AVALOS, Alfonso d', marchese del Vasto
Nacque a Ischia il 25 maggio 1502, da una delle più illustri casate del Regno di Napoli, figlio di Iñigo (II), marchese del Vasto, e di Laura Sanseverino; rimasto molto presto orfano, fu educato dalla zia Costanza, principessa di Francavilla, famosa per avere virilmente difeso l'isola d'Ischia contro i Francesi nel 1593. Legato da grande affetto e amicizia al più anziano cugino Ferdinando Francesco, il famoso marchese di Pescara, l'A. prese a militare giovanissimo nell'esercito di lui. Partecipò alla battaglia della Bicocca nel 1522 e si distinse nel corso di questa campagna alla conquista di Lodi e alla occupazione di Genova. Al comando di un reparto di fanteria italiana prese parte alla sfortunata campagna di Provenza del 1524 e combatté all'assedio di Marsiglia: durante la ritirata gli fu affidato provvisoriamente dal marchese di Pescara il comando della fanteria imperiale e l'A. ne diresse con felice esito il ripiegamento da Acqui a Pavia.
Un ruolo di rilievo l'A. ebbe nella battaglia di Pavia (24 febbr. 1525), nella quale comandava l'avanguardia dell'esercito imperiale, costituita da millecinquecento lanzichenecchi e altrettanti archibugieri: con queste forze l'A., praticata una breccia nel muro del parco di Mirabello, attaccò l'ala sinistra dello schieramento avversario e sostenne poi validamente l'urto della gendarmeria e dei gentiluomini francesi guidati dallo stesso Francesco I, sino a che l'intervento del grosso dell'esercito imperiale pose fine vittoriosamente alla battaglia. Dopo di questa l'A. fu incaricato dal marchese di Pescara di provvedere all'occupazione del marchesato di Saluzzo, compiuta entro il luglio 1525.
Per queste sue imprese, su istanza del cugino, l'A. ottenne dall'imperatore la nomina a capitano generale di tutta la fanteria dell'esercito d'Italia (25 nov. 1525). Alla morte del marchese di Pescara, sopravvenuta nel medesimo anno, l'A. ne ereditò i feudi e il titolo, cui più tardi (1528) si aggiunsero i titoli di principe di Francavilla e di conte di Montescaglioso e Belcastro, e la carica di governatore d'Ischia, ereditati dalla zia Costanza.
Insieme con Antonio de Leyva l'A. costrinse nel 1526 il duca Francesco II Sforza ad abbandonare Milano e a rinunziare a ogni tentativo antimperiale.
Durante la campagna contro l'esercito della lega di Cognac l'A., mosso da scrupoli religiosi, tentò invano, rivolgendosi a Carlo V e ai vari comandanti imperiali, di impedire il Sacco di Roma, e a quella impresa non volle partecipare.
Nel febbraio 1529 condusse la fanteria spagnola e italiana da Roma in soccorso di Napoli, assediata dal Lautrec, ma qui i suoi dissensi con l'Orange giovarono non poco ai primi successi dei Francesi. L'A. assunse la direzione dell'esercito imperiale contro le forze dei coalizzati francesi, fiorentini e veneziani, che, al comando di Renzo da Ceri, avevano portato la guerra in Puglia. Durante questa campagna, che fu durissima anche per l'appoggio dato da una larga parte della popolazione ai collegati, l'A. non riuscì a ottenere alcun successo importante e assediò invano per due mesi Monopoli.
Influì anche sui cattivi risultati della campagna la rivalità dell'A. con Ferrante Gonzaga, che comandava la cavalleria: inimicizia dovuta soprattutto al carattere suscettibile e alla grande ambizione dell'A., il quale considerò sempre come rivali tutti i capitani e i funzionari imperiali che gli furono vicini con qualche autorità e prestigio, l'Orange, il Gonzaga, Maramaldo, il viceré Pietro de Toledo, il de Leyva, il cardinale Caracciolo, Lope de Soria, importunando spesso Carlo V con le sue lamentele e non meno spesso provocando con la sua gelosia seri inconvenienti nella condotta delle imprese militari.
Nell'aprile del 1528 il viceré Ugo de Moncada, nel tentativo di togliere il blocco posto dai Francesi a Napoli e di permettere l'afflusso di cereali dalla Sicilia, decise di affrontare con i suoi migliori capitani, tra cui l'A., la squadra navale comandata da Filippino Doria. In questa battaglia, combattuta nel golfo di Salerno il 28 apr. 1528 e detta della Cava o di Capo d'Orso, le navi imperiali furono sconfitte, il Moncada stesso ucciso e l'A. fatto prigioniero. Condotto a Lerici, l'A. seppe abilmente sfruttare il malcontento antifrancese di Andrea Doria ed ebbe non piccolo merito nella defezione di lui dal campo francese, che fu di così grande importanza nel risolvere questa fase della guerra in favore degli imperiali.
Nella distribuzione voluta da Carlo V nel 1529 dei feudi della nobiltà filofrancese del regno di Napoli ai nobili rimasti fedeli alla Spagna, toccarono all'A. i feudi di Montesarchio, Castel Pagano, Val di Vituiano, Bisaccia, Gragnano, Procida e altri minori.
Nel settembre 1529 l'A. condusse cinquemila fanti spagnoli dalla Puglia in Toscana, alla guerra per la restaurazione medicea in Firenze: vi si distinse conquistando Cortona (14 sett. 1529), Prato (febbr. 1530) ed Empoli (29 maggio 1530), che mise a sacco. Richiesto di aiuti da Fabrizio Maramaldo che assediava Volterra, preferì recarvisi di persona assumendo il comando dell'assedio. La sconfitta inflitta agli imperiali da Francesco Ferrucci e, più, le beffe degli assediati vittoriosi, misero l'A. in tale stato di furore che con un gesto tipico del suo carattere debole e morbosamente orgoglioso abbandonò la guerra e se ne ritornò a Napoli. Qui, nel 1532, arruolò un corpo di seimila fanti da condurre in soccorso di Ferdinando d'Asburgo in guerra con i Turchi, ma l'arretramento di questo sino a Belgrado lo dissuase dal progetto.
Quando nel 1535 Carlo V organizzò la grande spedizione contro Tunisi, ne affidò la direzione all'Avalos. Fu questa una delle migliori imprese militari dell'A., che al comando di venticinquemila fanti e duemila cavalli italiani, tedeschi e spagnoli conquistò il 14 luglio la Goletta, dopo averla sottoposta a un massiccio bombardamento; il 16 luglio affrontò e sconfisse di fronte a Tunisi gli ottantamila uomini del Barbarossa e il 20luglio, anche per la contemporanea insurrezione degli schiavi cristiani, conquistò Tunisi compiendo uno spaventoso massacro degli abitanti.
Da Tunisi l'A. raggiunse in Lombardia l'esercito imperiale, che si accingeva ad invadere la Provenza, e tentò invano di sconsigliare l'impresa che per l'esperienza fatta nel 1524 giudicava di esito assai incerto. Carlo V preferì invece seguire i consigli del de Leyva e nel luglio 1536 iniziò la spedizione: l'A. fu messo a capo delle fanterie sotto il comando generale del de Leyva. Le sue pessimistiche previsioni furono ampiamente confermate.
Morto il de Leyva, l'A. assunse il comando supremo e ordinò immediatamente la ritirata dalla regione. Essa avvenne tra grandissime difficoltà, perché i Francesi si erano impadroniti saldamente dei punti di passaggio e non fu certo tra le minori imprese dell'A. aver ricondotto i resti dell'armata in Piemonte. Qui, sino alla interruzione delle ostilità per la tregua stipulata il 16nov. 1537e poi per la pace di Nizza del 18 giugno 1538,l'A. venne riorganizzando le sue forze e rioccupando lentamente i territori conquistati dai Francesi: introdotti in città dalla popolazione di Casale Sant'Evasio (Casale Monferrato) i Francesi, l'A. accorse immediatamente a soccorrervi il presidio spagnolo, scacciò i Francesi e mise la città a sacco; ritiratosi quindi in Asti vi sostenne vittoriosamente l'assedio dell'esercito del d'Humières; ottenuti rinforzi passò al contrattacco e conquistò Chieri, Cherasco e Alba. La tregua colse l'A. mentre dirigeva l'offensiva contro Pinerolo e Torino.
Le maggiori preoccupazioni non vennero tuttavia all'A. dai Francesi, ma dall'indisciplina delle sue stesse milizie, che prive da tempo delle paghe si abbandonavano a saccheggi e violenze d'ogni genere e si rifiutavano di combattere. Aspri contrasti sorsero per questa situazione tra l'A. e il governatore di Milano, il card. Marino Caracciolo, che si opponeva alla richiesta di una pesante tassazione straordinaria, per non esaurire le già provate risorse economiche dello Stato. Questo contrasto raggiunse punte drammatiche, sia per l'insofferenza e l'incomprensione del militare verso l'amministratore, sia per il carattere dell'A., intollerante dei limiti impostigli da un'autorità non inferiore alla sua. Nel giugno del 1537 la situazione precipitò per l'insorgere di una violentissima rivolta militare. Le truppe misero a sacco Valenza, attaccarono ripetutamente Tortona, si abbandonarono a violenze senza precedenti nelle campagne di Alessandria. Di fronte alla minaccia di vedere completamente devastato lo Stato, il Caracciolo dovette piegarsi ad imporre ai cittadini un ulteriore gravissimo sforzo e lo stesso A., con iniziative che indubbiamente esulavano dai suoi poteri, intervenne personalmente a controllare le esazioni.
Risolto momentaneamente il problema della rivolta dei militari, rimaneva aperto quello gravissimo del contrasto di competenze tra il potere militare e quello civile, destinato inevitabilmente a rinnovarsi. Alla morte del Caracciolo, nel 1538, Carlo V decise di assommare nell'A. le due cariche di governatore dello Stato di Milano e di comandante dell'esercito d'Italia: provvedimento dettato dalla necessità di non far risorgere pericolosi contrasti tra i massimi esponenti della politica imperiale nell'Italia settentrionale, che tuttavia fu preso molto malvolentieri e con notevoli limitazioni dall'imperatore.
Significative sono in questo senso le istruzioni imperiali all'A. al momento della sua nomina a govematore, nelle quali è evidente l'intenzione di fare di lui un semplice esecutore con minime possibilità di iniziativa sul piano amministrativo. L'autorità dell'A. veniva limitata in un duplice modo: da una parte attribuendo intera alle magistrature milanesi la responsabilità dell'amministrazione giudiziaria e finanziaria, dall'altra riservando allo stesso imperatore la decisione nelle più varie questioni, anche di ordinaria amministrazione. Indirizzo della politica di Carlo V ribadito nelle Constitutiones dominii Mediolanensis, promulgate dall'imperatore durante il suo soggiorno a Milano nell'agosto 1541e riconfermato con i cosiddetti Ordini di Vormazia,con i quali Carlo V da Worms, il 6 ag. 1545, insistette nel raccomandare all'A. il rispetto delle funzioni dei magistrati milanesi. L'A. sentì queste limitazioni alla sua autorità (che pure furono una costante della politica di Carlo V nell'ambito dello Stato milanese), come un segno di scarsa fiducia personale e non mancò di fame continuo lamento a corte, provocando repliche piuttosto dure dell'imperatore.
In pratica, però, le necessità della guerra davano all'A. molta di quella autonomia che gli era teoricamente negata. Specialmente nel campo finanziario, per il pressante bisogno di denaro e la corrispondente insufficienza dei redditi ordinari dello Stato, l'A. finiva spesso per assumere iniziative che scavalcavano il Magistrato milanese, sfuggendo anche al controllo dell'imperatore lontano. Di qui contrasti continui con l'apparato burocratico dello Stato, in linea di diritto intoccabile nelle sue antiche prerogative, di fatto molto spesso esautorato dalle decisioni personali del governatore. D'altra parte, il governo dell'A. non ebbe mai l'energia che caratterizzò invece quello del suo successore, il Gonzaga, e sovente le magistrature milanesi finivano, creando ritardi d'ogni genere, per rendere inefficaci le misure disposte dal governatore.
I provvedimenti drastici, cui l'A. talvolta ricorse, per la loro occasionalità apparivano, ed erano, piuttosto segni di debolezza che di energia. Così, nel giugno 1538,dopo la stipulazione della pace di Nizza, avendo invano insistito per ottenere il denaro liquido necessario al pagamento degli arretrati alle truppe, l'A. decise improvvisamente di congedarle. I soldati, esasperati, si abbandonarono a terribili violenze, occuparono e misero a riscatto Vigevano e Gallarate e minacciarono la stessa Milano. Lo spavento fu tale che una taglia straordinaria di 100.000 scudi imposta dall'A. fu pagata senza le consuete esitazioni e resistenze; ma ne nacquero contro l'A. proteste a non finire che si moltiplicarono poi per tutto il periodo del suo governo. Lo stesso Carlo V ricevette in più occasioni accuse circostanziate contro l'amministrazione dell'A., sebbene questi facesse di tutto per impedire che le proteste giungessero a corte, togliendo, per esempio, nel 1541,la carica al tesoriere generale Tommaso Fornari, che aveva preparato un memoriale contro di lui, o mandando alla berlina, nel 1543,un fra' Urbano da Landriano, che aveva inviato una denuncia contro l'amministrazione al confessore dell'imperatore, Pedro de Soto. Le accuse erano effettivamente più che giustificate: non solo l'A., stretto dalla necessità, privava, secondo un rovinoso espediente del tempo, lo Stato delle sue entrate future svendendone le fonti più cospicue di reddito, sino a raggiungere nel 1546 l'enorme cifra di 800.000ducati di rendite vendute o impegnate, ma compiva gravissime irregolarità nella vendita degli uffici, che finivano nelle mani di funzionari inetti o disonesti, causa non ultima del dissesto dell'amministrazione, concedeva ad alcune delle più ricche famiglie dello Stato esenzioni ingiustificate dalle contribuzioni, e conduceva una vita fastosissima, con la moglie, Maria d'Aragona, nipote del re di Napoli Ferdinando, entrambi proteggendo artisti e letterati, come Tiziano, Pietro Aretino, che dedicò all'A. la Marfisa, l'Angelica e la Vita di Caterina, e Iacopo Nardi che gli offrì la sua traduzione di Tito Livio.
Perciò sin dal 1539 Carlo V inviò a Milano un suo autorevole rappresentante, Lope de Soria, con l'incarico di controllare l'operato dell'A., e successivamente altri commissari, le cui accuse non furono certamente meno pesanti di quelle dei privati. L'A. non mancò naturalmente di protestare per questo sindacato, che riteneva irrispettoso, ma con tanto poco successo che, recatosi nel 1546 a Madrid per giustificarsi con l'imperatore, fu rinviato bruscamente all'esame dei revisori dei conti e soltanto la morte poté sottrarlo alle accuse.
Questa severità colpì l'A. non soltanto nel suo orgoglio, ma nello stesso sentimento di personale devozione all'imperatore, che costituiva, oltre che l'unico vincolo con lo Stato, in un modo di sentire tipicamente feudale identificato tuttora col sovrano, anche "l'unica ragion morale" (Chabod, Lo stato di Milano nell'Impero di Carlo V)della sua vita: sentimento, questo, comune a tutta la nobiltà italiana passata al servizio spagnolo e radicatissimo nell'A., che alla fedeltà a Carlo V non venne mai meno. I sondaggi compiuti dall'A. nel marzo del 1540 con il residente veneziano per proporsi come capitano generale della Repubblica, nati dal timore di dover improvvisamente lasciare Milano, sul cui possesso, ai fini delle esigenze politico-strategiche spagnole in Italia, si andava molto discutendo in quel periodo alla corte di Madrid, non ebbero seguito; quella devozione era invece provata nei momenti di più urgente bisogno finanziario dalla pratica di impegnare o vendere i propri beni, feudi, argenteria e gli stessi gioielli della moglie, per anticipare i denari per il pagamento delle truppe o per altre urgenti necessità.
Ma la considerazione della corte per l'A. diminuì anche per gli insuccessi che a questo riservò la guerra con la Francia ripresa nel 1542. Se la ragione effettiva della rottura della tregua di Nizza da parte di Francesco I fu l'investitura del ducato di Milano concessa da Carlo V l'11 ott. 1540 al principe Filippo, l'occasione fu offerta proprio dall'A., che aveva fatto catturare e uccidere due ambasciatori del re di Francia, Antonio Rincon e Cesare Fregoso, mentre attraversavano lo Stato di Milano, per recarsi a Costantinopoli a trattare l'alleanza con Solimano II.
L'A. ottenne, alcuni importanti successi agli inizi della campagna, respingendo l'offensiva condotta in Piemonte da Claudio d'Annebaut e liberando Mondovì dai Francesi e Nizza dai Turchi nel 1543; ma mentre si proponeva di passare in Francia per sostenere l'avanzata inglese da Calais e l'attacco dalla Germania condotto con l'aiuto dei principi tedeschi, fu fermato a Ceresole Alba dal conte d'Enghien Francesco di Borbone: l'A. tentò di ripetere la medesima manovra della battaglia di Pavia, ma fu clamorosamente sconfitto, perdendo dodicimila uomini e tremila lasciandone prigionieri (14 apr. 1544). Tra le conseguenze militari di questa sconfitta l'A. riuscì a evitare le peggiori, giacché, se non riuscì a impedire che i Francesi occupassero il Monferrato, seppe, però, evitare la perdita di tutta la Lombardia, che per un momento era sembrata inevitabile, opponendosi validamente sia all'esercito francese sia a Piero Strozzi, che tentava di raggiungere Milano dalla Mirandola, sino a che la pace di Crépy (18 sett. 1544) tolse l'A. dalla difficile situazione.
Ma il prestigio militare dell'A. aveva ricevuto un colpo durissimo anche presso i suoi stessi soldati: perduto il favore dell'imperatore, fatto oggetto alle più gravi accuse da parte della popolazione dello Stato, sottoposto a una inchiesta amministrativa che giudicava un vero affronto, l'A. morì nella più grande amarezza a Vigevano il 31 marzo 1546.
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