre todas las personas que podían quedar al gobierno de la guerra, me pareció, al presente, ninguna convenir tanto al servicio de V. M. como el marqués de Pescara a quien dejo nombrado por mi lugarteniente ... ; se ha ayudado la poca experiencia del marqués con toda la que acá había que poderle ayudar... El es tan bueno caballero y tan deseoso del servicio de V. M. que sé que no se Ilegará a estos méritos... espero que con poco trabajo podrá gobernar..." (cfr. Epistolario del III Duque de Alba, I, pp. 356 s.). Rimasto al comando dell'esercito spagnolo, l'A. non risparmiò fatiche e sacrifici personali per assolvere onorevolmente il suo incanco, ma la situazione era tale da portare all'insuccesso un capitano ben più maturo ed esperto. L'Alba gli lasciò infatti un esercito ormai privo dei suoi migliori capitani (G. B. Castaldo era malato e Cesare Maggi era partito per Bruxelles), demoralizzato per le recenti sconfitte ed esasperato per la cronica mancanza delle paghe. Per di più i capitani spagnoli, irritati per la nomina dell'A., ne sabotavano spesso l'opera, già di per sé così difficile, di contrastare un esercito modernamente organizzato come quello francese, guidato dalla mano abile di quel vecchio ed esperto condottiero che era il Brissac.
In queste condizioni l'A., per quanto sostenuto dal cardinal Madruzzo, nuovo governatore dello Stato di Milano, non riuscì ad evitare ammutinamenti e sconfitte: nel gennaio del 1556 il presidio di Pontestura si ammutinò, seguito da un reggimento tedesco. Nel febbraio Vignale, importante posizione spagnola cadde in mano ai Francesi, mentre a Vaucelles il 5 febbr. veniva firmata una tregua tra Francia e Spagna.
Profondamente umiliato dagli insuccessi subiti l'A., d'accordo col Madruzzo, per un certo tempo non volle tener conto della tregua, nella speranza di potersi prendere in breve tempo la rivincita sul Brissac. Continuò così le operazioni militari, conseguendo anche un importante successo con la conquista di Gattinara. La cittadina però fu ripresa poco dopo dai Francesi, e lo stesso giorno in cui gli Spagnoli subivano questa nuova cocente sconfitta, l'A. si decideva, il 7 marzo 1556, a firmare una tregua col Brissac, rinunciando ad ogni progetto di rivincita. La cessazione delle ostilità non eliminò comunque le difficoltà di controllare, con una spaventosa carenza di mezzi finanziari, un esercito indisciplinato e tendenzialmente insubordinato.
In questi anni l'A. tenne al suo servizio come segretario il noto polemista riformato Francesco Betti, ancora in posizione nicodemitica, che nel 1557 abbandonò l'Italia passando apertamente alla Riforma. Da Zurigo il Betti gli indirizzò una Lettera all'illustrissimo et eccellentissimo signor marchese di Pescara suo padrone ne la quale dà conto a Sua Eccellenza della cagione perché licenziatosi si sia dal suo servizio, Zurigo (?) 1557 (poi Basilea 1589), che ebbe ampia risonanza nel mondo religioso e politico del tempo. Il Betti vi rivelava di avere goduto per cinque o sei anni la piena fiducia dell'A., al quale soleva anche porre, ma senza alcun successo, dubbi di carattere religioso (cfr. C. D. O' Malley, Jacopo Aconcio, Roma 1955, pp. 66-74). La sfortunata campagna del 1556 non costiuì un serio ostacolo al proseguimento della carriera dell'A., che il 10 dic. 1559 fu chiamato a sostituire per un triennio il duca di Sessa nel governo dello Stato di Milano. Prese possesso della sua carica di governatore nel giugno del 1560 e la mantenne fino al marzo del 1563.
La sua attività come governatore dello Stato di Milano non è stata sinora adeguatamente studiata, cosicché le notizie ad essa relative risultano assai scarse. Si sa comunque che governò lo Stato con molta fermezza, conformandosi alle nuove direttive politiche di Filippo II, tendenti a stabilire un controllo unitario e centralizzato sulle amministrazioni locali. Assai significativa in questo senso una lettera del 23 dic. 1561, con la quale l'A. assestava un durissimo colpo al Senato milanese, limitandone fortemente il diritto d'interinazione: "Vi ordiniamo con questa che quando Vi saranno presentate gratie et concessioni nostre o ch'elle siano delle già fatte o pur di quelle che si faranno, alle quali non contradicono gli ordini dello Stato o di Sua Maestà, le approviate senz'altra eccetione o condizione..." (cfr. A. Visconti, La pubblica amministrazione, p. 208). Durante il periodo di governo dello Stato di Milano l'A. ebbe anche l'incarico di rappresentare il re Cattolico nell'ultima sessione del concilio di Trento.
Arrivò a Trento il 14 marzo 1562 e il 16 marzo fu ricevuto con eccezionale solennità dall'assemblea, davanti alla quale il fiscale Galeazzo Brugora pronunziò in suo nome l'orazione di rito.
A Trento l'A. ebbe vari importanti colloqui con i legati pontifici ai quali espose le preoccupazioni di Filippo sull'andamento del concilio ed in particolare sul problema della sua "continuazione". Filippo II insisteva infatti perché le sessioni del 1562 fossero esplicitamente dichiarate nei documenti ufficiali semplice "continuazione" delle precedenti, contro la tesi dell'imperatore che, sperando sempre in un intervento dei protestanti, premeva nel senso contrario. Su questo e su altri particolari punti i legati si mostrarono piuttosto concilianti con l'A., sul quale cercarono di influire, secondo precise istruzioni dello stesso Pio IV, per smontare la resistenza dei prelati spagnoli al concilio, tenaci oppositori della Curia sul problema della residenza.
A Roma si faceva molto affidamento su un intervento distensivo dell'A., e a tal proposito non si mancò di interessare il cardinale Ercole Gonzaga, presidente del concilio e suo zio. Le speranze della Curia non andarono deluse, poiché l'A. si adoperò molto, nel corso dei due soggiorni a Trento (vi ritornò il 10 maggio 1562), ma anche da Milano attraverso i suoi rappresentanti al concilio, per distogliere i prelati spagnoli dal loro atteggiamento di assoluta intransigenza, ottenendo anche una netta presa di posizione di Filippo II, resa subito di pubblico dominio, in favore delle tesi romane sulla residenza. Nel complesso l'azione dell'A. a Trento ebbe successo nelle questioni minori (indice dei libri proibiti, inquisizione di Spagna, ecc.) non sul problema della "continuazione": i legati furono costretti a ritirare la promessa di dichiararla esplicitamente davanti alla minaccia degli imperiali di abbandonare il concilio.
La missione dell'A. a Trento si svolse con piena soddisfazione del re e ancor più della Curia, che non gli lesinò i ringraziamenti. Il 5 dic. 1562 il Borromeo scriveva al cardinal legato Simonetta: "De la vigilanza et amorevolezza dei Sr. marchese di Pescara per tener ben uniti i prelati spagnoli al servitio di Dio, S. B.ne resta satisfattissima..., onde V. S.ria Ill.ma gli farà carezze et lo benedirà in nome di S. B.ne et similmente il Sr. Pagnano, de quali tutti S. S.tà tiene et terrà sempre gratissima memoria, come per altra via faremo intendere al predetto Sr. marchese " (cfr. Susta, Die Römische Kurie...,III, p. 106). Va detto però che l'A. non aveva accettato di buon grado l'incarico di rappresentare il re Cattolico a Trento; incarico per il quale si sentiva sostanzialmente impreparato. Né mancò di sottolineare a più riprese, nei suoi dispacci a corte, il disagio che nasceva dalla sua posizione di ambasciatore al concilio (cfr. lettera del 4 maggio 1562 a Filippo II: " Pésame que por ser esta negociación diferente de mi profesión, es necesario que en lo más que se tracta no pueda hacer más diligencia por mi parte que remitirme a lo que a otros paresce", in Colección de documentos inéditos…, IX, p. 160). Per cui accolse con piacere il dispaccio del 2 ott. 1562 che lo esonerava dall'incarico.
Uomo non privo di sensibilità religiosa e di sincera devozione per la Chiesa di Roma, l'A. mancava però di seria preparazione teologica o comunque politico-ecclesiastica, cosicché riuscì facile ai consumati politici della Curia di controllarne le posizioni, che per di più non contrastarono mai nella sostanza con quelle del re Cattolico. Una testimonianza esplicita su questo punto è costituita dalle istruzioni dell'A. al Brugora: "dite ad essi padri che loro piaccia lasciar così gagliardo modo di procedere, che oltre saria di scandalo alla reputazione del concilio, potrebbe anco dispiacere a Sua Maestà, la voluntà della quale si vede essere molto conforme a quella della Santità Sua" (cfr. Colección de documentos..., IX, p. 128).
A Roma si deplorò invece vivacemente la sostituzione dell'A. col conte de Luna, fattosi subito paladino dell'opposizione dei prelati spagnoli al concilio con gravissimo fastidio della Curia che sollecitò a Madrid il ritorno dell'A. a Trento: "S. S.tà vorrebbe che s'inducesse a far questa mutatione", scriveva il Borromeo al nunzio a Madrid Crivello il 4 ag. 1563, "perché sarebbe veramente la più grata cosa che il re potesse hora fare a la S.tà S. et la più salutifera che potessero hoggidì ricevere le cose pubbliche..." (cfr. Susta, IV, p. 546). La richiesta non venne accolta: a Madrid non si osò riproporre l'A. per l'incarico, dato che egli stesso "fece grandissima difficoltà di accettarlo la prima volta...".
Scaduto il triennio di governo a Milano, l'A. restò per un certo tempo nell'ombra. Nel 1564 si ventilò a corte la possibilità di un intervento in Corsica in aiuto della Repubblica di Genova. L'A., al quale fu affidato l'incarico di organizzare e comandare il contingente spagnolo, si trasferì a Genova, ma nel 1565 finì con lo sconsigliare l'impresa, che non fu eseguita. Il 3 apr. 1566 fu nominato capitano generale del corpo di spedizione spagnolo per Malta, che pareva minacciata da un nuovo attacco turco. Giunse nell'isola, con 3.000 fanti spagnoli e 3.000 tedeschi, nel giugno del 1566 e subito rafforzò le fortificazioni, ma presto risultò chiaro che la flotta turca puntava su altri obiettivi. Così, già nel luglio, l'A. lasciò Malta con una parte del contingente spagnolo. Tornò a Madrid nella primavera del 1568: l'11 aprile ottenne la nomina all'importante carica di viceré di Sicilia. L'A. l'assumeva in uno dei momenti più delicati della storia dell'isola, che segnava il definitivo tramonto della vecchia amministrazione di tipo feudale e l'impianto di un nuovo sistema di governo fondato su moderne strutture burocratiche centralizzate. A realizzare tanto importante passaggio occorreva un uomo di grande energia e di indiscusso prestigio. La scelta di Filippo II, come di consueto ben ponderata, risultò felicissima.
In Sicilia l'A. trovò un prezioso consigliere nel più eminente uomo politico siciliano del Cinquecento, Carlo d'Aragona Tagliavia duca di Terranova, che aveva tenuto la Presidenza del Regno dal 1566. Col suo aiuto attuò una radicale riforma della Deputazione del Regno, vera roccaforte del privilegio baronale, che, promanante dal Parlamento, aveva il compito di curare la ripartizione e l'esazione dei donativi e di controllare l'osservanza dei capitoli e dei privilegi del Regno. I poteri della Deputazione erano indipendenti da quelli dei viceré, al quale soleva contrapporsi come rappresentante del Regno. L'A. studiò attentamente il problema nei suoi aspetti politici e finanziari e nel Parlamento del 21 marzo 1570 avocò l'esazione e l'amministrazione dei donativi al Tribunale del Real Patrimonio, sostituendo ai commissari della Deputazione tre funzionari (i regi percettori), dislocati uno per ogni Valle (circoscrizione amministrativa). In tal modo l'A. assestò un durissimo colpo alla Deputazione, che veniva a perdere la sua prerogativa più vitale, ed ottenne nello stesso tempo il risultato di snellire e modernizzare la amministrazione finanziaria contro gli arbitri e le parzialità dei vecchi commissari. La riforma permise, fra l'altro, di recuperare sollecitamente ingenti somme dovute da varie università.
L'iniziativa dell'A. e del Terranova, che suscitò resistenze nei gruppi privilegiati, rientrava indubbiamente nel quadro della generale riforma dell'amministrazione siciliana promulgata nel 1569, in virtù della quale le vecchie magistrature feudali ereditarie furono sostituite da moderni "tribunali". In tale ambito essa tese a rendere più funzionale il settore finanziario, che non aveva ricevuto adeguata attenzione da parte del sovrano riformatore, preoccupato in primo luogo del problema della "giustizia". In questo senso l'A. introdusse nel 1570 alcune importanti modifiche nell'organizzazione dello stesso Tribunale del Real Patrimonio.
Ma gli intenti dell'A., oltre che finanziari, furono più generalmente politici poiché si trattava di togliere alla Deputazione quella sua pericolosa indipendenza dal potere vicereale che ne faceva il più importante strumento delle resistenze baronali alla politica centralizzatrice della monarchia spagnola. A tal fine l'A. dispose, come ricordò il Terranova a Filippo II in un dispaccio del 25 genn. 1575, che la Deputazione non potesse più riunirsi "se non con saputa et ordine del viceré, et nella medesima casa reale...; et per maggiore sicurtà di evitar le secrete et particolari conventicole, piacque che questa congregazione si facesse non solo in luogo pubblico, ma ancora in forma et apparenza pubblica, ...et che la elettione si facesse di persone dalle quali se ne potesse aspettare ogni buon servizio" (cfr. Corrispondenza particolare..., p. 118).
La particolare sollecitudine per i problemi finanziari, intesa a non gravare il paese di un eccessivo carico fiscale e a ripartire più equamente le contribuzioni, gli suggerì l'iniziativa di un generale censimento delle persone e dei beni del Regno. Tali preoccupazioni sono evidenti nell'atteggiamento assunto dall'A. nel Parlamento del 21 marzo 1570, nel quale si limitò a chiedere solo "l'ordinario servitio". Nello stesso anno tuttavia le pressioni della corte lo costrinsero a riconvocare il Parlamento (il 21 dicembre), per chiedere un donativo straordinario per le nozze di Filippo II con Anna d'Austria. Gli fu accordato un donativo straordinario di 125.000 scudi, che il fratello dell'A., Carlo, per l'occasione naturalizzato regnicolo come già lo stesso A. e il figlio Alfonso, fu incaricato di presentare a corte come ambasciatore del Parlamento.
Un atteggiamento assai cauto e responsabile assunse l'A. sul problema dell'esportazione granaria, fonte non ultima di gravi preoccupazioni per i viceré di Sicilia. Solo dopo una tenace resistenza e dietro precisa intimazione di Filippo II consentì malvolentieri alla richiesta di 10.000 salme di grano avanzata nel luglio del 1569 dal papa, tratta che egli ritenne eccessiva e tale da creare difficoltà all'approvvigionamento della stessa isola e degli altri possedimenti spagnoli che ne dipendevano. Le stesse resistenze mostrò nel 1570 nei riguardi dei Veneziani che pretendevano particolari condizioni di favore per il loro approvvigionamento granario in vista della lega contro il Turco.
Un'intensa attività esplicò l'A. nel quadro della politica mediterranea della monarchia spagnola volta in questi anni alla costituzione di una lega contro i Turchi. Contribuì alla preparazione dell'impresa di Lepanto, alla quale doveva partecipare con un alto comando: Filippo II lo raccomandò a don Giovanni d'Austria (4 febbr. 1571), accennando alla possibilità di nominarlo luogotenente del comandante supremo "en lo de tierra".
In questo campo l'A. prese iniziative piuttosto avventurose: nel 1569 s'impegnò in una trama intesa a far saltare in aria la flotta turca e ad uccidere il figlio del sultano, trama che si concluse con un pieno fallimento. Assai sollecito della difesa del Regno, ne migliorò le fortificazioni, costruendo un baluardo a Palermo e una fortezza in Agosta. Il 4 febbr. 1571 inviò alla corte una relazione sullo stato delle fortificazioni del Regno.
Non poche difficoltà procurarono all'A. i rapporti con Roma, condizionati soprattutto dalla pubblicazione della bolla In coena Domini, alla quale egli negò l'exequatur viceregio, proibendone severamente la diffusione nell'isola (1568-69). Reazioni assai vivaci suscitò in Sicilia anche la nomina di Paolo Odescalchi a nunzio apostolico per i regni di Napoli e di Sicilia, respinta e sconfessata perché lesiva del privilegio dell'Apostolica Legazia. L'Odescalchi tuttavia ottenne dall'Inquisizione di Sicilia la autorizzazione a pubblicare la bolla senza l'exequatur viceregio. Il conflitto pertanto si allargò, coinvolgendo i rapporti tra il viceré e l'Inquisizione.
Tali rapporti erano stati in un primo tempo abbastanza buoni, per non dire cordiali, a giudicare dalla relazione inviata il 30 giugno 1569 dagli inquisitori Retana e Bezerra a Madrid, nella quale figurano significativi apprezzamenti per l'atteggiamento dell'A. nei confronti del Santo Ufficio. Questa atmosfera di collaborazione cominciò a guastarsi con la pubblicazione (6 apr. 1570) di un capitolo che sottraeva al foro del Santo Uffizio suoi ufficiali e familiari colpevoli di certi reati comuni. Il contrasto si aggravò allorché gli inquisitori mortificarono duramente i gesuiti, loro tradizionali avversari, impedendo all'ultimo momento e senza tener conto della presenza del viceré, invitato di riguardo, la rappresentazione di un dramma sacro organizzata nella casa gesuitica di Palermo. Esplose quindi con estrema violenza quando apparve chiaro che gli inquisitori appoggiavano l'opposizione baronale alla riforma dei tribunali, perseguendo la tradizionale politica di cooperazione con la nobiltà in funzione di fronda contro il potere vicereale. L'A. protestò presso il Grande Inquisitore, cardinale Spinoza, e presso il sovrano, affermando che "Bezerra et lui non potevano stare in un medesimo Regno" (cfr. Di Castro, p. 49).
In tale situazione l'iniziativa degli inquisitori di accordare all'Odescalchi una sorta di exequatur per il Regno, che solo il viceré aveva il diritto di concedere, assumeva il carattere di una vera e propria provocazione. L'A. reagì con estrema fermezza: annullò "la pubblicattione di detta bulla et che se despacciassino le exequutorie et dopo renovasse detta pubblicatione di essa bulla" (cfr. Garufi, p. 252) e ricorse a Madrid, denunciando il grave abuso commesso dagli inquisitori. Filippo II risolse il conflitto con un semplice richiamo alle norme generali d'azione dei due poteri. Ordinò al viceré di non permettere in futuro la pubblicazione nel Regno di bolle pontificie senza exequatur viceregio, e invitò il Grande Inquisitore ad ammonire i suoi dipendenti in Sicilia ad un maggior rispetto per il viceré e "las cosas que tocan de preminencia Real".
Tale atteggiamento di rigorosa difesa delle prerogative sovrane non impedì all'A. di formulare un interessante progetto di riforma degli abusi del Tribunale di Regia Monarchia che rivela una vigile coscienza religiosa, assai sensibile ai problemi dell'organizzazione disciplinare della Chiesa nel senso della riforma cattolico-tridentina.
Il merito maggiore del governo dell'A. in Sicilia riguardò, per concorde testimonianza dei contemporanei, l'amministrazione della giustizia. In questo settore, senza dubbio il più delicato in un paese dove l'onnipotenza del privilegio e la fortissima coscienza particolaristica di baroni e magnati, di gruppi e comunità e consorterie di ogni genere frantumavano l'azione dei poteri pubblici, l'A. perseguì, con particolare impegno e costanza, una politica di affermazione della superiore legge dello Stato.
Numerosissimi a tal proposito gli episodi clamorosi, che attestano l'estrema imparzialità con cui l'A. usò rispettare e far rispettare la legge, non esitando a incarcerare alti e talora altissimi funzionari, come Vincenzo Percolla, presidente del tribunale della Regia Gran Corte (la suprema magistratura giudiziaria del Regno), che non aveva saputo impedire al figlio di sposare una gentildonna affidatagli dal viceré. Il Percolla morì in carcere nel 1572, e, come osservò un cronista contemporaneo, "fu di gran novità vedersi un presidente di tanta autorità in quel loco carcerato, ludibrio a' carcerati per essere stato egli severo offiziale..." (cfr. Di Giovanni, II, p. 198).
Lo stesso senso della legge gli impedì di secondare il potentissimo Ruy Gomez de Silva, ministro di Filippo II, nel "maneggio" di due matrimoni cui erano interessati due suoi parenti, don Diego de Silva e il conte di Cifuentes, "perché, non usando, né potendo con ragione usare il marchese quelle violentie che per la conclusione di detti maritaggi desideravano il conte e don Diego, si partirono di Sicilia mal satisfatti, imputando a poca volontà quel che nasceva da molta ragione, et gli debilitarono per questa causa in tal guisa il favor di Ruygomez, che quel signore cominciò tosto a vederne segnali" (Di Castro, p. 48). In questa faccenda dei matrimoni spagnoli l'A. impegnò veramente tutto il suo prestigio di uomo di govemo, giungendo persino a "carcerare con suo gran dolore don Martin d'Aragona da lui amato come figliuolo, et farsi nemico il marchese di Vigliahermosa suo padre" (Di Castro, p. 48-49).
In verità la rigoristica coscienza della legge e delle funzioni di diretto rappresentante del re, e come tale di supremo ed imparziale dispensatore di giustizia, si alimentavano nell'A. di un autentico respiro etico, di una concezione quasi religiosa delle funzioni di governo. Secondo la testimonianza di un osservatore contemporaneo d'eccezione, l'A. non "volea che quel governo... gli giovasse ad altro, che per mostrare al mondo che non haveva degenerato da suoi maggiori, et ch'era stato atto a giungere alli carichi di suo padre, senza volerne altra utilità che la sola provisione, con la quale disegnò di vivere et con l'entrate proprie andarsi disempegnando". Ed in conformità con tali principi, "cominciò una spetie di vita, più conforme a religioso ben regolare, ch'a signore che governava; ascoltava attentissimamente tutti coloro da quali pensava potergli venire consigli fedeli, prudenti et amorevoli; et finalmente chiuse, quanto a sé, tutte le porte donde fosse potuto intrare la malignità" (Di Castro, p. 47).
Non meno significativa la testimonianza di un altissimo funzionario del Regno, il presidente del tribunale del Concistoro Francesco Fortunato, il quale, ammonendo il viceré a non mostrarsi solo "virrey de nobles y particulares, a los quales solo se comunique, sino también de todos universalmente, escuchando y dando demostración de escuchar más de buena gana al pobre que al rico, al de basa fortuna que al señor " (cfr. Los avertimientos del doctor Fortunato, cc. 406 v-407 r.), non riusciva a trovare in tutta la sequela di viceré di Sicilia, se non tre esempi, fra cui quello dell'Avalos.
Di fatto l'attività di governo che venne svolta dall'A. in Sicilia rivela la maturazione di una moderna coscienza dello Stato e delle sue funzioni che non ha alcun precedente nella sua tradizione familiare, animata essenzialmente dalla concezione, ancora tutta feudale e cavalleresca, della personale devozione al sovrano. In questo senso la carriera politica dell'A. acquista veramente un valore esemplare, documentando la formazione, promossa e sviluppata dalla monarchia "assoluta" di Filippo II, di una nuova cerchia di uomini di Stato che alla vecchia etica della fedeltà personale al sovrano vengono accompagnando la nuova etica dello Stato moderno, fondata sull'eguaglianza di tutti i sudditi davanti alla legge del re, sull'osservanza dei doveri di governo con scrupolo di cristiana sollecitudine per la protezione degli umili e dei deboli. La figura dell'A. si configura così nettamente come quella del nuovo uomo di Stato dell'Europa della Controriforma.
L'attività riformatrice dell'A., la dedizione alla legge dello Stato, la lotta contro privilegi e abusi non mancarono di suscitare in Sicilia aspre resistenze, opposizioni sorde e insidiose che alla fine ne compromisero la permanenza nella carica.
La condotta irreprensibile dell'A. che "non s'intricò mai né in mercantie, né in venditioni d'officii, né in altre cose di mala satisfatione" (cfr. Di Giovanni, II, p. 199), non impedì ai suoi numerosi nemici, che si annidavano fin nelle più alte magistrature del Regno, di attaccarlo inesorabilmente, colpendone il prestigio e minando le basi stesse del suo potere con abili interventi a corte.
In effetti l'A. offrì una certa possibilità di manovra ai suoi nemici riponendo eccessiva fiducia nel suo segretario, Giovan Francesco Locadello, rivelatosi uomo "ignorante, arrogante, incivile". Il Locadello, secondo la testimonianza del Di Castro e del Fortunato, abusò della fiducia accordatagli dal suo signore, s'impegolò in liti per suoi interessi privati, scontrandosi con vari funzionari e in primo luogo con don Pedro Velazquez, conservatore del Real Patrimonio e "antico et solo ministro spagnolo" nel Regno. Alla prima occasione il Velazquez si recò personalmente a corte, dove, con l'appoggio di A. Arduino, che lo coadiuvava da Palermo con lettere insidiosissime, riuscì a scalzare la fiducia che l'A. vi godeva. "Di qua si diede principio, a chi n'haveva voglia, a far apparire poco sincere tutte l'altre attioni di quel Ministro, caduto totalmente in sinistra opinione della Corte, se il signor Gio. Andrea Doria non l'avesse con gagliardo favore sollevato. Di qua nacquero le prime fatiche del Marchese, occupato ogni hora a defendere et a giustificare quelle imputationi, che in nome pungevano il creato, et in fatti ferivano lui, a cui se si leva questo errore d'esser stato sempre costante nella buona opinione, che haveva del suo creato, non troverà l'emulatione et la malignità cosa veruna da imputargli in quel governo" (cfr. Di Castro, p. 48).
La questione dei matrimoni spagnoli, la carcerazione del Percolla, i contrasti col Santo Uffizio e infine il progetto di riforma degli abusi del Tribunale di Regia Monarchia, che fu presentato a corte come un tentativo di sovvertirne le fondamenta in senso filoromano, misero l'A. in gravissime difficoltà. Di fatto la sua politica minacciava di compromettere seriamente, a tutto vantaggio del potere vicereale, quel delicato equilibrio di potere centrale e poteri locali, quel difficile sistema di limitazioni e di controlli reciproci sui quali il re prudente fondava la stabilità e le fortune della monarchia spagnola. Solo la morte sopraggiunta di lì a poco, gli evitò forse la sorte di tanti suoi predecessori nel governo dell'isola: la revoca dalla carica.
L'A. morì il 31 luglio 1571 a Palermo, si disse, non senza malignità, per gli eccessi della sua vita galante. L'ambasciatore spagnolo a Roma Juan de Zuffiga, ne commentò la morte in un dispaccio a Filippo II dell'11 ag. 1571: "Ha perdido en verdad V. M. un muy buen ministro, y que avía agertado a gobernar aquel reyno muy christianamente y prudentemente" (Corresp. diplomatica..., IV, p. 406).
Palermo gli tributò solenni esequie e l'orazione funebre fu recitata da Francesco Bisso, suo medico personale e noto letterato palermitano.
Erede di una tradizione familiare di fasto e di mecenatismo, l'A. condusse vita splendida e cortese. Amò circondarsi di feste e di giostre, di poeti e di letterati e non disdegnò le avventure galanti. A Palermo protesse la accademia degli Accesi, fondata, forse per sua stessa iniziativa, nel 1568, che soleva tenere le sue sedute nel palazzo reale, dimora dell'Avalos. Gli accademici gli dedicarono un volumetto di Rime della accademia degli Accesi di Palermo all'illustris. et eccellentis.signor marchese di Pescara..., Palermo 1571, tutto risonante delle lodi dell'A., che costituisce un fondamentale documento dell'ormai sicuro predominio della lingua e della tradizione letteraria italiana in Sicilia (cfr. G. B. Grassi, Il I volume delle rime degli Accesi di Palermo, Palermo 1900, passim).
Fonti e Bibl.: Manca a tutt'oggi uno studio d'insieme sull'A., ma scarseggiano anche i contributi particolari volti a lumeggiare singoli aspetti e momenti della sua biografia. Notizie sugli anni dell'adolescenza in P. Aretino, Il secondo libro delle lettere, a cura di F. Nicolini, I, Bari 1916, pp. 279 s.;P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I (1514-1544), Roma 1956, pp. 243, 272; II (1544-1552), ibid. 1958, pp. 56, 63, 67; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, II, luglio 1546-luglio 1559, Firenze 1959, pp. 5 ss.; A. Salza, Luca Contile uomo di lettere e di negozi del secolo XVI, Firenze 1903, pp. 49-56. Per le prime esperienze politiche e militari e la partecipazione alla guerra di Piemonte, cfr.: Calendar of State Papers. Foreign series, of the Reign of Mary. 1553-1558, a cura di W. B. Turnbull, London 1861, pp. 161, 201, 203, 211, 288, 392; Catálogo XVI del Archivo General de Simancas. Papeles de Estado de la correspondencia y negociación de Nápoles. Virreinato, a cura di R. Magdaleno Redondo, Valladolid 1942, pp. 35, 38; Archivo General de Simancas. Catálogo V. Patronato Real, a cura di A. Prieto Cantero, I, Valladolid 1946, pp. 221 s.; Epistolario del III Duque de Alba Don Fernando Alvarez de Tolido, a cura del duque de Alba, I, Madrid 1952, pp. 336, 342, 346, 347, 356 s., 363, 381, 394; A. Segre, Il richiamo di D. Ferrante Gonzaga dal governo di Milano e le sue conseguenze (1553-1555), in Mem. d. R. Accad. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 2, LIV (1904), pp. 227 s., 251 s.; Id., La questione sabauda e gli avvenimenti politici e militari che prepararono la tregua di Vaucelles, ibid.,s. 2, LV (1905), pp. 391-400; Id., La campagna del duca d'Alba in Piemonte nel 1555, Roma 1905 (estr. dalla Riv. militare ital), pp. 13 s., 26, 48, 51 s., 58 s.; C. Trasselli, Il cardinal Madruzzo governatore di Milano attraverso la corrispondenza con Filippo II, in Nuova riv. stor., XXV (1941), pp. 430, 446, 447, 457, 459 s. Per il periodo di governo dello Stato di Milano, cfr.: D. Muoni, Collezione d'autografi..., II, Milano 1859, p. 28; A. Visconti, La pubblica amministrazione nello Stato milanese durante il predominio straniero (1541-1796), Roma 1913, pp. 179-181, 207 s.; Catálogo XXII del Archivo de Simancas. Papeles de estado. Milan y Saboya (siglos XVIy XVII), a cura di R. Magdaleno, Valladolid 1961, pp. 77-89 (per altre notizie particolari sulla carriera dell'A., cfr. anche pp. 30, 49, 59, e per la spedizione in Corsica, pp. 64, 89, 92, 97); C. A. Vianello, Il Senato di Milano organo della dominazione straniera, in Arch. stor. lombardo, s. 7, LXII (1935), pp. 55 s.; M. Bendiscioli, Politica, amministrazione e religione nell'età dei Borromei, in Storia di Milano, X, Milano 1957, p. 73; L. Papini, Il governatore dello "Estado" di Milano (1535-1706), Genova 1957, pp. 64, 152, 219. Per l'attività svolta come ambasciatore spagnolo al concilio di Trento, cfr.: Documentos relativos al Concilio de Trento, in Colección de documentos inéditos para la historia de España, a cura di M. Salvá e P. Sainz de Baranda, IX, Madrid 1846, pp. 109-324; Die römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV, a cura di J. Susta, II-IV, Wien 1909-1914, ad indicem; La corrispondenza del card. Ercole Gonzaga presidente del Concilio di Trento (1562-1563), a cura di G. Drei, in Arch. stor. per le prov. parmensi, n. s., XVII (1917), pp. 208 s.; XVIII (1918), pp. 60, 89; Concilium Tridentinum, Actorum V, a cura di S. Ehses, Friburgi Brisgoviae 1919, pp. 379-383, 489. Per la missione a Malta, cfr.: Correspondencia de Felipe II con Don Garcia de Toledo y otros de los años 1565 y 1566, sobre los preparativos terrestres y maritimos para defender La Goleta, Malta y otros puntos contra la armada del turco, in Colección de documentos inéditos para la historia de España, a cura del marqués de Pidal e M. Salvá, XXIX, Madrid 1856, p. 61; XXX, ibid. 1857, pp. 69, 195 s., 208 ss., 288 ss., 291 ss., 314 s., 318 ss., 334 s., 337, 368. Per il viceregno di Sicilia, cfr.: British Museum, London, Mss., Additional 28, 396, Los avertimientos del doctor Fortunato sobre el govierno de Sicilia, cc. 406 v-407 r., 409 r., 418 r., 434 r., 466 r.-v., 470 v.; Parlamenti generali del Regno di Sicilia, a cura di A. Mongitore e F. Serio Mongitore, I, Palermo 1749, pp. 350-360; F. Paruta e N. Palmerino, Diario della città di Palermo, in G. Di Marzo, Bibl.stor. e letter. di Sicilia, s.1, I, Palermo 1869, pp. 30-42; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato libri quattro, ibid., s. 2, II, ibid. 1872, pp. 195-200; Corrispondenza particolare di Carlo di Aragona duca di Terranova... con S. M. il re Filippo II (giugno 1574-maggio 1575), a cura di S. V. Bozzo, Palermo 1879, pp. 116-120; Correspondencia diplomatica entre España y la Santa Sede durante el pontificado de S. Pio V, a cura di L. Serrano, Madrid 1914, I-IV, ad indicem; Avvertimenti di don Scipio Di Castro a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, a cura di A. Saitta, Roma 1950, pp. 46-49; Catálogo XIX del Archivo de Simancas. Papeles de Estado. Sicilia, a cura di R. Magdaleno, Valladolid 1951, pp. 37-92 e passim; F. J. Sentis, Die "Monarchia Sicula". Eine historisch-canonistische Untersuchung, Freiburgi/B. 1869, p. 114; G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei viceré luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia, Palermo 1880, pp. 222-226; C. A. Garufi, Contributo alla storia della Inquisizione di Sicilia nei secc. 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