autogestione
Governare la propria impresa o la propria scuola
Il termine autogestione nasce nel 20° secolo e deve la sua fortuna a due fenomeni: un particolare modello di economia socialista, realizzato nella ex Iugoslavia a partire dagli anni Cinquanta e incentrato sull'autogestione delle aziende da parte dei lavoratori, e le contestazioni studentesche sviluppatesi nei paesi occidentali dal 1968 in poi, che hanno spesso condotto all'autogestione di scuole e università
Nell'idea dell'autogestione agisce il principio tipicamente democratico dell'autogoverno, secondo il quale le decisioni che riguardano un determinato gruppo spettano a tutti i componenti di quel medesimo gruppo. I movimenti del Sessantotto sostenevano che il principio dell'autogestione doveva essere applicato non solo alla politica ‒ che gli individui dovevano fare in prima persona, partecipando direttamente alle assemblee senza farsi rappresentare da altri ‒ ma anche agli altri aspetti della vita sociale, come l'economia, la formazione, la cultura e così via.
Secondo questo modello, le decisioni sul futuro di un'azienda ‒ investimenti, spese, innovazione tecnologica ‒ non devono essere prese dai manager scelti dal proprietario (sia esso un privato o lo Stato), ma da tutti quelli che lavorano nell'azienda stessa. Se invece consideriamo una scuola o un'università, qui le decisioni strategiche ‒ i programmi e l'organizzazione dei corsi, le norme di comportamento, le modalità d'esame ‒ non devono essere prese dai docenti, ma da tutti coloro che studiano e lavorano in quella scuola o università. In sostanza, qualsiasi gruppo autogestito deve essere governato da un Consiglio o Assemblea dove siedono, con eguale diritto di voto, tutti coloro i quali fanno parte di quel gruppo, a prescindere dalle loro funzioni e quindi dalle loro competenze.
Questa generosa idea egualitaria si è però in genere scontrata con un formidabile ostacolo, cioè con il fatto che le decisioni di natura aziendale, scientifica o culturale richiedono elevate competenze, che soltanto pochi individui hanno il desiderio o la capacità di acquisire, e una conoscenza approfondita dei problemi da risolvere, che soltanto la specializzazione in un determinato lavoro può dare.
L'autogestione socialista, teorizzata negli anni Cinquanta dallo iugoslavo Milovan Djilas e realizzata nei successivi vent'anni, si presentava come una sorta di 'terza via' tra il socialismo di tipo sovietico, caratterizzato dal ruolo dominante dello Stato, e il capitalismo occidentale, incentrato sulla proprietà privata.
Secondo i teorici dell'autogestione, l'economia socialista non doveva essere integralmente pianificata e diretta dallo Stato, ma doveva lasciare alle singole imprese la possibilità di autogestirsi. In tal modo, il sistema economico avrebbe migliorato la sua produttività perché i lavoratori, chiamati a decidere sul futuro della loro impresa e a dividerne profitti e perdite, avrebbero trovato gli stimoli per produrre di più e meglio; allo stesso tempo, tale risultato non avrebbe cancellato la natura 'socialista' del sistema, giacché le imprese rimanevano di proprietà della società e non di singoli individui.
L'autogestione prevedeva che ogni impresa fosse governata da un'Assemblea generale dei lavoratori, che prendeva le decisioni strategiche, e da un Consiglio operaio, che gestiva la produzione e si serviva, come braccio operativo, di una Direzione composta da manager e tecnici.
Alla lunga il sistema dell'autogestione ‒ che destò interesse anche in Occidente, come alternativa al socialismo di stampo sovietico ‒ non si rivelò capace di fornire buoni risultati economici, sia perché i poteri locali continuarono a intervenire nella vita economica, sia perché la 'democratizzazione' dell'economia non fu accompagnata dalla 'democratizzazione' della politica, nella quale rimase il dominio del partito unico, il Partito comunista.