Abstract
La questione delle autorizzazioni all’uso della forza è esaminata con specifico riferimento alla prassi del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite e del suo organo principale, il Consiglio di sicurezza. Oltre alla questione generale del loro fondamento giuridico alla luce della Carta ONU, sono considerati le varie tipologie di autorizzazioni all’uso della forza, i presupposti e le condizioni per la concessione di autorizzazioni da parte del Consiglio di sicurezza, gli effetti giuridici delle autorizzazioni, il controllo sulle azioni autorizzate e i relativi limiti. Infine, è valutato il ruolo delle organizzazioni regionali nella materia.
La possibilità di ammettere autorizzazioni all'uso della forza in diritto internazionale è subordinata alla duplice condizione dell’esistenza di un divieto per gli Stati di ricorrere alla violenza bellica e della presenza di un organo centralizzato incaricato di gestire le eccezioni al divieto. Ambedue le condizioni si trovano in linea di principio realizzate nella Carta ONU, la quale da un lato afferma il dovere per gli Stati di astenersi dall’uso della forza nelle loro relazioni internazionali (art. 2, § 4), dall’altro predispone un apparato (cd. sistema di sicurezza collettiva) facente capo al Consiglio di sicurezza (CdS), incaricato di «prendere efficaci misure collettive per prevenire minacce alla pace e reprimere atti di aggressione» (art. 1, § 1).
Le disposizioni centrali della Carta ONU riguardanti le competenze del CdS in materia di mantenimento e ristabilimento della pace e sicurezza internazionali si trovano nel capitolo VII e prevedono che l’organo possa decidere l’adozione sia di misure non armate, sia di misure implicanti l’uso della forza. Quest’ultima eventualità è disciplinata in particolare dall’art. 42 della Carta, secondo cui «Se il Consiglio di sicurezza ritiene che le misure [non implicanti l’uso della forza] previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri delle Nazioni Unite». La disposizione è basata su alcuni assunti precisi. In primo luogo essa ha a oggetto misure armate, di carattere coercitivo, miranti a mantenere/ristabilire la pace e tendenzialmente rivolte contro uno Stato o più Stati la cui condotta risulti minacciosa per la pace medesima. In secondo luogo, è il CdS ad essere il diretto gestore dell’azione armata, nella fase sia decisionale, sia operativa («esso può intraprendere … ogni azione che sia necessaria»). In questa prospettiva, gli artt. 43 ss. della Carta prevedevano una serie di passi preordinati alla messa a disposizione del CdS di forze armate provenienti dagli Stati membri, basati sulla conclusione di accordi tra il primo e i secondi. Senonché, per effetto della contrapposizione tra i paesi occidentali e socialisti sopravvenuta all’entrata in vigore della Carta, gli accordi per la messa a disposizione di truppe (da negoziarsi, secondo la lettera dell’art. 43, § 3, «al più presto possibile») non furono mai conclusi, con la conseguenza che il disegno della Carta per la gestione collettiva della forza armata è rimasto disatteso.
A fronte di ciò, la parte del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite concernente l’impiego centralizzato della forza armata si è sviluppata secondo due modalità alternative rispetto alla lettera dell’art. 42 della Carta e tra loro concorrenti, anche se soggette a occasionali sovrapposizioni. Una prima modalità, consolidatasi in particolare nel periodo della guerra fredda, va sotto il nome di peacekeeping delle Nazioni Unite e si svolge attraverso la costituzione di forze di mantenimento della pace, che vengono schierate caso per caso nel contesto di particolari conflitti armati, con funzioni di interposizione tra le parti coinvolte. Queste operazioni di mantenimento della pace (il cui modello di riferimento è costituito dalla UNEF I, forza cuscinetto creata ad iniziativa dell’Assemblea generale con la ris. 1000 (ES-I) del 5.11.1956) presentano quali caratteristiche essenziali la base consensuale (ovvero il fatto di essere schierate con il beneplacito dell’autorità sovrana nel cui ambito territoriale si trovano ad operare), l’imparzialità e una possibilità limitata di ricorso alla forza armata, circoscritta alla sola legittima difesa del personale della forza di pace. Date tali caratteristiche, manca alle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite la finalità coercitiva che contraddistingue le misure armate dell’art. 42 della Carta, e risulta difficile ravvisare in tale disposizione il loro fondamento giuridico.
Hanno invece finalità certamente coercitive, e perciò rispondenti alla logica dell’art. 42, le operazioni militari composte dai contingenti di Stati membri disponibili a parteciparvi, che vengono di volta in volta autorizzate dal CdS a utilizzare la forza armata per il raggiungimento di determinati obiettivi connessi al ristabilimento/mantenimento della pace. Tale soluzione, che trovò un remoto precedente in occasione della guerra in Corea del 1950 (cfr. infra, § 4), si è delineata nei suoi tratti essenziali negli anni novanta del secolo scorso in occasione dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, quando il CdS con la ris. 678 (1990) autorizzò gli Stati membri dell’ONU «to use all the necessary means» al fine di ottenere la liberazione del Kuwait e il ristabilimento della pace e sicurezza internazionali nell’area del Golfo persico. Il precedente dell’autorizzazione all’uso della forza, racchiusa nella formula di stile del «ricorso a tutti i mezzi necessari/tutte le misure necessarie», si è negli anni successivi consolidato nella prassi del CdS, per divenire il modello di riferimento delle azioni di peace enforcement delle Nazioni Unite.
L’autorizzazione all’uso della forza si allontana, pur condividendone il carattere coercitivo, dai dettami degli artt. 42 ss. della Carta ONU, per rispondere alla logica della delega. Infatti, solo la iniziale valutazione delle condizioni per la concessione dell’autorizzazione è riservata al CdS, mentre la costituzione dell’operazione militare, la sua gestione e il suo concreto svolgimento – fatte salve alcune modalità di controllo più o meno formale da parte del CdS (infra, § 5) – sono rimesse agli Stati membri disponibili ad accogliere l’autorizzazione stessa (c.d. coalitions of the willing). Ciò pone il problema della compatibilità di tale soluzione con il modello centralizzato di gestione della forza armata delineato nel capitolo VII della Carta. Secondo una prima opinione, le autorizzazioni all’uso della forza sarebbero un legittimo adattamento delle disposizioni della Carta ONU relative alla sicurezza collettiva, sostenibile alla luce di un’interpretazione teleologica, volta a privilegiare l’effetto utile di tali disposizioni sia pur in mancanza di tutte le condizioni previste nella stessa Carta per il funzionamento del sistema centralizzato di gestione della forza (cfr. il parere consultivo 20.7.1962 su Certe spese delle Nazioni Unite, ove la Corte internazionale di giustizia – CIG – aveva escluso che la mancata conclusione degli accordi previsti all’art. 43 della Carta fosse di ostacolo al finanziamento di misure assunte dall’Organizzazione nel campo del mantenimento della pace: in ICJ Reports, 1962, 167). Un’altra opinione sottolinea come il meccanismo delle autorizzazioni all’uso della forza non sarebbe estraneo alla logica della Carta ONU, giacché questa già la contempla all’art. 53 con riferimento alle azioni coercitive intraprese da organizzazioni regionali, che richiedono di essere espressamente autorizzate dal CdS (infra, § 6). Secondo altra posizione, l’autorizzazione all’uso della forza potrebbe giustificarsi alla luce della contiguità con il diritto di legittima difesa collettiva previsto dall’art. 51 della Carta ONU: potendo la legittima difesa esercitarsi collettivamente laddove lo Stato vittima di attacco armato richieda l’assistenza di Stati terzi, non molto diversa sarebbe la situazione in cui, a fronte di un’aggressione, fosse il CdS ad autorizzare la costituzione di una coalizione di Stati a supporto della vittima. Altre ricostruzioni fanno leva sul dato numericamente cospicuo delle delibere autorizzative all’uso della forza adottate dal CdS e sulla circostanza che esse sono accettate senza obiezioni significative da parte degli Stati membri dell’ONU, per sottolineare l’esistenza di una “prassi successiva” idonea dar vita ad un’interpretazione “adeguatrice” degli artt. 42 ss. della Carta, se non di una vera e propria norma non scritta in materia di autorizzazione all’uso della forza sovrappostasi alle medesime disposizioni. Secondo una ulteriore variante, poi, la prassi delle autorizzazioni all’uso della forza andrebbe inquadrata alla luce del diritto internazionale generale “esterno” alla Carta ONU, il quale ammetterebbe la liceità di interventi armati condotti da gruppi di Stati agenti uti universi a tutela di valori fondamentali e condivisi della comunità internazionale.
Quale che sia la soluzione preferita, è il caso di evidenziare che la prassi delle autorizzazioni all’uso della forza, lungi dal rispondere ad uno schema uniforme, presenta una pluralità di varianti, rispondenti a modalità, esigenze, finalità e, in ultima analisi, tipologie, assai diverse tra loro. Vi sono casi rimasti isolati, come quello dell’autorizzazione ad usare tutti i mezzi necessari per liberare il Kuwait dall’occupazione militare irachena data con la citata ris. 678 (1990), che per dimensioni e modalità dell’intervento armato paiono effettivamente avvicinarsi alla logica della legittima difesa collettiva. In altri casi l’autorizzazione all’uso della forza data dal CdS si è innestata su interventi armati già sostenuti dal consenso del sovrano territoriale (come nel caso della missione Alba avallata dalla ris. 1114 (1997)), oppure ha rafforzato il consenso fornito da autorità territoriali mancanti di piena effettività (come nel caso delle operazioni armate in chiave di lotta alla pirateria autorizzate nelle acque territoriali e nel territorio della Somalia con le ris. 1816 (2008) e 1851 (2008)). In tali ipotesi, la delibera autorizzativa del Consiglio di sicurezza ha fornito un ulteriore supporto di legittimità a operazioni armate già giustificabili in base a istituti del diritto internazionale generale e ha dato luogo, nei vari casi di specie, a una sorta di “cumulo” di giustificazioni giuridiche. In altri casi ancora, l’autorizzazione ad “usare tutti i mezzi necessari” è servita a legittimare operazioni militari più complesse, concepite in chiave non esclusivamente coercitiva, ma inquadrate nel più ampio disegno di ristabilimento dell’ordine e della sicurezza in un contesto post-bellico o di radicale ricostruzione dello Stato: sono esempi di quest’ultima tipologia le ris. 1244 (1999) riguardante le presenze militari e civili KFOR e UNMIK in Kosovo, nonché la ris. 1386 (2001) riguardante l’operazione ISAF in Afghanistan. Vi sono poi interventi armati autorizzati dal CdS per la realizzazione di finalità marcatamente umanitarie, come quelli oggetto della ris. 794 (1992) concernente la fornitura di aiuti umanitari in Somalia oppure, quale più recente evoluzione di tale filone, della ris. 1973 (2011) che ha autorizzato il ricorso a tutti i mezzi necessari per la protezione della popolazione civile esposta alla violenza del conflitto armato in Libia. Né vanno dimenticate le fattispecie nelle quali le autorizzazioni all’uso della forza si innestano sulle più tradizionali operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, sovrapponendosi all’iniziale mandato non coercitivo della forza e trasformandola in quello che è stato denominato il cd. “peacekeeping robusto”. Oltre ad alcuni precedenti famosi in questo senso, quali ad esempio le modifiche in senso coercitivo del mandato della forza UNPROFOR nella ex-Iugoslavia o UNOSOM II in Somalia (cfr. rispettivamente le ris. 836 (1993) e 837 (1993)), un esempio recente e clamoroso è quello della creazione, con la ris. 2098 (2013), di una intervention brigade nel contesto dell’operazione MONUSCO nella Repubblica democratica del Congo, incaricata di specifici funzioni di intervento e deterrenza militare. Data la pluralità di obiettivi cui la concessione dell’autorizzazione all’uso della forza risponde in simili casi, la questione del relativo fondamento giuridico andrà valutata alla luce delle circostanze del caso di specie, più che con riferimento ad un astratto modello unitario.
Organo competente al rilascio dell’autorizzazione all’uso della forza è il CdS, in quanto incaricato, ai sensi dell’art. 24, § 1, della Carta ONU della «responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale». Trattandosi della gestione di misure armate di natura coercitiva, vige sicuramente in questa materia il limite posto dall’art. 11, § 2, alle prerogative dell’Assemblea generale (AG), la quale potrà discutere e fare raccomandazioni su materie relative al mantenimento della pace, ma dovrà in ogni caso deferire al CdS «qualsiasi questione del genere per cui si renda necessaria un’azione». Un tentativo di appropriarsi delle prerogative del Cds in materia di misure coercitive fu realizzato dall’AG con la ris. 377 (V) del 3.11.1950. La risoluzione, altresì nota come Uniting for Peace, oltre all’introduzione di una procedura di convocazione straordinaria d’urgenza dell’AG, prevedeva sul piano sostanziale la possibilità per la stessa Assemblea, in caso di inazione del CdS imputabile alla mancanza di unanimità tra i membri permanenti a fronte di una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di aggressione, di raccomandare agli Stati membri l’adozione di misure collettive, incluso quando necessario – ma limitatamente ai casi di violazione della pace e atto di aggressione – il ricorso alla forza armata (cfr. § A.1 della ris.). La soluzione prevista nella Uniting for Peace, fortemente contestata dal blocco dei paesi socialisti all’epoca della sua elaborazione, ha avuto solo sporadiche applicazioni nella prassi più risalente dell’AG (cfr. la già citata ris. dell’AG istitutiva dell’operazione UNEF I nel 1956) e non ha consolidato alcuna deroga alle competenze esclusive del CdS in materia di adozione di misure coercitive.
Poiché l’autorizzazione all’uso della forza rappresenta una modalità alternativa di applicazione dell’art. 42 della Carta, essa deve sottostare ai presupposti e alle condizioni generali stabiliti nel capitolo VII della Carta per le azioni coercitive del CdS. In particolare, ai sensi dell’art. 39 della Carta ONU, preliminarmente alla decisione concernente l’adozione delle misure degli artt. 41 e 42, il CdS deve accertare «l’esistenza di una minaccia alla pace, violazione della pace e atto di aggressione». Prassi e giurisprudenza confermano che, se nell’accertamento di questi presupposti il CdS gode di ampia discrezionalità, allo stesso tempo essi rappresentano una condizione ineludibile per la legalità delle azioni stesse. In nessun caso dunque la “delega” agli Stati membri dell’uso della forza potrà comprendere l’apprezzamento delle situazioni menzionate dall’art. 39, che dovranno sempre essere oggetto di espressa constatazione e deliberazione del CdS.
Considerazioni simili portano a escludere la legittimità degli argomenti facenti leva sulle autorizzazioni all’uso della forza cd. “implicite”, che singoli Stati o gruppi di Stati hanno talora invocato per giustificare azioni armate intraprese unilateralmente e senza l’avallo del CdS. Posto che il meccanismo dell’autorizzazione all’uso della forza si traduce in una alterazione del modello centralizzato previsto negli art. 42 ss. della Carta ONU, è essenziale che, oltre all’apprezzamento dei presupposti giustificanti il ricorso alla forza armata, anche la decisione autorizzativa che ne legittima lo svolgimento sia oggetto di espressa delibera del CdS. Non giuridicamente fondati appaiono quindi i precedenti nei quali singoli Stati hanno inteso trarre l’autorizzazione all’uso della forza da risoluzioni che contenevano il generico accertamento dell’esistenza di una minaccia alla pace, oppure hanno dedotto una copertura del CdS all’uso della forza da autorizzazioni rilasciate in precedenti risoluzioni risalenti nel tempo. Tra gli esempi pertinenti, si possono ricordare la giustificazione avanzata da alcuni Stati membri della NATO in occasione dell’intervento armato in Kosovo del 1999, secondo cui l’azione armata avrebbe avuto lo scopo di dare attuazione alle precedenti risoluzioni 1199 (1998) e 1203 (1998), ove il CdS qualificava come minacciosa per la pace la situazione ivi esistente e ne chiedeva la cessazione; oppure l’elaborato argomento messo a punto da Stati Uniti e Gran Bretagna per giustificare l’intervento armato contro l’Iraq nel 2003, secondo cui la mancata distruzione degli arsenali di armi proibite in possesso del governo iracheno avrebbe fatto rivivere l’autorizzazione all’uso della forza data dal CdS con la ris. 678 (1990) per ottenere la liberazione del Kuwait.
Una variante – ugualmente difficile da sostenere sul piano giuridico – delle autorizzazioni “implicite” è poi data dalla figura delle autorizzazioni “ex post”, rinvenibili nei casi in cui alcuni Stati cerchino di dedurre un avallo a loro interventi armati unilaterali dalla circostanza che questi non siano stati apertamente condannati dal CdS, oppure siano seguiti da risoluzioni con le quali l’organo prende atto della situazione creata dall’azione militare e cerca di gestirne gli effetti. Un esempio del primo tipo è dato dalla mancata approvazione da parte del CdS di un progetto di risoluzione nel quale si condannava l’intervento militare di dieci Stati membri della NATO in Kosovo del 1999 (UN doc. S/1999/328 del 26.03.1999); rientrano nella seconda casistica la ris. 1244 (1999) con la quale il CdS ha stabilito una presenza militare e civile internazionale in Kosovo all’indomani della fine dell’intervento armato degli Stati NATO, oppure le ris. 1483 (2003), 1511 (2003) e 1546 (2004) con le quali il Consiglio ha prima preso atto delle prerogative dell’autorità provvisoria stabilita in Iraq da Regno Unito e Stati Uniti in qualità di potenze occupanti, poi ha autorizzato la costituzione di una forza multinazionale a guida statunitense incaricata di contribuire al consolidamento dell’ordine in Iraq. Simili interventi paiono rispondere a situazioni di malfunzionamento del CDS, nei quali il silenzio dell’organo è dovuto all’impossibilità di trovare un accordo tra i suoi membri, oppure, e all’opposto, a tentativi miranti a stabilizzare una situazione post-conflittuale del tutto conformi alla funzione di mantenimento della pace dell’organo, ma in ogni caso non incidono direttamente sulla legittimazione dell’intervento armato che ne è a monte.
Dalla lettura combinata degli artt. 39, 42 e 48 della Carta ONU risulta che le misure implicanti l’uso della forza dovrebbero essere l’oggetto di decisioni vincolanti del CdS, con la conseguenza che il loro contenuto e la loro attuazione si imporrebbero agli Stati membri in virtù dell’art. 25 della stessa («I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità dalle disposizioni del presente Statuto»). Tale effetto obbligatorio non è altrettanto scontato per il meccanismo dell’autorizzazione, la cui funzione è più propriamente quella di rimuovere un limite giuridico ostativo ad una certa azione (il divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali) che di obbligare al compimento dell’azione stessa. A tale titolo, l’effetto giuridico delle autorizzazioni all’uso della forza è stato assimilato a quello delle raccomandazioni rivolte dagli organi ONU agli Stati membri, e in diverse occasioni si è avvicinata la prassi inaugurata con la ris. 678 (1990) relativa all’occupazione del Kuwait al precedente storico della guerra di Corea del 1950, quando il CdS raccomandò agli Stati membri di fornire assistenza militare alla Corea del Sud per respingere l’aggressione nordcoreana (cfr. le ris. 83 (1950) e 84 (1950)). L’accostamento allo strumento della raccomandazione non è però del tutto appagante. È vero che anche l’autorizzazione all’uso della forza lascia gli Stati membri dell’ONU liberi di scegliere se dare corso alla delega data dal Consiglio (cfr. ad esempio la ris. 1080 (1996), ove l’autorizzazione all’impiego di tutti i mezzi necessari per lo svolgimento di un’operazione umanitaria nella regione dei Grandi laghi e in Zaire restò senza seguito). Tuttavia, una volta che uno Stato o un gruppo di Stati abbiano deciso di dare esecuzione alla delega e far ricorso a tutti i “mezzi necessari” secondo l’autorizzazione del CdS, le loro azioni dovrebbero essere assistite dall’autorità associata alle decisioni dell’organo ONU. Il punto dell’assimilabilità delle autorizzazioni a vere e proprie “decisioni” è particolarmente rilevante sotto il profilo dell’art. 103 della Carta, che sancisce la priorità degli obblighi da questa derivanti su altri obblighi confliggenti dei membri delle Nazioni Unite e che, per tali effetti, è ritenuto pacificamente applicabile alle decisioni del CdS. Nel caso Al-Jedda, la House of Lords britannica ha dedotto dalle ris. 1511 (2003) e 1546 (2004), con le quali il CdS aveva autorizzato le forze della coalizione anglo-americana ad adottare tutte le misure necessarie per ripristinare la sicurezza in Iraq, un obbligo per gli Stati destinatari di trattenere in stato di detenzione straordinaria individui ritenuti pericolosi per la sicurezza nel territorio occupato, prevalente in virtù dell’art. 103 della Carta sugli impegni in materia di protezione della libertà personale posti in capo al Regno Unito dalla C. eur. dir. uomo (R - on the application of Al-Jedda v. Secretary of State for Defence, [2007] UKHL 58, 12.12.2007, §§ 30-39). La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel medesimo caso, ha smentito le conclusioni dei giudici britannici, affermando che con l’autorizzazione data nel caso di specie, il CdS non può aver inteso imporre agli Stati membri un obbligo di violare i principi fondamentali di tutela dei diritti umani e ha invece lasciato agli stessi un margine di libertà nella scelta di modalità attuative della delega compatibili con i suddetti principi (Al-Jedda c. The United Kingdom, n. 27021/08, 7.2.2011, §§ 101-110). L’enfasi risulta quindi correttamente spostata dall’effetto in sé astrattamente vincolante della risoluzione autorizzativa al contenuto delle misure adottate in base ad essa.
Perché l’istituto dell’autorizzazione mantenga una compatibilità con il sistema centralizzato di uso della forza concepito nella Carta, è essenziale che il CdS conservi un qualche grado di controllo rispetto alle azioni autorizzate. In primo luogo è necessario che il CdS indichi, nella relativa risoluzione autorizzativa, le finalità precise dell’intervento autorizzato e i suoi possibili limiti temporali, rispetto ai quali sarà valutata l’opportunità e l’adeguatezza delle misure adottate dagli Stati destinatari della delega. In secondo luogo, è importante che il Cds predisponga un sistema di controllo sullo svolgimento delle azioni autorizzate. La prassi offre a questo riguardo esempi variegati, che vanno da autorizzazioni all’uso della forza criticate per la vaghezza degli obiettivi e per le blande prerogative di controllo riservate al CdS, come nel caso della ris. 678 (1990) relativa all’occupazione del Kuwait, a fattispecie di autorizzazioni caratterizzate per una chiara definizione degli obiettivi e per la predisposizione di forme di controllo istituzionale più stringenti, come nell’ipotesi della ris. 794 (1992) relativa all’intervento per la distribuzione sicura di aiuti umanitari in Somalia.
La questione del controllo del CdS sull’azione autorizzata è altresì importante ai fini dell’attribuzione alle Nazioni Unite o agli Stati partecipanti all’operazione di eventuali atti illeciti commessi nel corso della stessa. Sul punto, la Corte europea dei diritti dell’uomo è giunta a conclusioni opposte in relazione alle operazioni autorizzate dal CdS in Kosovo e in Iraq. Nel primo caso la Corte ha ritenuto che le azioni del personale KFOR e UNMIK fossero imputabili all’ONU per effetto dell’ «ultimate authority and control» sullo svolgimento delle operazioni mantenuto dal CdS e garantito dalle previsioni della ris. 1244 (1999) (cfr. la decisione sull’ammissibilità del 2.5.2007, Behrami c. France e Saramati c. France, Germany and Norway, nn. 71412/01 e 78166/01, §§ 133-143). Nel secondo caso, di contro, la Corte ha ritenuto che le azioni delle forze militari britanniche partecipanti alla coalizione autorizzata all’uso di tutti i mezzi necessari per ripristinare la sicurezza in Iraq andassero attribuite al Regno Unito in considerazione dei termini ampli della delega concessa con la ris. 1546 (2004) e dell’assenza di un controllo effettivo da parte del CdS sul comando dell’operazione (cfr. la citata sentenza 7.7.2011, Al-Jedda c. United Kingdom, §§ 74-86).
È pacifico che la formula «all necessary means», ricorrente nelle risoluzioni autorizzative, copra il ricorso alla forza armata. Peraltro, l’ampiezza della formula include l’impiego di altre misure, meno invasive rispetto a operazioni militari di combattimento attivo, ma tuttavia strumentali al raggiungimento degli obiettivi indicati dal CdS. Ne sono esempi le misure di internamento e detenzione straordinaria di persone ritenute minacciose per la sicurezza, adottate in virtù della ris. 1546 (2004) dalle forze armate della coalizione anglo-americana autorizzata a ripristinare un ambiente sicuro in Iraq (cfr. il citato caso Al-Jedda). In ogni caso, l’adeguatezza e la liceità delle misure adottate dagli Stati agenti sulla base della delega del CdS sarà valutata secondo i principi di proporzionalità e necessità, a loro volta da misurarsi, oltre che in relazione agli obiettivi indicati nella risoluzione autorizzativa, anche alla luce delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario e di tutela dei diritti umani.
Il meccanismo dell’autorizzazione è espressamente contemplato nel capitolo VIII della Carta ONU, concernente le organizzazioni regionali. L’art. 53, § 1, prevede che «Il Consiglio di sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza…». La disposizione riguarda le due diverse ipotesi in cui sia il Consiglio di sicurezza a ricorrere a organizzazioni regionali per l’esecuzione di azioni da esso decise e in cui l’azione coercitiva sia autonomamente decisa dall’organizzazione regionale: è evidente che solo a questa seconda eventualità si applica la condizione dell’autorizzazione del CdS. In ogni caso, la decisione del CdS di ricorrere a un’organizzazione regionale o di autorizzarne l’azione coercitiva non pare idonea a risolvere il problema della competenza dell’organizzazione stessa a svolgere l’azione coercitiva in base al proprio diritto interno: le questioni poste, ad esempio, dalla legittimità di operazioni svolte dalla NATO fuori dall’area territoriale di competenza e con funzioni e finalità ultronee rispetto alle previsioni statutarie, quali il comando dell’operazione ISAF in Afghanistan avallata dalla ris. 1510 (2003) del CdS, oppure la partecipazione all’operazione armata con fini di protezione della popolazione civile in Libia autorizzata con la ris. 1973 (2011), andranno valutate alla stregua del Trattato di Washington del 1949 e dei successivi atti modificativi.
Dottrina e prassi prevalenti depongono nel senso che le “azioni coercitive” per le quali l’art. 53 della Carta richiede un’autorizzazione del CdS sono quelle implicanti l’uso della forza, mentre non sarebbero sottoposte a tale condizione le misure economiche o di altro tipo non implicanti la forza militare, oppure le operazioni regionali di mantenimento della pace a base consensuale e non coercitive, con caratteristiche analoghe al peacekeeping delle Nazioni Unite (supra, § 1).
Un problema particolare posto dalle azioni coercitive prese da organizzazioni regionali nasce dal fatto che, nella prassi, l’autorizzazione del CdS talora interviene posteriormente all’inizio e allo svolgimento dell’operazione, anziché contestualmente o anteriormente ad essa (cfr. ad esempio le ris. 788 (1992) e 813 (1993), con le quali il CdS avallava l’intervento armato già intrapreso in Liberia dalle forza ECOMOG, istituita dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). Tale prassi, che ha alimentato il dibattito circa l’ammissibilità delle autorizzazioni “ex post” del CdS (supra, § 3.1), parrebbe ammorbidire il rigore dell’art. 53 della Carta. In quest’ottica si segnala anche l’Atto costitutivo dell’Unione africana, che prevede il diritto di tale organizzazione di intervenire in uno Stato membro in gravi circostanze, quali crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, senza menzionare la necessità di una previa autorizzazione del CdS. A supporto di un minor rigore del requisito dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza nel caso di azioni coercitive di organizzazioni regionali si adduce la considerazione che tali azioni, per il fatto di essere decise e svolte in un ambito istituzionale, sarebbero meno esposte al rischio di abusi rispetto ad analoghe iniziative unilaterali intraprese da singoli Stati. L’argomento non appare decisivo, se si tiene conto della logica complessiva del sistema centralizzato di sicurezza collettiva dell’ONU e se si considerano le vivaci censure di legittimità, in particolare sotto il profilo della conformità all’art. 53 della Carta, che hanno accompagnato l’intervento armato svolto della NATO nel 1999 in Kosovo in assenza di autorizzazione del CdS. D’altra parte, la recente ris. 2033 (2012) con la quale il CdS sottolinea l’importanza di stabilire una «effective parnership» con il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana conformemente alle disposizioni del capitolo VIII della Carta, pare rilanciare la portata dell’art. 53 e del meccanismo dell’autorizzazione ivi previsto.
Artt. 42 ss. (capitolo VII) e 53 (capitolo VIII) Carta delle Nazioni Unite (San Francisco, 26 giugno 1945).
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