Agostino, Aurelio
In tutta l’opera di M., il nome di A. (Tagaste 354 - Ippona 430) compare solo nel frammento di traduzione della Historia persecutionis Africanae Provinciae del vescovo Vittore di Vita (→ Persecuzioni d’Africa). Certo disinteressato rispetto all’immenso corpus teologico-spirituale del padre della Chiesa, M. rivela comunque profonde, seppure nascoste, tracce di confronto con il De civitate Dei (da qui in poi DcD), «opera insigne che […] non rimase chiusa alla curiosità di M. che, al contrario, la lesse (almeno in parte) e, in alcuni suoi scritti, liberamente se ne servì» (Sasso 1987-1997, 3° vol., p. 144). Per M. il DcD non vale solo come serbatoio di materiali storici da vagliare oppure mediatore autorevolissimo di interpretazioni teologiche contro le quali occasionalmente polemizzare, ma soprattutto come radicale antitesi teologico-politica della propria eversiva prospettiva teorica, intenta a riscoprire nelle vicende di Roma un paradigma insuperato di intelligenza e governo dell’effettuale realtà politica, che afferma l’autonomia della storia degli uomini, ormai denudata di qualsiasi garanzia provvidenzialistica.
Capillarmente diffuso nello stesso ambiente culturale di M. (la fortuna editoriale dell’opera tra la metà del 15° e la metà del 16° secolo è impressionante: è il terzo incunabolo stampato in Italia, a Subiaco, da Sweynheim e Pannartz nel 1467), il DcD si staglia, infatti, come la massima riflessione cristiana di teologia politica della storia, dogmaticamente incentrata sul dualismo apocalittico, escatologico-carismatico tra natura peccaminosa e grazia indebita, naturale amor sui/contemptus Dei (il perverso desiderio identitario che governa ogni creatura) e soprannaturale amor Dei/contemptus sui (il desiderio inspirato dalla grazia negli eletti), ordine transeunte del mondo malvagio e nuovo regno di Dio. I due amores si dispiegano nella storia come antitetici principi d’aggregazione sociale, manifestandosi o nelle grandiose civiltà storico-politico-religiose (tutte figure della mistica civitas terrena, l’antidivina ‘bestia’ imperialistica di Daniele e dell’Apocalisse di Giovanni: cfr. DcD XX 14) o nell’unica autentica respublica divina, la civitas Dei fondata dalla grazia di Cristo, princeps/rex/imperator eterno, crocifisso nel mondo, risorto per fuoriuscirne. La dualistica opposizione tra le due civitates le connette, comunque, nel rapporto tra archetipo divino e deformazione idolatrica, sicché la civitas terrena (Roma stessa nel suo ambire ‘virtuoso’ alla gloriosa potenza universale) rivela, sub contraria specie, la perfezione trascendente della civitas coelestis, la comunità degli eletti costituita dalla grazia.
La teoria politica di M. pare assumere particolari coerenza e compattezza proprio nel suo configurarsi come neutralizzazione sistematica dell’opposizione dualistica agostiniana tra teologia politica romana e teologia politica cristiana, tramite il parodistico riassorbimento di questa in quella, sicché la civitas terrena, di cui Roma è ‘incarnazione’ insuperata, è l’archetipo reale di cui la civitas Dei diviene ombra evanescente. In M.: a) il sacrale, il religioso torna a essere funzione del politico terreno, perdendo qualsiasi rapporto con l’eccedenza escatologica e carismatica del teologico cristiano; b) la nozione di capo, re, principe, messia persino, viene ricontestualizzata nel suo originario ambito storico-politico, effettuale, necessariamente violento e, nei casi estremi, disumano (bestiale), al punto che la stessa nozione biblica di messia/profeta viene rigiudaizzata (Cristo diviene typos di David/Mosè, analoghi di Romolo e del «principe nuovo»), seppure estromettendone qualsiasi implicazione trascendente; c) il cristianesimo, interpretato a partire da una rilettura polemica di DcD XIX come religione dell’ozio, può infine essere restituito nella sua mera dimensione di setta storico-politica, effettuale e transeunte di «republica», quindi secolarizzato, tolto dalla sua astratta, eterna dimensione escatologica di civitas coelestis e assoggettata all’insuperato, eppure ormai morto archetipo storico di ogni civitas politica: Roma; d) le virtù dei Romani, feroci nel loro archetipico fondarsi e ricapitolativo rigenerarsi nell’omicidio (anche di fratelli, genitori, figli, di sé stessi), quindi nella guerra civile e imperialistica come naturale espansione del desiderio di libertà e di gloria, sono tali proprio perché capaci di liberarsi da qualsiasi censura teologica e morale, che pretenda di condizionarne la pura valenza politica, cioè l’ineguagliata capacità di costruzione di unificazione sociale, ordine e potenza secolare: sicché nella libido dominandi si rivela il circolo vizioso che congiunge virtù e corruzione, gloria e violenza, libertà e tirannia, sacrale identità e fratricidio.
Senza la poderosa reductio distruttiva dell’antichità classica e romana di A., dichiarata irriducibile alla trascendenza escatologica e donativa della civitas Dei, M. non avrebbe forse potuto riconfigurare con tale straordinaria radicalità di analisi la tremenda, secolarizzata autonomia del politico rispetto a qualsiasi ipoteca teologico-cristiana, che in un rigurgito apocalittico non potrà non continuare ad additarne, con A., la natura ‘demoniaca’ (cfr. Sternberger 1978).
Il punto capitale che rivela il rovesciamento machiavelliano della disdetta agostiniana del politico secolare è senza dubbio l’impavida giustificazione del fratricidio di Romolo, argomentata in Discorsi I ix 19: «Conchiudo come a ordinare una republica è necessario essere solo; e Romolo per la morte di Remo e di Tito Tazio meritare iscusa e non biasimo» (cfr. I xviii 30). Tra i «molti» che M. definisce scandalizzati dal «cattivo esemplo» di «uno fondatore d’un vivere civile» omicida del «fratello», quindi del «compagno nel regno» (I ix 3), si conta certo A. (cfr. Wolin 1960, trad. it. 1996, pp. 302-03; Prezzolini 1971, poi 2004, pp. 21 e 47; Reale 1985, pp. 51-57; Sasso 1987-1997, 1° vol., pp. 154-58).
Questi aveva per primo attribuito a Romolo non solo la diretta uccisione di Remo (con Cicerone, De officiis III x, 40-42, mentre Livio mette in secondo piano la versione del fratricidio), ma anche (a differenza di Livio e con M.) quella di Tito Tazio, denunciando in radice l’origine cainitica di Roma (cfr. DcD XV 5), replicata nell’uccisione del socius: ut maior deus esset, regnum solus obtinuit («per essere una divinità più grande, tenne il regno da solo», III 13); ut ergo totam dominationem haberet unus («per detenere da solo tutto il potere», XV 5). La denuncia dell’omicida libido dominandi (in DcD III 14, l’espressione sallustiana è radicalizzata in senso apocalittico, designando il perverso autodivinizzarsi del potere politico contro l’unico Dio), come principio identitario romano, corrisponde in negativo alla tesi che Discorsi I ix si ripropone di confutare: «giudican[o] per questo che gli suoi cittadini potessero con l’autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessero» (I ix 3). La tesi di fondo di M., che afferma la bontà dell’essere «uno» e «solo» nell’ordinare/riformare lo Stato per il «bene comune» (cfr. I ix 5-6), «fine» (I ix 4) del fratricidio/omicidio fondativo (in tal caso necessaria «azione straordinaria», I ix 6), rovescia la tesi agostiniana, non tanto perché lascia cadere qualsiasi condanna morale del crimine, giustificato dal bene condiviso, ma soprattutto perché, opponendosi alla disdetta apocalittica del politico terreno, lo assolutizza, evidenziandone il dispositivo identitario, violento, sacrificale, religioso, seppure del tutto secolarizzato. Per assicurare buona nascita, saldezza, concordia e durata della città, è giustificata come necessaria e legittima l’origine unitaria e indivisa del ‘divino’ potere di fondazione, denunciata da A. come empia affermazione di superbia:
Sic enim superbia perverse imitatur Deum. Odit namque cum sociis aequalitatem sub illo, sed imponere vult sociis dominationem suam pro illo l’orgoglio è una perversa imitazione di Dio; odia infatti di essere sullo stesso piano degli altri alle dipendenze di Dio e vuole imporre ai compagni il proprio potere al posto di Dio (DcD XIX 12 2; cfr. Lettieri 1987).
Il volere e dover essere «uno […] uno solo» (Discorsi I ix 5) di Romolo ubbidisce, insomma, a una necessità antiteologica. La cainitica ambizione di dominio diviene da originario peccato teologico, che soltanto la grazia può togliere, vizio, anzi «voglia», libido intrinseca alla stessa natura dell’uomo, inestirpabile e storicamente recidiva. Nel capitolo “Dell’Ambizione” (vv. 58-59), Caino uccide Abele per «voglia ambiziosa», e trasmette all’umanità il desiderio divorante del dominare. Evidente l’influenza agostiniana, nell’affermare l’intima connessione (assente nella Genesi) tra fratricidio e imperialismo politico, come provato dagli esempi contemporanei che M. subito connette al primo omicida: regni e repubbliche in lotta per l’egemonia. Per A., infatti, Caino (il cui nome significa possessio: cfr. DcD XV 17; 21), dilata immediatamente la sua invidentia (XV 5) in imperialistica libido dominandi, fondando quella che per la Genesi è la prima civitas storica, denominata con il nome di suo figlio Enoch, che significa dedicatio, a indicare la sacralizzazione del secolo e del proprio potere terreno (cfr. XV 17-19).
Liberare il fondatore secolare della potenza romana dalla maledizione teologica, riscattarne l’atto cainitico, sacralizzarne la fondazione terrena, significa pertanto lasciare cadere l’opposizione apocalittica tra le due mistiche civitates/respublicae, quindi tra i suoi reges/principes/capita meta-storici: Gesù Cristo princeps rex saeculorum (DcD XV 1 2 ecc.) contro il diabolus princeps impiae civitatis (XVIII 51 1 ecc.) e le sue ‘incarnazioni’: Caino, Nino, Romolo. Viene così rovesciata l’interpretazione agostiniana della civitas terrena – e di Roma sua suprema realizzazione storica – come imitazione pervertita della trascendente «gloriosissima civitas Dei», caelestis patria opposta a qualsiasi terrena patria (II 29 1 ecc.), unica autentica e giusta respublica, in quanto vera iustitia non est nisi in ea republica cuius conditor rectorque Christus est («l’autentica giustizia non si dà che in quella repubblica in cui Cristo è il fondatore e il sovrano», II 21 4). Sicché A. non può non essere inserito – in compagnia di Platone, Cicerone, forse Savonarola (e la sua pretesa di fondare una respublica Christi) – tra quei «molti [che] si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere», o che, per volere fare «professione di buono», allontanandosi dalla «verità effettuale della cosa» politica e della storia tutta, hanno perseguito illusoriamente e rovinosamente «quello che si doverrebbe fare» (Principe xv 3 e 5).
L’intima saldatura tra dimensione politica e dimensione religiosa, attestata dall’insuperato modello romano fatto proprio dai Discorsi, che pure il DcD aveva sistematicamente decostruito, è originariamente fissata nella connessione tra fondamento/ordinamento istituzionale di Romolo e perfezionamento religioso introdottovi da Numa – presentato quasi come strumento dello Spirito Santo inviato dai cieli a compiere la rivelazione del suo predecessore e a instaurare (simulando di essere ispirato da una Ninfa: cfr. Discorsi I xi 10) religione, pace, timore della «potenza di Dio» (I xi 2-3). La nozione machiavelliana di religione civile si costituisce pertanto rovesciando la relazione agostiniana tra «vera et falsa religio». Trattando lungamente di Numa come fondatore della religione romana (cfr. DcD II 16 ecc.) e della theologia tripertita (fissata da Crisippo, elaborata da Panezio, criticamente mediata da Scevola, istituzionalizzata da Varrone), A. aveva condannato come evidente perversione idolatrica l’egemonia religiosa attribuita dai Romani alla theologia civilis, indifferente alla monoteistica theologia naturalis, pure filosoficamente verificata (cfr. DcD III 4 ecc.). Da Scevola come da Varrone, la theologia civilis era apertamente presentata come opportuna invenzione dei fallaces principes (per A., manipolati dai demoni), instrumentum regni funzionale alla sacralizzazione dell’ordine politico e sociale (cfr. IV 32). Risulta, quindi, agostiniana la riduzione dell’intera religione romana a mera creazione del potere politico, a sistema di politeistico culto civile privo di qualsiasi ancoraggio alla monoteistica verità naturale. Come afferma Varrone, citato da A., la religione è affare politico, il sistema pubblico di culto è creazione lungimirante dei potenti-sapienti: «ab hominibus instituta sunt» (VII 17; cfr. VI 4 2). Il vizio religioso romano, denunciato da A., torna a essere virtù civile in M., seguace di Varrone, di cui il DcD è pressocché esclusiva fonte documentaria, quel Varrone già centrale nel dibattito teologico-politico umanistico, come testimoniato dal De laboribus Herculis di Coluccio Salutati o dal più radicale Contra ridiculos oblocutores et fellitos detractores poetarum di Francesco da Fiano, e insomma da coloro che Cino Rinuccini, nell’Invettiva contro a cierti caluniatori di Dante, Petrarca e Boccaccio, accusava di essere discepoli più di Varrone che di A. e dei padri cristiani.
Nel suo stesso riattingere contro A. l’archetipo teologico-politico romano, la religione civile di M. si rivela consapevolmente anticristiana (contro Viroli 2005), essendo finalizzata esclusivamente alla costituzione di «buoni ordini» e alla promozione di «felici successi delle imprese» (Discorsi I xi 17), in quanto «dove è religione facilmente si possono introdurre l’armi» (I xi 9); l’«autorità di Dio» serve a «mettere ordini nuovi e inusitati» (I xi 10) nella città, per svilupparne coesione, potenza militare, sanguinario espansionismo imperialistico, senza alcuna preoccupazione per la fede cristiana o la giustizia. Puntuale è, in queste pagine, il rovesciamento della condanna agostiniana della teologia politica romana: i «prudenti» (I xii 8), gli «uomini savi» (I xi 12; xii 9), «i principi d’una republica, o d’uno regno» (I xi 7) ‘inventori’ di religione corrispondono ai varroniani homines prudentes et sapientes […] principes civitatis [intenti a] populum in religionibus fallere («uomini prudenti e sapienti […], i principi della città intenti a ingannare gli uomini in materia religiosa», DcD IV 32). Per M., come per il Varrone agostiniano, l’ordine politico si fonda su un arcanum imperii, che promuove, per appagare una fallax ambitio (V 12 3), l’universale fallacia, nascondendo al popolo la nuda verità del potere: si raffrontino DcD IV 31 1: Varrone homo acutissimus satis indicat non se aperire omnia […] loquens multa esse vera, quae non modo vulgo scire non sit utile, sed etiam, tametsi falsa sunt, aliter existimare populum expediat uomo intelligente, lascia intendere di non aver detto tutto […] dice che ci sono molte verità di cui è inutile la divulgazione, ma che ce ne sono altre che, nonostante la loro falsità, è bene che il popolo prenda per vere e Discorsi I xi 11-12: «perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui. Però gli uomini savi che vogliono torre questa difficultà ricorrono a Dio». La prospettiva varroniana – il fallace, per A., credere degli uomini valorosi nelle origini divine della loro civitas fa sì che essi combattano «audacius […] vehementius […] felicius» – è pienamente recepita da M., per il quale l’unica sacralità oggetto della retta fede religiosa è quella riferibile alla ciceroniana civitas aeterna romana (cfr. Cicerone, De Republica III 23-24, cit. in DcD XXII 6 2), divinizzatrice di Romolo – nel DcD denunciata come deformazione secolare della trascendente respublica di Cristo –, verità sacrale cosmico-storica che per natura vuole durare, fuggire la morte, disposta a sostenere guerre pro salute della patria, anche se questo comporta il sacrificio dei suoi cittadini, foglie precarie di un albero perenne (cfr., ancora, DcD XXII 6 2). Si veda in DcD II 25 1-2 la notizia di straordinari combattimenti di demonii, finalizzati a incitare gli uomini a guerre e massacri, presentandosi prescienti del futuro e protettori nelle guerre; parodiandola, in Discorsi I lvi 3 e 9-10, M. riporta la tesi ‘filosofica’ dell’«aere […] pieno di intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose future e avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese gli avvertiscono con simili segni» (9).
Discorsi I x 1-7 prospetta una gerarchia di valori assoluti affermando che sono, nell’ordine, «laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o republiche o regni». Se immediata e fondante è la connessione con la successione Romolo-Numa, dispiegata rispettivamente in I ix e I xi, ove appunto il re fondatore della religione è considerato più meritevole del re fondatore del regno, forse rimane implicito nel testo, almeno come referente negativo, un terzo termine di paragone, ossia Gesù Cristo. L’indizio del coinvolgimento dialettico di Cristo, oltre che di Mosè, nella valutazione dei divinizzati principes fondatori di civitates (realtà, per Varrone e Cicerone come per A., inscindibilmente teologico-politiche) è offerto dalla tarda Vita di Castruccio Castracani, ove evidente, seppure implicita, risulta la connessione tra Romolo e Cristo, entrambi, a dispetto delle umili origini, esaltati come sovraumani, anzi innalzatisi da loro stessi a figli di Dio: «si sono fatti figlioli di Giove o di qualche altro Dio» (Vita di Castruccio Castracani, 1). Se quindi M. estende a Cristo stesso il riduzionismo evemeristico di A., che sosteneva gli dei pagani «homines fuisse» (DcD VII 18), d’altra parte è ben consapevole della tradizione romana che riconosceva un Romolo divinizzato come figlio di Marte (DcD III 3). Ma certo non poteva ignorare un tema centralissimo nel DcD, che rende quanto meno ardita la centralità di Romolo nei Discorsi (come l’opportunità del suo singolare latitare in un testo esteriormente ‘cristiano’ quale Principe xxvi;
cfr. Sasso 1987-1997, 2° vol., pp. 340-41): l’opposizione tra vera divinità di Cristo e falsa divinità di Romolo (cfr. DcD XXII 6 1-7 ecc.), o di Ercole, figlio divinizzato di Giove (cfr. XXII 4; 6 1; 10). Il Romolo di M. va letto non tanto in opposizione al Romolo di A., ma soprattutto al Cristo di A. – «princeps rex saeculorum» dell’unica autentica respublica – al punto da poter essere definito come consapevole figura anticristica, che prospetta cioè il riassorbimento della
cristologia ‘celeste’ in cristologia ‘terrena’, con dissacrante inversione del modello tipico (Mosè, David) e antitipico (da Caino a Nebrot, da Nino a Romolo) cristiano-agostiniano: mentre, per A., Romolo (Caino redivivo) è antitesi sfigurata di Cristo, M. interpreta tacitamente Cristo come ombra di David, analogo di Romolo fratricida, archetipo dell’assolutezza del politico terreno. Cristo è insomma degradato a figura, antitipo ‘immaginario’ e debole del divinizzato creatore/fondatore e redentore politico-religioso della suprema civitas terrena. Rivelativo il xxvi capitolo del Principe (che, con il virgiliano capessere del titolo, richiama quale eroe archetipico romano Enea, piuttosto che Romolo), ove l’invocazione al redentore politico italiano assume aperti tratti cristologici, come provato dai riferimenti biblici non soltanto veterotestamentari (sia Sasso 1963, pp. 217-18, che Inglese 1995, p. 171, nota 12, rimandano unicamente a Esodo 13, 21; 14, 21), ma prima ancora paolini: 1Cor 10, 1-4 opera un’allegorizzazione cristologica degli stessi episodi dell’Esodo citati da M., per concludere che «quella roccia era il Cristo» (1Cor 10, 4). Principe xxvi prospetta, così, una dialettica redentiva tra capo/spirito e membra/corpo/carne inerte e mortale, che rilegge in senso terreno la tradizionale metafora paolina del corpo pneumatico, formato dal sacrificio del sangue di Cristo (cfr. 1Cor 11, 3; Rom 12, 4-5 ecc.). La teologia politica di A. (cfr. DcD XIII 23 2) identifica la civitas coelestis con le membra del Capo-Cristo – Caelestes vero ideo appellat [Paolo] et alios, quia fiunt per gratiam membra eius, ut cum illis sit unus Christus, velut caput et corpus («chiama anche celesti coloro che divengono per grazia sua membri per essere insieme a Cristo uno stesso capo e uno stesso corpo») –, di cui la storia di Roma/Romolo è inconsapevole, pervertito antitipo terreno. Al contrario, in M. morte, vita, spirito, virtù, «redenzione» (Principe xxvi 4 e 8), «redentore» (xxvi 26), «iustizia grande» (xxvi 10) divengono figure politico-religiose della profetizzata resurrezione d’Italia per mano del suo principe ‘nuovo’, miracolo storico cui Discorsi I xvii 3-15 (drammatico capitolo nodale, che tematizza la possibilità ‘ultima’ della redenzione della repubblica corrotta) adotta parodistiche formule di cristologia politica (le «membra tutte corrotte» di una città potrebbero essere redente soltanto per «la bontà d’uno», «per la virtù d’uno uomo», di un «capo», «con di molti pericoli e di molto sangue»). Cfr., in Discorsi I xii 20, l’ironica indicazione che, proprio perché sottomessa alle ambizioni secolari della Chiesa, l’Italia non «è potuta venire sotto uno capo»; l’egemonia ecclesiastica in ambito secolare determina un’anticristica disunione del corpo politico nazionale.
L’immanentizzazione del teologico nel politico, quindi dell’astratta cristologia e spiritualità neotestamentaria nella dura ed effettuale realtà profetico-messianica veterotestamentaria, è insomma il principio ermeneutico capitale della secolarizzante esegesi scritturistica di M.: «E chi legge la Bibbia sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato […] ad ammazzare infiniti uomini» (Discorsi III xxx 17). Pertanto, le figure veterotestamentarie di Mosè e David, che la tradizione cristiana interpreta come typoi di Cristo, vengono ‛violentemente’ reinterpretate come figure del capo politico o del principe, dissacrate, evidenziandone la salvifica violenza: nota è la definizione di Mosè (su cui cfr. DcD X 8; XIII 21, ove si sottolinea la «figurata significatio» di Cristo-pietra in 1Cor 10, 4; X, 13, ove ricorre il raffronto Mosè-Licurgo; XVI, 43; XVII, 2 e 8) come «profeta armato», paragonato a Romolo, Teseo e Ciro in Principe vi 7-15 e 21-23 (e cfr. xxvi 2). Così, in Discorsi I xxvi 2, David è indicato come esempio di «nuovo principe», che partendo da «fondamenti […] deboli», ha la virtù di assumere un potere assoluto capace di fondare nuovi assetti politici e sociali:
fare ogni cosa in quello stato di nuovo; come è nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini, fare i ricchi poveri, i poveri ricchi, come fece Davit quando ei diventò re, “qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes”, edificare oltra di questo nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; e in somma non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia, e che non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchezza che, chi la tiene, non la riconosca da te.
Nel DcD David è indicato, in tutto l’Antico Testamento, come la principale cristologica figura […] rex David idemque propheta de Christo et eius ecclesia prophetaverit, de rege scilicet et civitate quam condidit figura […] David, re e profeta, ha profetizzato intorno a Cristo e alla sua Chiesa, cioè intorno al Re e alla città che questi ha fondato (XVII 15).
Con un blasfemo, compiaciuto rivolgimento, M. interpreta David non come ‘figura’ di Cristo-Dio, ma come ‘figura’ del principe feroce: «Una figura del Testamento vecchio, fatta a questo proposito» (Principe xiii 15). M. dimostra, per di più, una certa raffinatezza filologica, riferendo a David un versetto evangelico che fonde due citazioni dei Salmi (33, 11 e 106, 9), tradizionalmente attribuiti al re di Israele: si tratta di Luca 1, 53, un passo del Magnificat, cui è affiancata la parafrasi di 1, 52 («deposuit potentes de sede et exaltavit humiles»). Proprio sulla proclamazione dell’abbattimento dei potenti/superbi e dell’innalzamento degli indigenti/umili si apre il DcD (Praefatio), ove l’umiltà della «gloriosissima civitas Dei» è contrapposta alla superbia della civitas terrena, esemplata da Roma, che pretende di imitare perversamente lo stesso atto di grazia divino, nel suo annientare le potenze superbe e favorire i sottomessi.
M. e A. concordano, insomma, nella dichiarazione di inconciliabilità di fondo tra rivelazione cristiana, umanesimo classico e civiltà romana, a differenza di tante letture compromissorie, dominanti nella patristica – da Melitone a Origene ed Eusebio, da Lattanzio ad Ambrogio e Orosio –, in gran parte del Medioevo fino a Dante, quindi in Petrarca e nella massima parte degli umanisti. La novitas eversiva di M. rispetto alla sua fonte cristiana è nell’empio rovesciamento assiologico e tipologico tra i due poli dell’antitesi apocalittica agostiniana: assumere come vera, effettuale unicamente la civitas terrena, interpretando la civitas Dei come sua astratta, alienante, politicamente esiziale imitatio, sicché la stessa rivelazione biblica è utile soltanto se letta «sensatamente», cioè se storicamente riportata alla sua sostanza politica secolare. Il testo ove più apertamente risulta violata la cautela machiavelliana (cfr. Sasso 1987-1997, 4° vol., p. 29) nel denunciare la natura corruttiva del cristianesimo a livello storico, politico, morale, è certo Discorsi II ii 26-41: qui M. esalta la fierezza e la maschia ferocia dell’educazione e soprattutto della religione gentile della «virtù», che, tramite un grandioso sistema sacrificale «pieno di sangue e di ferocità […] terribile, rendeva gli uomini simili a lui» (cfr. anche I xv 1-12). In DcD IV 31 2-32; II 25 1-26 1 ecc., ricorre la polemica contro l’intenzionale istigazione alla violenza sacralizzata nei culti romani, nei quali quei crimini ut imitanda proponerentur («venivano stabiliti perché fossero imitati», II 26 1).
La teologia politica romana identificava «il sommo bene» (Discorsi II ii 27-36) con «l’onore del mondo», quindi con «la esaltazione e la difesa della patria», «nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi», sicché «non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di republiche». Al contrario, afferma ironicamente M., «avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo». Infatti, caratterizzata dall’«umiltà» (II ii 28) dei suoi sacrifici, «di pompa più delicata che magnifica»,
la nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane […]. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte [...]. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini per andarne in Paradiso pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effemminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più, sanza dubbio, dalla viltà degli uomini che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù (II ii 31-35; cfr. I proemio A*, 7).
La teologia politica anticristiana di Discorsi I ii è una contrattissima, eppure puntuale summa polemica dell’interpretazione della religione cristiana prospettata nel DcD, in particolare nel libro XIX (oggetto di acceso dibattito in ambito umanistico), che, in dialogo con Varrone e Cicerone, si apre con la tematizzazione dell’alternativa tra otium e negotium (XIX 2; cfr. 1 2 e 19), vita contemplativa e vita attiva, ferma restando l’identificazione del summum bonum (1 1) con l’aeterna vita (4 1), rivelata dalla religione di Cristo, via salutis aeternae (23 2), autentico iter veritatis (1 1), e regalis via, quae una ducit ad regnum non temporali fastigio nutabundum, sed aeternitatis firmitate securum («la via regia che sola conduce non al regno vacillante del fasto secolare, ma a quello sicuro nella stabilità dell’eternità»; cfr. X 2 1-4).
Il summum bonum, cui la via-Cristo conduce, identificandovisi, è da cercare tramite la fede, che la confessa come dono eteronomo della grazia (cfr. XIX 4 1).
La religione cristiana è proclamata religione dell’otium sanctum (XIX 19), rispetto al quale l’impegno politico e la ricerca della gloria secolare sono (con buona pace dei compromissori tentativi di Salutati di conciliare otium e negotium politico) interpretati quali pericolose tentazioni (cfr. XIX 19), così come le stesse virtutes, se non donate dalla grazia e orientate alla civitas escatologica (cfr. X 22), sono dichiarate come meri vitia (cfr. XIX 25). Distaccato dalle incombenze politiche, necessariamente attratte nella secolare e angosciosa alternanza tra pace e guerra, nella quale stragi e sangue accompagnano la ricerca del potere e della gloria (cfr. XIX 7; V 12 2), il cristiano è quindi chiamato a peregrinare verso la pace escatologica (il «Paradiso» di M.), disprezzando le passioni, la potentia e l’honor (XIX 19) politici e la realtà stessa del mondo: Res ista vero sine spe illa beatitudo falsa et magna miseria est («questa realtà, senza quella speranza, è una falsa beatitudine e una grande infelicità», XIX 20). La suprema fortitudo del cristiano è, quindi, quella della patientia (XIX 4), del dominio delle passioni, nella consapevolezza della dimensione soltanto escatologica della vera salus, della beatitudine e della pace (XIX 4 ecc.). La battuta machiavelliana sul cristiano, reso dalla sua fede «atto a patire più che a fare una cosa forte» (Discorsi II ii 33), va confrontata con DcD XXII 9 e XIV 9 (con il caso esemplare di Paolo) ecc. «Scriptum est [Iac 4,6]: “Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam”» (XIX 27). Ogni termine-chiave della restituzione antiromana del cristianesimo in Discorsi II ii (sommo bene, vera via, ozio contro la virtù degli attivi, sacrifici cruenti contro sacrificio cristiano; umiltà, abiezione, dispregio delle cose umane e del mondo, fortezza nel patire dei martiri contro patria, onore, fortezza, potenza, salvezza secolari) trova una precisa corrispondenza nel libro XIX del DcD. La lunga lamentatio sulla condizione dell’uomo nel mondo (cfr. XIX 4 1-15) culmina appunto nel ripudio della pretesa ciceroniana di definire Roma come suprema respublica fondata su ius e piena iustitia; non fondata in Cristo, essa deriva da un principio di superbia, violenza, ingiustizia che mina la stessa tenuta del corpo sociale (cfr. XIX 21; 23 5; 24).
Rivelativo, al riguardo, il sintetico speculum dell’optimus princeps cristiano presentato in V 24: è tale colui che iuste imperat, capace di confessare come soltanto dalla onnipotente misericordia di Dio dipenda il proprio potere, preferendo il dominio sulle proprie passioni a quello sui popoli, castigando pertanto la luxuria che il potere potrebbe rendere sfrenata, combattendo l’avarizia con misericordiae lenitas et beneficiorum largitas. Opponendo all’ardor inanis gloriae la caritas felicitatis aeternae (cfr. XVII 20 2), egli non trascura pro suis peccatis humilitatis et miserationis et orationis sacrificium Deo suo vero immolare («di offrire al loro vero Dio per i propri peccati il sacrificio dell’umiltà, della pietà, della preghiera», V 24).
Il modello supremo dell’optimus princeps davvero cristiano è, in V 26 1, incarnato non da Costantino (ambiguamente lodato in V 25), ma da Teodosio, «clarus virtute et fide», che si sottomise con «religiosa humilitas» all’onnipotenza di Dio, satis intellegens terrena munera […] in Dei veri esse posita potestate («sapendo bene che gli stessi doni terreni […] dipendono soltanto dal potere del vero Dio»), al punto che magis orando quam feriendo pugnavit («combatté più pregando che ferendo»). Al contrario, DcD V 12 e 19 – citando Sallustio, Historiae I 16 9, che parlava di «luxus atque avaritia» – identifica in «avaritia atque luxuria» i vizi esiziali responsabili della decadenza dell’antica respublica romana originariamente esaltata dalla sua «ingens cupiditas» di gloria – «dominari vero atque imperare gloriosum […] concupiverunt» – per la quale virtuosamente reprimeva tutte le «ceterae cupiditates» (V 12 1). Si noti come proprio queste interpretazioni del principe esemplare cristiano e della decadenza dei grandi imperi universali (qui, con il DcD, la Babilonia assira è archetipo di Roma) siano messe satiricamente in discussione nel machiavelliano Asino (v, vv. 37-117), ove pure evidente è l’influenza agostiniana nella descrizione dell’ambizione sfrenata («usura» cioè avaritia) come causa della stessa naturale decadenza degli imperi, che da Nino, primo grande esempio di libido dominandi imperialisticamente attuata (cfr. DcD IV 6-7; XVI 10; 17), conduce alla luxuria corruttrice di Sardanapalo. Il tema antiagostiniano dell’ozio pernicioso dei principi che, pregando, attendono la salvezza propria e dello Stato dal cielo è connesso al tema agostiniano del dilatarsi innaturale dell’impero romano sino a ogni estremo del globo, corpo schiantato dalla sua stessa grandezza (cfr. DcD XVIII 45 3; IV 3).
E proprio sul tema della decadenza dei regni e delle religioni o «sètte», insomma delle civitates, il DcD influisce su un altro importante passo dei Discorsi II v 1-11, ove si mette in rilievo la relazione distruttiva del cristianesimo nei confronti della religione pagana («La sètta Cristiana contro alla Gentile ha cancellato tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica teologia»), sicché la dialettica vecchio/nuovo è interpretata non già come progresso storico-rivelativo, bensì come necessaria legge naturale di sopraffazione e corruzione che muove il ciclo storico delle civiltà. Netta la differenza rispetto all’interpretazione dell’Asclepius in DcD VIII 23 1-24 2, ove, riportata la dolente profezia ermetica sulla distruzione dei culti egiziani, A. la saluta come attuale, definitiva liberazione dall’inganno demoniaco, a opera della cristiana via veritatis (23 2). Certo, M. reinterpreta la cancellazione della memoria di una religione in prospettiva affine a quella ermetica (dei e istituzioni religiose sono creazioni umane) e niente affatto agostiniana (l’unico Dio rivela la vera religione che libera dagli idoli). Non a caso, la dottrina della successione delle religioni, quindi dell’umana «oblivione» (Discorsi II v 15) delle civiltà precedenti, è messa in tensione, apparentemente riecheggiando alcune delle critiche agostiniane, con le teorie classiche dell’eternità del mondo e dell’eventuale ripetersi identico dei suoi cicli, violentemente confutate in DcD XII 10-15. M., però, propende proprio per la tesi di Apuleio, riferita e confutata in DcD XII 10: sullo sfondo dell’eternità del mondo, si afferma la vicissitudine perenne del genere umano, scandita da catastrofi naturali («diluvii et conflagrationes» in DcD 10 1; cfr. IV 2; peste, fame e soprattutto «inondazione d’acque» in Discorsi II v 12 e 15, dipendenti da Polibio). Non è quindi l’onnipotenza creativa di Dio a dominare e contenere la totalità della vicenda cosmica e storica (non superiore per A. ai seimila anni, all’incirca quanti M. ne riconosce alla «memoria» degli eventi), bensì il ciclico succedersi della violenza distruttiva delle catastrofi naturali e dell’aggressività umana (cfr. II v 2), di cui le religioni stesse, compresa quella cristiana, sono tramite, come è provato dall’esempio leggendario di papa Gregorio (incendiario delle Deche di Livio) riproposto dal Savonarola (cfr. II v 8). Le «cause che vengono dal cielo» (II v 12) non sono affatto soprannaturali, ma soltanto storiche e soprattutto fisiche, capaci di ridurre l’umanità, mai estintasi, a pochissimi individui, dai cui discendenti, immemori delle età passate, il mondo sarebbe stato ripopolato.
Affermando – con la teoria della «oblivione delle cose» e della loro periodica «purgazione» – eternità del mondo e periodici cicli storici, M. propone pertanto «qualcosa come un oroscopo delle religioni» (cfr. Sasso 1987-1997, 1° vol., p. 260; alle pp. 256-61, mette in connessione il rifiuto «come cosa favolosa» della tesi di Diodoro Sicuro su una memoria «di quarantamila o cinquantamila anni», in Discorsi II v 11, con quello delle cronologie eccessive proposte da scritti fabulosi, in DcD XII 10 2). Questo significa equiparare e togliere, nel corso del mondo, paganesimo (religione egiziana) e cristianesimo, prevedendone implicitamente la finale, naturale estinzione (cfr. II v 11), riportando quindi anche la storia degli uomini alla cosmica, ciclica consumazione e «purgazione» (II v 16) delle nature irrazionali e inanimate, descritta in DcD XII 4 come ordine materiale del mondo predeterminato dal Dio creatore, comunque distinto dalla storia degli uomini provvidenzialmente guidata (sulla dipendenza di Discorsi II v da DcD XII 10-11, cfr. Inglese 1984, poi 2000, pp. 400-01).
Motivo strategico del DcD (cfr. V 12-22) è identificare, con Cicerone e Sallustio, nel desiderio esaltato della gloria mondana il valore supremo della civiltà romana, capace di subordinare qualsiasi passione o vizio a quello della grandezza della patria, al punto che Dio stesso ha voluto riconoscere l’eccellenza umana delle virtù romane – seppure prive di grazia, quindi idolatriche e perverse –, donando loro come giusta merces il dominio del mondo terreno (cfr. soprattutto V 12-15).
La centralità strutturale e religiosamente ambigua (concessa dal cielo, ma del tutto terrena) della gloria politica in M. presuppone dunque, ancora una volta, il rovesciamento polemico della condanna agostiniana, come prova una serie di connessioni tra Discorsi e DcD. Lasciata cadere qualsiasi preoccupazione per la santità cristiana e l’apologia dell’onnipotenza di Dio signore della storia, i Discorsi sacralizzano il valore supremo attribuito dai Romani alla gloria politica e militare, celebrate nel culto della repubblica.
Subito dopo avere giustificato Romolo per il suo fratricidio, il cap. x del I libro oppone i fondatori/riordinatori di una civitas e i tiranni. Glorificati sono, nell’ordine, gli uomini «capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato republiche o regni» (2-3), quindi quelli che «preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria» (4), infine «gli uomini litterati» (5). Sono definiti «pel contrario infami e detestabili gli uomini distruttori delle religioni, dissipatori de’ regni e delle republiche, inimici delle virtù, delle lettere» (7): questi formano la grande maggioranza dei potenti che, «ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria […] si volgono alla tirannide» (9), conducendo la loro patria alla rovina. Pertanto, «cercando un principe la gloria del mondo», dovrebbe operare in «una città corrotta» dalla tirannide «per riordinarla come Romolo» (Discorsi I x 30-31), non perseguendo un potere fine a sé stesso, ma agendo per il benessere durevole dell’universalità: «E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria» (31). La contrapposizione tra l’autentica gloria dei Romani (che vivono e muoiono per la respublica) e la tirannide (che persegue il potere per il potere) è elemento portante comune ad A. e a Machiavelli.
Basandosi su alcune notazioni di Sallustio, A. distingue in V 19 tra cupiditas humanae gloriae e cupiditas dominationis, riconoscendo alla prima passione (proprio perché preoccupata del giudizio altrui: cfr. V 12 4) una certa capacità – seppure teologicamente peccaminosa – di perseguire dignità morale (multa in moribus bona) ed ethos politico, sicché proprio per questo desiderio più alto il Dio cristiano premia i ‘virtuosi’ romani con un impero glorioso e duraturo.
Al contrario, la mera cupiditas dominationis, la libido dominandi – perseguita etiam per apertissima scelera (V, 19), indipendentemente dal desiderio di gloria, quindi dalla preoccupazione del giudizio pubblico e dello stesso bene comune – degenera in bestiale tirannide, come provato dall’esempio di Nerone:
Qui gloriae contemptor dominationis est avidus, bestias superat sive crudelitatis vitiis sive luxuriae chi, disprezzando la gloria, è avido di potere, supera gli animali nei loro istinti di crudeltà e di lussuria (V 19).
Dio è comunque confessato come l’onnipotente Signore della storia, che può innalzare l’ipocrita e il tiranno (il principe dotato di potere assoluto; ma cfr. II 21), per punire i peccati della civitas (cfr. V 19).
Ma la stessa virtus umana è vera soltanto se donata dalla gratia di Dio (cfr. V 14), che la concede soltanto agli autentici credentes, sicché sine vera pietate, id est veri Dei vero cultu, ogni ordine politico secolare è perverso, così come ogni subordinazione ‘virtuosa’ delle passioni inferiori a quella della gloria humana;
mentre, qualora i governanti fossero davvero pervasi di pietas, possedendo la scientia regendi populos, proprio rinunciando alla gloria secolare e desiderando la gloria celeste, apporterebbero alle loro comunità benessere e pace (cfr. II 19).
Ritroviamo, sia in Discorsi I x 1-33 sia in Principe xv e xviii, una sistematica analogia con la riflessione agostiniana sulla relazione tra desiderio di gloria, brama di dominio, tirannica indifferenza al giudizio altrui, eppure calcolata simulazione di virtù, certo ormai in una prospettiva politico-religiosa del tutto svincolata dall’ipoteca cristiana. Rivelativi gli esempi romani, con la distinzione tra «principi buoni», vissuti «sotto le leggi» (16), e «scelerati imperadori»
(17), tra i quali spiccano Cesare, empio corruttore della repubblica, e Nerone. Quest’opposizione prospetta, pertanto, come in A., la divaricazione della «via della gloria o del biasimo» (18), sicché i seguaci della tirannide non si rendono conto di «quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete» perdono per perseguire «infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine» (9). Afferma Principe viii 10: «Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ suoi cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione: e’ quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria». E in Discorsi III xl 5, la «fraude […] che ti fa rompere la fede data e i patti fatti» è dichiarata incompatibile con l’autentica «gloria». Almeno alla lettera, queste affermazioni paiono compatibili con quelle agostiniane, che connettono intimamente giustizia dello Stato, virtù morali dell’uomo e vera pietas.
La prospettiva di M. cambia, però, in Principe xv 6-12, ove si afferma l’impossibilità per il principe, chiamato a operare in stato di precaria necessità, di essere integralmente «buono»; sicché, in Principe xviii, si afferma la necessità di ricorrere all’«astuzia» piuttosto che alla «fede» e all’«integrità». E si conclude che il principe, novello «Chirone centauro» (5), debba assumere nella sua stessa persona di uomo la natura di bestia (4-6), per di più binata in «golpe» e «lione» (7). Per il principe è utile «parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso» (13), ma è inevitabile «diventare il contrario» (13) quando la necessità imponga di operare «contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione» (14-15).
Rovesciando la prospettiva di DcD V 19, che pareva in qualche misura recepita in Discorsi I x 1-33, nell’orizzonte di crisi radicale che costringe a pensare alla salvezza della patria soltanto nei termini dell’eccezione obbligata, s’impone di valutare la virtù del principe sulla sua capacità di durare, anche con i mezzi del terrore, della violenza, dell’ipocrisia, inconciliabili non soltanto con le autentiche pietas, fides, caritas cristiane, ma con le stesse gloriose virtù e giustizia romane. La dura necessità del politico finisce per imporsi nel cuore stesso dei Discorsi nella trattazione delle virtù repubblicane:
E che la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria […]. Perché dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghi le la libertà (III xli 3 e 5).
La prospettiva è antitetica a quella di A., che condanna l’assolutizzazione della potenza e della durata dello Stato romano e l’indifferenza nei confronti delle sue qualità morali da parte di quei principes pagani, i quali nullo modo curant pessimam ac flagitiosissimam esse rem publicam. “Tantum stet”, inquiunt, “tantum floreat copiis referta, victoriis gloriosa, vel, quod est felicius, pace secura sit” in alcun modo si preoccupano se la società è corrotta e depravata.
“È sufficiente che si regga”, dicono, “e prosperi colma di ricchezze, gloriosa per le sue vittorie oppure, e ciò è anche meglio, tranquilla nella pace” (DcD II 20).
L’implicarsi di gloria/virtù e libidine/logica assoluta, tendenzialmente amorale, del potere, capace di costituire ordine e durare, domina la riflessione sull’intimo segreto insieme espansivo e corruttivo della potenza romana sia nel DcD sia nei Discorsi. In DcD V 12 1-2 (servendosi di Sallustio, Historiae I 1), A. restituisce una gerarchia delle grandi passioni romane, capaci di determinare la grandezza della respublica:
Amore itaque primitus libertatis, post etiam dominationis et cupiditate laudis et gloriae multa magna fecerunt le grandi imprese nacquero anzitutto dall’amore per la libertà, poi anche dalla brama di potere, di considerazione, di gloria (12 2).
Il dinamismo pulsionale romano è assunto come principio d’interpretazione dell’espansione imperalistica, quando l’amore della libertà si rovescia irresistibilmente in desiderio di dominio glorioso nei confronti dei popoli confinanti, ut parum esset sola libertas, nisi et dominatio quaereretur («poiché diveniva indifferente la sola libertà, se non si cercava anche il dominio», 12 2). Ma, ancora seguendo le Historiae di Sallustio (II 18), l’originaria «ambizione» si complica ritorcendosi internamente come fratricida conflitto sociale tra patrizi e plebei: discessio plebis a patribus, dovuta alle iniuriae validiorum, generatrici di civili discordiae, dum illi dominari vellent, illi servire nollent («secessione della plebe [...] soprusi dei più forti [...] discordie in cui gli uni volevano comandare e gli altri non volevano servire», DcD V 12 6). Se in Sallustio prevale l’indicazione moralistica dello scindersi conflittuale della civitas in sé stessa, e in A. il conflitto diviene segno di un’apocalittica, indominabile libido fratricida, in M. la tesi è refrattaria a qualsiasi valutazione morale o teologica, seppure risulti fedele traduzione della citazione agostiniana:
E sanza dubbio, se si considerrà il fine de’ nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare ed in questi solo desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà di vivere liberi (Discorsi I v 8).
È noto come in M. i conflitti sociali, i «tumulti e dissensioni universali» (I vi 25) degli «umori», se contenuti all’interno di un quadro istituzionale capace di dispiegarli come forza espansiva di dominio, siano assunti – contro le condanne sallustiana e agostiniana – quale motore dello straordinario dinamismo di potenza della Repubblica romana (cfr. Discorsi I iv 1-12): guerre e divisioni interne sono le naturali modalità attraverso le quali Roma, «republica tumultuaria» (2), cerca di attingere la propria grandezza e durata storica. Ma questo significa che il modello supremo di civitas terrena assume come virtù, occasione di vittoria e di potenza ‘eterni’ quei vizi, pure riconosciuti come grandiosi, che il DcD denunciava come ispirati dal demonio: vana brama di gloria, ingiusta libido dominandi interna ed esterna, violenza omicida e fratricida (cfr. DcD V 17 2), che appunto culminano nelle riforme dei Gracchi e nella scissione sociale tra patrizi e plebei (cfr. II 21-22; III 24-26), origine delle guerre civili e quindi del precipitare della repubblica verso il principato (cfr. II 22-24; III 27-30). Nella diagnosi machiavelliana pare ancora di avvertire un’eco della denuncia apocalittica agostiniana, della libido dominandi romana come chiave interpretativa dell’incoercibile e infine omicida violenza che ‘naturalmente’ appartiene all’autoaffermazione del politico.
Ampia, è nel DcD, la riflessione sull’intimo rapporto tra virtù e paura. Soltanto la paura interna (metu premente, non persuadente iustitia: III 16) del potere tirannico di Tarquinio ha reso Roma virtuosa (cfr. DcD III 16-17 1, a partire da Sallustio), richiamandola all’originario primato della libertà (cfr. Discorsi III i 42); così le stesse discordie sociali tra patrizi e plebei sono state temporaneamente superate soltanto dalla paura di un estremo pericolo esterno:
quia rursus gravis metus coepit urgere atque ab illis perturbationibus alia maiore cura cohibere animos inquietos et ad concordiam revocare civilem perché una nuova grave paura cominciò a incalzare e a frenare, per un’altra ancor più grave preoccupazione, gli animi inquieti dalle turbolenze, e a ricondurli alla concordia civile (V 12 6).
Già in II 18 1, a partire da Sallustio, per due volte A. sottolinea come sia stato il metus (cfr. III 18 1) l’unica causa capace di fare tornare a Roma «optimi mores et maxima concordia […] parvo intervallo» (II 18 1); per dirla in termini machiavelliani, è la «paura» (Discorsi III i 24 e 25) di un pericolo mortale a indurre, talvolta, il corpo politico a recuperare il suo principio o fondamento virtuoso; è questo il caso di «riduzione verso il principio […] per accidente estrinseco» (III i 10), come provato nel caso dell’invasione gallica, e ribadito con il riferimento a «una forza estrinseca. Perché, ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio come fu a Roma, ella è tanto pericolosa che non è in modo alcuno da disiderarla» (39-40); qui il caso delle guerre puniche, evocato da Sallustio e A., pare calzare perfettamente all’ipotesi estrema di «ritirare verso il segno» dell’originaria «bontà» la repubblica che ha paura di perire a causa di gravissima minaccia esterna. «Gl’intrinseci» strumenti capaci di «ritirare» nel principio virtuoso il corpo politico sono o gli «ordini» disposti dalla «prudenza intrinseca» di una città, capaci di contrastarne la corruzione (come i tribuni della plebe: cfr. 20), o l’esempio di singoli uomini virtuosi, come quelli di tanti eroi romani, «i quali con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto che si facessino le leggi e gli ordini» (28). Se la stessa dinamica corruttiva e correttiva è applicata alla chiesa di Cristo (cfr. 32-34), principio e fondamento di purezza originaria cui (pur vanamente!) la «rinnovazione» degli ordini mendicanti cerca di riportare la sètta «della nostra religione», comunque è ancora da un modello romano che M. dipende, pure mediatogli da Agostino.
Si tratta di un rilevante passo del De Republica ciceroniano (V 1 1, noto soltanto grazie ad A.), citato in DcD II 21 3, ove – a partire da una citazione di Ennio:
Moribus antiquis res stat Romana virisque («Roma si fonda sui costumi e sugli uomini antichi») – si afferma che soltanto recuperando gli esempi di viri, mores, maiorum instituta, Roma aveva potuto mantenere la sua grandezza fondata sulla iustitia:
Itaque ante nostram memoriam et mos ipse patrius praestantes viros adhibebat, et veterem morem ac maiorum instituta retinebant excellentes viri in età anteriore alla nostra memoria, e lo stesso costume patrio chiamava al governo gli uomini più insigni, e questi uomini eccellenti mantenevano il costume antico e le istituzioni degli antenati.
L’esempio portato da Cicerone è quello di una «pictura egregia» che, divenendo sempre più scolorita, avrebbe dovuto essere restaurata riattivandone gli antichi tratti, il «segno», insomma, mentre ormai la Roma a lui contemporanea ne aveva perduto forma ed extrema lineamenta:
Nostris enim vitiis, non casu aliquo, rem publicam verbo retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimus per le nostre colpe, e non per qualche caso fortuito, conserviamo ancora il nome di Stato, ma già da tempo ne abbiamo perso la sostanza.
L’insistenza (invero anomala in M.) di Discorsi III i sulla necessità che Roma, per mezzi ordinari o straordinari, «ripigliasse nuova vita e nuova virtù e ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi», insomma l’insistenza sull’impossibilità di mantenere uno Stato forte senza ritornare periodicamente a «mantenere la religione e la giustizia», pare pertanto dipendere dall’argomentazione del De Republica, lungamente riassunta in DcD II 21 1, ove si afferma che la iustitia (garantita dalla religiosa fedeltà agli antichi mores) è l’unico autentico fondamento della Repubblica romana, sicché, come riassume A., Cicerone ritiene che nec omnino nisi magna iustitia geri aut stare posse rem publicam («senza una somma giustizia non può essere governato uno Stato», II 21 1).
Non è un caso, allora, che la figura esemplare della capacità romana di riattingere il principio buono della sua costituzione sia, per M., Lucio Giunio Bruto, che riattinge la fondativa logica fratricida di Romolo, attestante la natura unitaria e assoluta del potere costituito, che non tollera divisione e dissenso. In DcD III 16 Bruto è, infatti, incarnazione paradigmatica del perverso amore romano per libertà secolare e gloria di sé, spinto sino all’uccisione dei propri figli congiurati a favore dei Tarquini:
pro libertate moriturorum et cupiditate laudum, quae a mortalibus expetuntur, occidi filii a patre potuerunt poté uccidere i figli per la libertà di uomini destinati a morire e per il desiderio di quella lode tanto agognata dai mortali (V 18 1).
L’atto di condanna della virtù crudele e del tutto inutile di Bruto è netto:
pro hac temporali atque terrena Brutus potuit et occidere, quod illa facere neminem cogit per questa [patria] temporanea e terrena Bruto poté addirittura uccidere i suoi figli, cosa che quella [celeste] non costringe alcuno a fare (V 18 1); Etiamne ista est gloria, Iunii Bruti detestanda iniquitas et nihilo utilis rei publicae?
Può dirsi gloriosa questa deprecabile iniquità di Giunio Bruto, per nulla utile allo Stato? (III 16), ove si condanna l’esilio imposto da Bruto a Lucio Tarquinio Collatino, soltanto perché condivideva il nome del re deposto. Non soltanto M. giustifica come previdente l’apparentemente futile motivazione dell’esilio di Collatino (cfr. Discorsi I xxviii 10-11), ma soprattutto, in Discorsi I xvi 10-11, definisce, contro A., l’inumano rigore di Bruto come politicamente salvifico: per mantenere «lo stato libero […] non ci è più potente rimedio né più valido né più sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto», vale a dire adottare qualsiasi via straordinaria, anche se giudicata dai più iniqua; sicché, «chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo» (III iii 4). Non si dà autentico ed efficace amore di patria senza l’assunzione radicale dell’autonomia assoluta del politico rispetto al teologico e all’etico (cfr. anche Discorsi III xxvii 1-10).
Rispetto alla centralità di Bruto, risulta secondario, nel suo ormai rassegnato pessimismo, il confronto di M. con l’interpretazione demitizzante di Lucrezia in DcD I 19 1-21, che è volta a restituirla come colpevole nel suo suicidio, originato o da vergogna per il consenso a un eventuale piacere provato nello stupro subito dal figlio di Tarquinio il Superbo o da un eccessivo amor sui bramoso di gloria immortale: Si adulterata, cur laudata? Si pudica, cur occisa? («perché dev’essere lodata un’adultera? o uccisa una donna onesta?», 19 2), perché in questo caso – corpore oppresso […] nulla voluntate («violentato il corpo […] senza alcun consenso della volontà», 19 1) – Lucrezia si sarebbe dovuta considerare del tutto innocente; affermazione riecheggiata nella sarcastica forzatura machiavelliana della decostruzione agostiniana: «la volontà è quella che pecca, non il corpo» (Mandragola III xi; cfr. Sasso 1987-1997, 3° vol., pp. 144-50, 4° vol., pp. 299-312). L’astuzia spregiudicata del giovane Callimaco è ormai volta a possedere con l’inganno non più la fortuna storica e la gloria pubblica, ma soltanto il corpo privato di una donna; in un feroce contrappasso, alla casta e gloriosa Lucrezia romana è opposta l’oziosa, quindi corrotta Lucrezia cristiana, religiosa perché sottomessa e ormai del tutto priva di virtù e fedeltà, caricatura delle umili monache romane violentate che – sospettose dell’orgoglio delle loro virtù e confessanti la grazia di Dio come loro unica forza – DcD I 25-29 contrapponeva all’eroica suicida.
Rivelativo, il perverso rovesciamento operato sul precetto di A. da frate Timoteo, parodia dei sacerdoti speculatores, hoc est populorum praepositi, constituti in ecclesiis («i sorveglianti, cioè i governanti del popolo, costituiti nelle chiese», I 9 3) tenuti a richiamare sposi e spose, genitori e figli, padroni e servi alla moralità familiare: cfr. I 9 2. Se, in I 25, A. prescrive alle monache eventuali vittime di violenza – che comunque habent intus gloriam castitatis, testimonium
conscientiae («hanno nella loro interiorità la gloria della castità, testimone la loro coscienza», I 19 3) – di assumere il peso di un incertum adulterium (l’eventuale godimento provato nello stupro subito) piuttosto che commettere un certum homicidium (il suicidio), alla Lucrezia ‘cristiana’ il frate consiglia di seguire la sua stessa «conscienzia», scegliendo «un bene certo» (l’adulterio per ubbidienza al proprio signore-sposo e il figlio eventuale che ne deriverà) senza preoccuparsi di «un male incerto» (l’omicidio ‘eventuale’ della ‘vittima’ eletta dalla fortuna virtuosamente soggiogata).
Bibliografia: Fonti ed edizioni: Sancti Augustini De Civitate Dei, a cura di B. Dombart, A. Kalb, Leipzig 1928-1929, Stuttgart 19815; F. Fiumi, Le edizioni del De civitate Dei di Agostino del secolo XV, Firenze 1930; P. Cherubelli, Le edizioni volgari delle opere di s. Agostino nella Rinascita, Firenze 1940.
Per gli studi critici si vedano: H. Baron, The crisis of the early Italian Renaissance, Princeton 1955, 19662 (trad. it. La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, Firenze 1970); G. Bardy, Introduction générale à La Cité de Dieu, Bibliothèque augustinienne, éd. G. Bardy, G. Combes, 1° vol., Paris 1959, pp. 7-163; S.S. Wolin, Politics and vision. Continuity and innovation in western political thought, New York 1960 (trad. it. Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, Bologna 1996); G. Sasso, Il Principe e altri scritti, Firenze 1963; G. Prezzolini, Cristo e/o Machiavelli. Assaggi sopra il pessimismo cristiano di Sant’Agostino e il pessimismo naturalistico di Machiavelli, Milano 1971, Palermo 20042; G. Hasenhor, Les traductions romanes du De civitate Dei, I. La traduction italienne, «Revue d’histoire des textes», 1975, 5, pp. 169-238; D. Sternberger, Drei Wurzeln der Politik, Frankfurt am Main 1978 (trad. it. Le tre radici della politica, Bologna 2001); G. Inglese, Commento, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano 1984, 20005; M. Reale, Machiavelli, la politica e il problema del tempo. Un doppio cominciamento della storia romana? A proposito di Romolo in Discorsi I, 9, «La cultura», 1985, 23, pp. 45-123; G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il saeculum e la gloria nel De civitate Dei, Roma 1987; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1997; G.M. Barbuto, Il principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideologie politiche, Napoli 1994; G. Inglese, Commento, in N. Machiavelli, Il Principe, Torino 1995; G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, a cura di P. Bettiolo, G. Filoramo, Brescia 2002, pp. 215-65; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; G. Lettieri, Roma, il Principe e il Messia. Fondazione e decostruzione del teologico politico: Agostino, Machiavelli, Schmitt, Derrida, in Religione e politica. Mito, autorità e diritto, a cura di P. Pisi, B. Scarcia Amoretti, Roma 2008, pp. 46-117; E. Brilli, Le attualità umanistiche della Città di Dio. Un contributo iconografico allo studio della ricezione del De civitate Dei attraverso i codici miniati italiani del XV secolo, «Segno e testo», 2011, 9, pp. 1-35.