AURELI, Aurelio
Nacque a Murano nella prima metà del sec. XVII. Nel 1652 compose il primo dramma per musica, l'Erginda, inaugurando una prodigiosa carriera letteraria che si concluderà nel 1708, dopo la pubblicazione di oltre quaranta libretti d'opera.
Membro dell'Accademia degli Imperfetti coi nome di Indifferente, sollecitato per naturale ingegno ad aderire in maniera spontanea alle tendenze e agli interessi del gran pubblico borghese, l'attività dell'A. si inquadra immediatamente entro i limiti di gusto e di sensibilità che caratterizzarono a Venezia l'opera barocca della quale l'A. è pronto semmai a cogliere gli spunti più facili ed appariscenti, ad esasperare gli elementi più fastosi, sia che rinnovi con retorica magniloquenza motivi dedotti dalla mitologia classica (ne Le fortune di Rodope e Damira, Venezia 1657) sia che riproponga con pettegola e compiaciuta malizia storie sentimentali desunte dalla tradizione romanzesca italiana (nel Medoro, Venezia 1658).
Ovunque s'avverte nell'A. un'adesione più affettiva che critica alla materia delle proprie favole, ovvero un consenso spontaneo con quella critica (rappresentata da V. Noffi, da G. Castoreo, da G. Strozzi), che proprio a Venezia, nel clima fortemente imovatore che si scorge al fondo della più accesa esperienza barocca, auspicava un definitivo distacco del melodramma dalle norme della poetica aristotelica in nome dell'incondizionato favore del pubblico per l'opera musicale: solo che questo trapasso si svolge nell'A. non suffìcientemente sostenuto da una rigorosa concezione letteraria, e l'appassionata adesione al "capriccio bizzarro" del pubblico veneziano si attua per lo più nella creazione di forme affrettate e scomposte difficilmente giustificabili anche tenendo presente lo scadimento della poesia rispetto alla musica e alle esigenze della rappresentazione.
Nel 1659 l'A. si reca a Vienna (ove rappresenta La virtù guerriera). L'anno seguente è di nuovo a Venezia, come testimonia L'Antigona delusa da Alceste ivi rappresentata nel 1660, e in questa città l'A. fissa pressoché stabilmente la sua residenza fino al 1690. Risalgono a questo periodo le sue opere più fortunate: Gli amori infruttuosi di Pirro (1661), La Rosilena (1664), L'Artaxerse ovvero l'Ormonda costante (1669), L'Alessandro Magno in Sidone (1679), poi col titolo: La virtù sublimata dal grande, ovvero il Macedone continente (1683), L'Alcibiade (1680), Il Pompeo Magno in Cilicia (1681), Il Massimo Pupieno (1685), Amor spesso inganna (1689) e Circe abbandonata da Ulisse (1692), per le quali l'A. si valse della collaborazione di musicisti rinomati quali D. Freschi e C. Pallavicino, oltre al Rovettino, a P. A. Ziani, a G. Legrenzi.
Considerando la produzione di questo periodo si può anche ravvisare una certa linea evolutiva che conduce dalla trama ancora instabile e caotica de Le Fatiche d'Ercole per Deianira (1662) allo svolgimento più lineare e coerente dell'Orfeo (1673) o del Teseo fra le rivali (1685), il cui centro di interesse sembra definitivamente fissato nei ricercati dilemmi di una brillante casistica erotica. Ciò è possibile all'A. limitando (o per lo meno adattando al gusto di un ingegno meno sfrenato) gli atteggiamenti più enfatici e declamatori, rinunciando alle soluzioni più intricate e stravaganti, sfruttando infine con maggiore accortezza alcuni motivi già insiti nella prima opera veneziana: il conúco, per esempio, che non indugia più in scene ridicole e farsesche, ma interviene a mitigare certi effetti falsamente patetici e sottolinea la ricerca di un tono dimesso e pacato, di una moralità media e cantabile in cui si incontrano idealmente gli interessi del pubblico e le ambizioni dello scrittore. Nel rifacimento dell'Ercole in Tebe (1671) dall'originale di G.A. Moniglia l'esclusione del prologo e dei cori, la diminuzione del numero dei personaggi, la sostituzione delle ariette ai recitativi, certa brevità e scioltezza che s'avverte nell'azione grazie al minor rilievo concesso all'elemento mitologico, sembrano preludere alla riforma dello Zeno e del Metastasio; solo che queste innovazioni si svolgono per ora sulla base di una cultura incerta, e l'inadeguata coscienza artistica dell'A. non manca di rivelarsi nell'adozione di forme metriche insipide e bizzarre, nella scelta empirica di un linguaggio genericamente retorico.
Il favore degli Dei e La gloria d'amore, le due opere composte in collaborazione con B. Sabadini per celebrare le nozze del principe Odoardo II con Dorotea Sofia di Neoburgo (Parma 1690), sembrano comunque escludere ogni ricerca di semplicità e di compostezza formale di fronte allo sfarzo che esigeva la grandiosità della rappresentazione. "Solamente non posso tacervi - scriveva non senza malizia Francesco De Lemene - che in queste opere la pittura co, suoi colori e con l'architettura e prospettiva delle scene ha fatto miracoli. La musica... ha fatto gli ultimi sforzi. La povera poesia è stata miseramente di gran lunga al di sotto dell'altre due sorelle: vedete per amor di Dio che mostruosità! corpo sì bello, vestiti sì belli, e l'anima che è quella sola che sopravvive sì deforme" (C. Vignati, Francesco De Lemene e il suo epistolario inedito, in Arch. stor. lombardo, XIX [1892], p. 648). Nella prefazione al libretto del Favore degli Dei l'A. stesso scusava "la volgarità" del soggetto, avendo dovuto offrire materia agli architetti e moltiplicare i personaggi per non "lasciar oziosi i più rinomati cantanti d'Europa". Tuttavia affermava che due pregi avvaloravano l'opera sua: l'invenzione, nella quale a sua volontà col permesso del duca, si era sbizzarrito, e la disposizione della materia.
A Parma, dove l'A. fece rappresentare molte delle sue opere e legò il suo nome all'apertura del nuovo Teatro Ducale nel 1688, egli soggiornò sicuramente fino al 1693 (in quell'anno rappresentava La Talestri Innamorata d'Alessandro Magno), per concludere infine a Venezia una produzione ormai stanca e svogliata,se si eccettua il Diomede punito da Alcide (1700) e Il Prassitele in Gnido (1707),rispettivamente musicati daT. Albinoni e da G. Polani,che poco d'altronde aggiungono alle opere della più felice stagione. Nel 1708 furono rappresentati L'Igene, regina di Sparta, La pace fra Cesariani e Pompeiani e Il cieco geloso, rifacimento della Ninfa bizzarra. Non molto oltre questa data sembra potersi collocare la morte dell'Aureli. Nel '700 furono ancora rappresentati Amore e gelosia (Bologna 1729, 1731) e Le due rivali in Amore (Venezia 1728), tratto dall'Elena rapita da Paride (già rappresentata a Venezia nel 1677).
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