Autorita indipendenti. Autorita antitrust e rigetto delle proposte di impegni
Il Consiglio di Stato, in contrasto con le regole comunitarie e con i principi affermati sia dal giudice comunitario che dal giudice amministrativo nazionale di primo grado, dichiara l’inammissibilità del ricorso avverso il provvedimento con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato rigetta la proposta di «impegni» formulata, ex art. 14 ter l. 10.10.1990, n. 287, da un’impresa nei cui confronti era stata avviata l’istruttoria di cui all’art. 10 della stessa legge, preordinata all’accertamento a fini sanzionatori di comportamenti anticoncorrenziali, sul rilievo che si tratterebbe di atto endoprocedimentale, e non infraprocedimentale.
Con la sentenza della VI sezione 20.7.2011, n. 43931 il Consiglio di Stato ha preso per la prima volta posizione su una questione che da tempo ha impegnato la giurisprudenza sia del giudice comunitario che del giudice amministrativo nazionale di primo grado, e cioè se il provvedimento con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato rigetta la proposta di «impegni» – formulata, ex art. 14 ter l. 10.10.1990, n. 287, da un’impresa nei cui confronti era stata avviata l’istruttoria di cui all’art. 10 della stessa legge, preordinata all’accertamento a fini sanzionatori di comportamenti anticoncorrenziali – sia impugnabile dall’interessato immediatamente e in via autonoma ovvero solo con il provvedimento sanzionatorio che conclude il procedimento. In effetti la sentenza del giudice di appello merita una particolare segnalazione non solo per la soluzione, peraltro opinabile, come si dirà in seguito, data alla questione di rito, in contrasto con quella alla quale era pervenuto il giudice di primo grado (TAR Lazio, Roma, sez. I, 11.11.2010, n. 33474)2, ma anche e soprattutto per il contributo offerto alla definizione di quella, pregiudiziale rispetto alla prima, afferente la definizione dei rapporti intercorrenti, nella materia de qua, fra la normativa comunitaria e la normativa nazionale e fra la determinazione dell’Autorità che pronuncia, in senso positivo o negativo, sugli impegni che l’impresa indagata si offre di assumere nel caso che la sua proposta venga accolta, e quella che, sul presupposto del rigetto della stessa, conclude il procedimento con la comminatoria o non di una sanzione comportamentale o anche strutturale3. Di qui la necessità di ricostruire il quadro normativo, comunitario e nazionale, di riferimento, anche nella lettura che delle sue finalità e delle conseguenziali prescrizioni ha finora dato la giurisprudenza comunitaria e nazionale.
Parametro prioritario di riferimento, nella disamina della normativa in materia, è il Reg. CE 16.12.2002, n. 1/2003, concernente «l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato»4. Nei «considerando» 1-3 il normatore comunitario ha esplicitato le ragioni che l’hanno indotto ad adottare una nuova regolamentazione della concorrenza, in sostituzione del Reg. del Consiglio 6.2.1962, n. 17, a suo avviso non più capace, anche in ragione delle crescenti dimensioni del mercato comunitario, di garantire un equilibrio fra due obiettivi da esso ritenuti essenziali, e cioè creare le condizioni per consentire agli organismi competenti «di concentrarsi sulla repressione delle infrazioni più gravi» e, al tempo stesso, «semplificare, per quanto possibile, il controllo amministrativo», anche in ragione degli «ingenti costi che esso comporta per le imprese». Un altro intervento, indicato come essenziale ed urgente nel considerando 5, è quello finalizzato a garantire un’efficace applicazione delle regole comunitarie in tema di concorrenza e, nel contempo, il rispetto dei diritti fondamenti di difesa, obiettivo questo raggiungibile assegnando all’organismo competente e al terzo, che nel comportamento dell’impresa abbiano ravvisato un’infrazione alle prescrizioni dettate dai citati artt. 81 e 82, «l’onere di provare l’esistenza di tali infrazioni» e all’impresa, ritenuta responsabile delle stesse, di comprovare che le regole, dettate a tutela del diritto di difesa, nei suoi riguardi non sono state rispettate. Per quanto attiene ai poteri da riconoscere agli organismi competenti si afferma (considerando 11) che ad essi deve essere assicurata la possibilità di intervenire non solo in presenza di un’infrazione in atto ma anche, «ove sussista un legittimo interesse», per constatare infrazioni già cessate e non più sanzionabili. Sempre con riferimento a detti poteri si precisa (considerando 12) che gli organismi devono essere autorizzati ad imporre qualsiasi rimedio, comportamentale o strutturale, che sia necessario a far cessare effettivamente l’infrazione, ma nel rispetto del principio di proporzionalità. Di conseguenza i rimedi strutturali dovrebbero essere imposti solo quando non esiste un rimedio comportamentale parimenti efficace o quando un rimedio comportamentale parimenti efficace risulterebbe più oneroso, per l’impresa interessata, di quello strutturale. Ma indubbiamente l’innovazione più importante, introdotta per la prima volta nel sistema normativo comunitario dal nuovo Regolamento, è quella anticipata nel considerando 13 e riguarda gli «impegni» che l’impresa, sospettata di infrazione, si offre di assumere nel corso del procedimento intentato nei suoi confronti e che potrebbe concludersi con una sanzione a suo carico. Si tratta di un nuovo meccanismo introdotto dal regolamento per ragioni di economia processuale e volto a garantire un’efficace applicazione delle norme sulla concorrenza previste dal Trattato CE mediante decisioni che rendono obbligatori gli impegni proposti dall’impresa interessata e giudicati appropriati dall’Autorità, al fine di fornire una soluzione più rapida ai problemi di concorrenza da essa identificati, invece di avviare l’iter per la constatazione di un’infrazione. Consente alle imprese di prendere parte al procedimento, proponendo le soluzioni che esse ritengono più appropriate e adeguate per rispondere alle preoccupazioni dell’Autorità. Questa, una volta ricevuta la proposta, è libera di accettarla o non, ma se ritiene che essa è tale da fugare tutte «le sue preoccupazioni», con una «decisione» rende detti impegni obbligatori per l’impresa interessata e nel contempo dichiara che il suo intervento non è più giustificato, che il procedimento non ha più ragione di continuare e che non c’è più necessità di assumere determinazioni in ordine alla sussistenza dell’infrazione che ne aveva determinato l’apertura. In effetti il testo non dà indicazioni particolarmente utili rispetto ai diversi problemi interpretativi che esso ingenera, ma un efficace contributo chiarificatore, quanto meno rispetto ai contrasti esistenti nella giurisprudenza nazionale, di cui si dirà in seguito, è quello offerto dall’art. 9 del Regolamento che ne recepisce le indicazioni. Esso, mentre conferma che il consenso dell’Autorità deve essere espresso con una «decisione», cioè con l’atto che anche secondo la normativa comunitaria conclude il procedimento amministrativo, aggiunge che l’Autorità competente può «riaprirlo» al verificarsi di determinate circostanze. Dà cioè per acquisito che la proposta dell’impresa ha dato vita, nell’ambito del procedimento attivato a fini accertativi ed eventualmente sanzionatori, ad un sub procedimento che, ove attivato, ha un oggetto specifico, implica una valutazione alla quale è estraneo un giudizio sull’esistenza e sulla gravità dell’infrazione ed è sempre destinato a concludersi con una «decisione», non importa se di accettazione o di rifiuto della proposta.
2.1 La giurisprudenza del giudice comunitario
Un primo contributo chiarificatore della normativa comunitaria, ma di assoluto rilievo per compiutezza d’indagine e rigore argomentativo, è quello offerto dal Tribunale di primo grado della CE con la sent. 11.7.2007, in causa T 170/065. La sentenza, ancorché annullata in appello, ma con motivazione prevalentemente in fatto (C.giust. CE, 29.6.2010, in causa C- 441/07 P)6, enuncia principi che è utile richiamare, seppure nei loro tratti essenziali. E cioè:
a) con la sua «decisione» l’Autorità competente può rendere obbligatori gli impegni offerti dalle imprese interessate, quando sono tali da rispondere alle preoccupazioni espresse nella sua «valutazione preliminare»; peraltro, poiché le offerte presentate dalle imprese sono di per sé prive di effetti giuridici vincolanti, è solo la «decisione» da essa adottata ai sensi dell’art. 9 Reg. n. 1/2003 a comportare conseguenze giuridiche per le imprese. Inoltre detta decisione, poiché comporta la conclusione del procedimento di accertamento e di sanzione di un’infrazione alle norme sulla concorrenza, non può essere considerata semplice accettazione da parte dell’Autorità di una proposta liberamente formulata dalla controparte in sede di negoziato, ma costituisce un «provvedimento vincolante» che pone fine ad una situazione di infrazione in atto o in potenza, in occasione della quale essa esercita le prerogative conferitele dagli artt. 81 e 82 del Trattato CE, con la sola particolarità che la presentazione di offerte di impegni da parte delle imprese interessate l’esonera dalla prosecuzione del procedimento imposto dal successivo art. 85, e in particolare dall’obbligo di provare l’infrazione;
b) anche se il Reg. n. 1/2003 non dà la definizione di «impresa interessata» alla presentazione della proposta di impegni, tale qualifica spetta solo a quella alla quale è addebitabile il comportamento anticoncorrenziale e che per questa ragione è passibile di sanzioni;
c) per quanto riguarda la durata dell’applicazione della decisione che rende obbligatori gli impegni, sebbene l’art. 9, n. 1, del Regolamento preveda che una decisione del genere può essere adottata per una durata determinata, tuttavia non lo impone; al tempo stesso nulla vieta all’Autorità di rendere obbligatori impegni per un tempo indeterminato;
d) l’obiettivo dell’art. 7, n. 1, del Regolamento è lo stesso di quello perseguito dall’art. 9, n. 1, e cioè garantire un’efficace applicazione delle regole di concorrenza previste dal Trattato. Per il suo raggiungimento l’Autorità dispone di un margine di valutazione discrezionale nella scelta fra rendere obbligatori gli impegni proposti dall’impresa interessata, adottando una decisione ai sensi dell’art. 9, ovvero seguire la via prevista dal precedente art. 7, n. 1, che esige l’accertamento di un’infrazione. Tuttavia l’esistenza di tale margine di valutazione discrezionale circa la scelta della via da seguire non l’esonera dall’obbligo di rispettare il principio di proporzionalità quando decide di rendere obbligatori impegni offerti ai sensi del cit. art. 9. In secondo luogo il principio di proporzionalità esige che la determinazione adottata non vada oltre quanto è idoneo e necessario per conseguire lo scopo prefissato, con la conseguenza che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva, evitando che gli oneri imposti siano sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti7;
e) in sede di applicazione dell’art. 9, n. 1, l’Autorità non è tenuta a comprovare l’esistenza di un’infrazione, ma è invece obbligata a dimostrare che le sue preoccupazioni sono effettive e le consentono di imporre all’impresa interessata di rispettare taluni impegni, purché essi non siano rapportati alla gravità di un’infrazione che essa, di fatto, non sarebbe stata in grado di comprovare nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 7, n.1;
f) la volontarietà degli impegni proposti dall’impresa non esonera l’Autorità dal rispetto del principio di proporzionalità, poiché è la sua decisione che li rende obbligatori. Segue da ciò che il fatto che un’impresa ritenga, in un certo momento e per ragioni sue proprie, di presentare taluni impegni non significa che essi siano, per ciò stesso, necessari, atteso che il suddetto principio di proporzionalità esige che la decisione non ecceda i limiti di quanto necessario per il conseguimento dello scopo prefissato, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva;
g) l’Autorità non è tenuta ad esplicitare le ragioni per le quali gli impegni proposti dall’impresa non le sembrano idonei ad essere resi obbligatori in modo da concludere il procedimento. Tuttavia, il rispetto del principio di proporzionalità esige che essa, qualora esistano misure meno restrittive di quelle che prevede di rendere obbligatorie, esamini la loro idoneità a rispondere alle preoccupazioni che giustificano la sua azione;
h) l’Autorità non deve sostituirsi alle parti per modificare gli impegni che esse propongono, ma nulla le impedisce di rendere obbligatori solo in parte o in una misura determinata gli impegni proposti;
i) la stessa Autorità, dopo aver ricevuto le osservazioni dei terzi, che si ritengono danneggiati dai comportamenti anticoncorrenziali dell’impresa proponente, può legittimamente ritenere che gli impegni da questa prospettati non rispondono alle preoccupazioni che sono emerse in sede di valutazione preliminare, poiché lo scopo della consultazione dei terzi, prevista dall’art. 27, n. 4, del Regolamento, è proprio quello di consentirle di adottare una decisione idonea a rispondere ai problemi in materia di concorrenza emersi nei singoli casi al suo esame. Tuttavia il rispetto del diritto al contraddittorio esige innanzi tutto che l’impresa proponente sia informata degli elementi essenziali di fatto sui quali l’Autorità si è basata per escludere l’idoneità degli impegni proposti o per esigerne di nuovi impegni e, in secondo luogo, che essa possa esprimersi a tal riguardo. Con la sent. n. 441/2010, la C.giust.CE, chiamata a pronunciare sull’appello proposto avverso la sentenza innanzi esaminata, ha dichiarato di concordare in linea di massima sui principi da essa affermati, e cioè che: a) l’Autorità competente dispone di un ampio margine di discrezionalità nell’accettare la proposta di impegni, rendendola obbligatoria anche per un arco temporale limitato, o nel respingerla, ma non può imporre alla proponente l’assunzione di impegni ulteriori rispetto a quelli da essa indicati; b) la valutazione che l’Autorità svolge in ordine agli impegni è «preliminare» e, quindi, autonoma rispetto a quella che ha ad oggetto i comportamenti anticoncorrenziali imputati all’impresa proponente e che hanno determinato l’istruttoria finalizzata alla verifica dell’esistenza dei presupposti previsti dagli artt. 81 e 82 del Trattato per un eventuale intervento sanzionatorio; c) l’impresa terza, che si ritenga lesa dalla «decisione» favorevole adottata dall’Autorità ex art. 9 sulla proposta, può ricorrere all’Autorità giudiziaria competente, ma in questo caso, a tutela del contraddittorio, l’impresa proponente ha diritto ad un’informazione «non sommaria » in ordine alle conclusioni che detta Autorità intende trarre dalle osservazioni dell’impresa terza. Ha invece espresso il suo dissenso rispetto all’ampiezza che il giudice di primo grado ha assegnato, nel procedimento ex art. 9, al principio di proporzionalità, nel senso che esso comporta per l’Autorità garante obblighi identici sia per le decisioni prese ex art. 7 che per quelle adottate ex art. 9. Pur convenendo sul fatto che si tratta di un principio generale del diritto dell’Unione e parametro per valutare la legittimità di qualsiasi atto di rilevanza comunitaria, incluse le decisioni dell’Autorità garante della concorrenza, ha osservato che le caratteristiche dei meccanismi previsti negli artt. 7 e 9 del Regolamento sono diversi, il che implica che l’obbligo di garantire il rispetto del principio di proporzionalità ha una portata e un contenuto diversi a seconda che sia considerato nel contesto dell’uno o dell’altro di tali articoli. L’art. 7 del Regolamento indica espressamente la portata del principio di proporzionalità nelle situazioni che rientrano nel suo ambito di applicazione, nel senso che l’Autorità garante può imporre alle imprese interessate l’adozione di tutti i rimedi strutturali o comportamentali purché siano proporzionati all’infrazione commessa e necessari a farla cessare. Invece, l’art. 9 prevede unicamente che l’Autorità garante è dispensata dall’obbligo di accertare e qualificare e il suo ruolo si limita al controllo, e all’eventuale accettazione, degli impegni proposti dalle imprese interessate, alla luce dei problemi che essa ha identificato nella sua valutazione preliminare e in considerazione degli scopi che essa persegue. Di conseguenza, nel contesto dell’art. 9, l’attuazione del principio di proporzionalità si limita alla sola verifica che gli impegni di cui trattasi rispondano alle preoccupazioni che essa ha reso note all’impresa interessata.
2.2 La normativa nazionale
Il legislatore nazionale ha recepito le indicazioni emergenti dal Reg. n. 1/2003 con l’art. 14 ter (Impegni), l. n. 287/1990, recante Norme per la tutela della concorrenza e del mercato, aggiunto dall’art. 14 d.l. 4.7.2006, n. 223, nel testo modificato dalla legge di conversione 4.8. 2006, n. 248 e, quindi, entrato in vigore prima dell’intervento chiarificatore del giudice comunitario. Detta norma prevede (co. 1) che le imprese, alle quali sia stata notificata l’apertura di un’istruttoria per l’accertamento di violazione degli artt. 2 e 3 della stessa legge o degli artt. 81 e 82 del Trattato CE, possono nei tre mesi successivi presentare una proposta di impegni, tali da «far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell’istruttoria». L’Autorità è chiamata a valutare «l’idoneità» di detti impegni e, nel caso che il giudizio sia positivo, può, ma «nei limiti comunitari », renderli obbligatori e chiudere il procedimento senza accertare l’infrazione. Detto procedimento può peraltro essere riaperto d’ufficio se medio tempore si sia modificata la situazione di fatto assunta a base della «decisione», ovvero se questa si fonda su informazioni della proponente rivelatesi incomplete, inesatte o fuorvianti, ovvero ancora se la proponente non abbia adempiuto agli impegni assunti, circostanza questa che legittima anche l’irrogazione di una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato. Limitatamente al co. 1, il testo della norma è talmente carente da spiegare il perché dei contrasti che hanno diviso la giurisprudenza non solo sul significato da dare alle locuzioni in esso contenute, ma anche sulle strade da percorrere per completare, rimanendo sul piano interpretativo, i vuoti e le ambiguità che esso presenta. Si pensi soltanto alla prescrizione, imposta all’Autorità, di procedere alla valutazione della proposta «nei limiti comunitari », che il legislatore nazionale evidentemente non è stato in grado di enucleare e richiamare con riferimento alla specifica materia che era chiamato a regolamentare, con il conseguente affidamento all’Autorità di vigilanza del compito di completare una disciplina che fosse recettiva delle regole comunitarie, ma da individuarsi ad opera della stessa. Di qui la conferma della necessità, per l’interprete, di far riferimento ai principi enunciati dal giudice comunitario. Il co. 3 non pone invece particolari problema perché ripropone il testo letterale dell’art. 9, co. 2, Reg. CE.
2.3 La giurisprudenza del giudice amministrativo di primo grado
Fra le sentenze emesse dal giudice amministrativo di primo grado8 una particolare segnalazione merita quella del TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 33474/2010, anche se annullata dal giudice di appello con motivazioni opinabili, come si chiarirà di seguito. Il Tribunale ha innanzi tutto respinto l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Amministrazione resistente, per la quale la determinazione di rigetto assunta ex art. 14 ter cit. l. n. 287/1990, avrebbe carattere endoprocedimentale e, come tale, sarebbe impugnabile solo con l’atto che definisce detta procedura, irrogando eventualmente una sanzione. A riprova dell’immediata impugnabilità del rifiuto dell’Autorità ha osservato che l’accettazione degli impegni determina la chiusura del procedimento di accertamento e, di conseguenza, evita l’applicazione di sanzioni a fronte dell’accertata portata anticoncorrenziale della condotta oggetto d’indagine. Ha aggiunto che la riconosciuta immediata impugnabilità, da parte di soggetti terzi titolari di una posizione differenziata e qualificata, dell’atto di accettazione della proposta, comporta per ragioni logiche l’estensione di tale possibilità anche all’impresa presentatrice di un’offerta rifiutata. Quanto all’applicazione del principio di proporzionalità anche al procedimento preordinato alla disamina della proposta di impegni, il Tribunale ha aderito ai principi affermati dal giudice comunitario di primo grado, osservando che, a fronte del ravvisato profilo di criticità degli impegni proposti dall’impresa, l’Autorità era tenuta a sollecitarla a fornire dettagliati e adeguati elementi valutativi della proposta.
Nel pronunciare sull’appello proposto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato avverso la sentenza del TAR Lazio, di cui si è detto nel par. che precede, il Consiglio di Stato ha concluso per l’inammissibilità del ricorso sotto un duplice profilo: il rifiuto di accettazione della proposta di impegni è un atto endoprocedimentale che, al pari di quello di avvio del procedimento, è impugnabile solo unitamente all’atto che conclude il procedimento istruttorio di accertamento dell’infrazione; manca l’interesse a ricorrere perché nessun definitivo pregiudizio il ricorrente riceve dal suddetto diniego, atteso che nulla gli impedisce di proporre le relative doglianze in sede d’impugnazione del provvedimento sanzionatorio che dovesse essere eventualmente adottato dall’Autorità a conclusione del procedimento istruttorio. A supporto di tale conclusione il giudice di appello adduce una serie di argomentazioni, che vanno esaminate distintamente onde verificarne non solo la fondatezza ma anche, e prioritariamente, la pertinenza al fine del decidere. A quest’ultimo riguardo non è chiaro il ripetuto richiamo in sentenza alla «logica di legale collaborazione» che, secondo gli intendimenti del legislatore nazionale, dovrebbe ispirare il comportamento delle parti nella fase preliminare di «interlocuzione finalizzata alla ricerca di soluzioni condivise», atteso che nel caso in esame questo risultato non è stato raggiunto e non sono individuati né contestati comportamenti scorretti imputabili ad una delle parti in causa. Né si comprende il rilievo che il giudice assegna, come punto centrale della decisione che è chiamato ad assumere, al fattore «morale» in sede di esame degli impegni ex art. 14 ter l. n. 287/1990, atteso che nessuna contestazione era stata mossa sotto questo profilo alla condotta dell’Autorità in sede di esame degli impegni. Venendo agli aspetti più propriamente giuridici è da disattendere l’affermazione del giudice di appello secondo cui l’esame della proposta costituirebbe una fase meramente endoprocedimentale del procedimento istruttorio, con conseguente applicazione, al fine del proponibilità del ricorso, di principi da tempo acquisiti nella giurisprudenza del giudice amministrativo. È agevole opporre che fase endoprocedimentale è quella preordinata all’acquisizione di materiale probatorio e funzionale alla determinazione che conclude il procedimento, all’interno del quale essa si colloca. Nel caso in esame si tratta, con palese evidenza, di una fase infraprocedimentale, che interrompe il corso del procedimento istruttorio, attivato d’ufficio, per procedere alla disamina di una questione del tutto diversa ed autonoma, e cioè non più l’accertamento dell’esistenza e della gravità dell’infrazione, ma l’idoneità della proposta a risolvere gli aspetti di criticità nella condotta del proponente. Si tratta, quindi, di un nuovo procedimento amministrativo, che interrompe quello istruttorio in atto, può condizionarne la sopravvivenza, è attivato non dall’Amministrazione ma dal privato, ha un oggetto specifico (la proposta d’impegni), implica valutazioni ovviamente diverse da quelle proprie del procedimento istruttorio, non è legato ad esso da alcun nesso funzionale e, come precisato nelle pagine che precedono, si conclude con una «decisione», che è l’atto tipico che conclude il procedimento amministrativo attivato su iniziativa del privato. Su queste problematiche esiste una giurisprudenza inequivoca del giudice comunitario di primo e di secondo grado, già richiamata, che s’impone al giudice nazionale e che nel caso in esame è in parte ignorata e in parte non correttamente interpretata. È anche non condivisibile, sempre in punto di diritto, l’affermazione del Consiglio di Stato secondo cui nessun pregiudizio subirebbe l’impresa proponente dalla declaratoria d’inammissibilità del ricorso avverso il diniego dell’Autorità di accettazione degli impegni che essa si dichiara pronta ad assumere, atteso che la sua illegittimità «si riverberebbe con effetto viziante » sul provvedimento sanzionatorio finale. Può opporsi che nel procedimento istruttorio l’Autorità, i cui poteri sono definiti per legge, ha un compito specifico, accertare cioè se l’infrazione effettivamente sussiste e quale è la sua gravità. L’intera attività istruttoria è strumentale e funzionale a detta verifica, con la conseguenza che è quanto meno dubbio che detta Autorità possa estendere il suo giudizio su fatti estranei al thema decidendum e utilizzare elementi istruttori acquisiti a ben altro fine. Problema, questo, che si pone con maggiore evidenza nel caso di rifiuto di disamina della proposta, quando cioè l’Autorità decidente è del tutto priva di elementi di conoscenza sull’utilità della proposta, da valutare anche sulla base di quelli forniti dal proponente, che nella sede competente si è rifiutata di esaminare, concludendo per il proseguimento del procedimento. D’altro canto – a prescindere dal fatto che è difficilmente ipotizzabile che l’Autorità, che ha espresso avviso negativo sulla proposta nella pregressa fase infraprocedimentale, riconosca di essere incorsa in errore nel momento in cui definisce il procedimento istruttorio (e non si tratta di questione di rilevanza solo statistica, come ritiene il giudice di appello), assumendo su di sé la conseguente responsabilità, anche di carattere patrimoniale – non è agevole comprendere perché, una volta che si riconosca all’Autorità tale potere correttivo, si dovrebbe negare all’interessato la possibilità di provocare immediatamente l’intervento correttivo del giudice. La tesi, che la sentenza svolge, potrebbe avere una qualche giustificazione ove diversi fossero i soggetti chiamati a valutare l’utilità della proposta e ad accertare l’esistenza dell’infrazione, ma diventa improponibile – anche per conflitto d’interessi ed incompatibilità di funzioni – quando il soggetto è lo stesso. L’ interesse del proponente ad un immediato esame in sede giurisdizionale del provvedimento negativo dell’Autorità assume evidenza anche sotto un altro profilo. L’interesse che egli coltiva è infatti impedire la riattivazione del procedimento istruttorio, chiedendo al giudice una pronuncia che annulli l’impugnato diniego e imponga all’Autorità, senza invadere spazi di assoluta discrezionalità tecnica ad essa riservati, regole alle quali essa dovrà conformarsi in sede di revisione della precedente determinazione, nel rispetto anche di quelle fissate dal normatore comunitario che, nel rivedere il precedente Regolamento, ha ritenuto di introdurre un nuovo meccanismo a suo avviso idoneo ad assicurare una soluzione più rapida ai problemi di concorrenza rispetto ai tempi del procedimento istruttorio, per dichiarate ragioni non solo di economia procedimentale, ma anche di contenimento della spesa per le imprese coinvolte. Infine non pertinente, con riferimento al caso in esame, è il principio che il giudice enuncia a conclusione del suo argomentare, e cioè che «il principio di autonomia processuale degli Stati membri comporta che, a fronte di posizioni giuridiche soggettive di matrice comunitaria, gli ordinamenti nazionali ben possono approntare strumenti di tutela differenziati a livello interno, a condizione che tali rimedi rispettino i principi di non discriminazione e di salvaguardia dell’effetto utile imposti dall’ordinamento UE». La parte iniziale della conclusione è incontestabile; la parte debole è nella seconda, atteso che ciò che forma oggetto del contendere è proprio l’inosservanza dei principi comunitari che impongono agli Stati membri un’organizzazione del sistema giudiziario improntata a regole di efficienza, tempestività e ragionevolezza; l’osservanza sul piano amministrativo del principio di proporzionalità, che implica l’obbligo per l’organo amministrativo di adottare provvedimenti adeguati all’obiettivo perseguito e che non comportino ingiustificati sacrifici per i loro destinatari; che vieta all’organo pubblico, che ha adottato una certa determinazione, di ripronunciare in altra sede sulla stessa; l’utilizzo dello strumento della proposta per impegni come strumento alternativo al procedimento istruttorio, e non sussidiario e residuale rispetto ad esso. Si tratta comunque di problemi che avrebbero potuto essere evitati se il giudice di appello non fosse incorso nell’errore di qualificare endoprocedimentale un atto di chiara natura infraprocedimentale, con le relative conseguenze.
Note
1 In www.giustizia-amministrativa.it.
2 In www.giustizia-amministrativa.it.
3 In effetti non possono considerarsi precedenti significativi nella giurisprudenza del Consiglio di Stato le sentenze della sez. VI 23.3.2009, n. 1190, in www.giustizia- amministrativa.it, e 19.11.2009, n. 7307, in www.giustizia- amministrativa.it, atteso che in esse la materia del contendere non è affrontata in modo diretto.
4 Ora artt. 101 e 102 TUE.
5 In Foro amm. – Cons. St. 2007, 7-8, 2003.
6 In Foro amm. – Cons. St. 2010, 6, 1158.
7 Sull’obbligo per l’Autorità antitrust di rispettare compiutamente il principio di proporzionalità TAR Lazio, Roma, sez. I, 7.4.2008, n. 2900, in www.giustiziaamministrativa. it.
8 In effetti il contributo offerto dai TAR alla soluzione delle problematiche innanzi esposte non è molto ampio e, tranne qualche eccezione, neppure particolarmente significativo. Sul fatto che l’accettazione degli impegni non produce alcun effetto di chiarimento della regola giuridica, che deriva invece dalle decisioni con le quali viene accertata la sussistenza e la consistenza di un’infrazione, nonché sulla possibilità per l’Autorità antitrust di rifiutare gli impegni nell’ipotesi di «manifesta scorrettezza e gravità della pratica commerciale», v. TAR Lazio, Roma, sez. I, 31.5.2011, n. 4909, in www.giustizia-amministrativa.it; sul fatto che, nel caso di comportamenti plurisoggettivi di medesima infrazione di regole comunitarie l’effetto preclusivo dell’accertamento conseguente all’accettazione delle proposte presentate da una sola delle imprese coinvolte non si estende a quelle che non hanno partecipato all’iniziativa, v. TAR Lazio, Roma, sez. I, 7.4.2008, n. 2900, in www.giustizia-amministrativa.it; sull’ammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto avverso il rigetto della proposta di impegni, v. TAR Lazio, Roma, sez. I, 29.12.2007, n. 14157, in www.giustizia-amministrativa. it.