AURELIANO (L. Domitius Aurelianus)
Imperatore romano del sec. III d. C. Eompì la sua carriera nell'esercito, lontano da Roma, e secondo una sorte comune agl'imperatori venuti su fra le armi, specialmente in quel periodo, la vita da lui trascorsa prima di giungere all'impero rimase poco conosciuta. Non si sapeva neppur dire con precisione dove fosse nato, se a Sirmio in Pannonia (Mitrovica) o in quella parte della Mesia che poi fu detta Dacia Ripense. Proveniva, comunque, da un territorio di confine, molto fertile di disordini e di sedizioni militari. Apparteneva a un'umile famiglia di agricoltori, e si dice anzi che suo padre fosse colono di un senatore Aurelio, non altrimenti conosciuto. Nella sua casa, il primo ad avere la cittadinanza romana fu forse Aureliano medesimo, che l'ottenne probabilmente sotto le armi. Egli nacque nel 214 o 215. La sua carriera militare venne favorita da Valeriano, imperatore che portò agli alti gradi dell'esercíto una serie di ufficiali che poi aspirarono o pervennero all'impero, uomini tutti di valore, ma di origine oscura e di stirpe barbarica. Delle missioni e dei comandi militari che A. ebbe, non si può dir nulla di sicuro, ed è certamente falso ch'egli abbia percorsa una qualsiasi carriera civile e rivestito il consolato prima di essere imperatore. Al momento della rivolta di Aureolo egli appare in Italia, con le milizie di Gallieno, e c'è chi tende a farlo apparire come consapevole, anzi come ispiratore della congiura ordita contro quest'imperatore (268 d. C.). Il che per altro è molto discutibile: ma non è invece indegna di esser tenuta in conto la tradizione che fa di A. l'autore della fine di Aureolo, che Claudio avrebbe voluto salvare. Nel 270 questi morì, e gli succedette il fratello Quintillo: ma, pochi giorni dopo, le legioni di Sirmio proclamavano imperatore A., e Quintillo periva a breve distanza di tempo, in Aquileia. Aureliano rimase solo, e al Senato non restava che di sanzionare con una formale elezione la proclamazione dell'esercito.
Il nuovo imperatore non era più giovane, ma non aveva perduto nulla del vigore della gioventù. Era di spirito pronto, d'indole impetuosa e inesorabile. I suoi compagni d'arme gli avrebbero appiccicato il nomignolo di "mano alla spada". Il compito che gli si parava innanzi era formidabile. L'Impero pareva prossimo allo sfacelo: all'interno c'erano disordine, miseria ed epidemie; lo stato era finanziariamente fallito; l'esercito in continua rivolta; i confini, per tutta la distesa dal Reno al Danubio, in preda ai barbari (Iutungi, Alamanni, Goti): la Gallia e la Britannia ormai costituite in uno stato, romano di forma, ma autonomo; i territorî d'Asia soggetti ai sovrani di Palmira, legati a Roma più nell'apparenza che nella realtà. Eppure A. poté riuscire, entro i primi tre anni del suo impero, a rinsaldare la compagine dello stato romano, e a salvarlo dalla crisi che ne minacciava l'esistenza. È questa un'opera che fu compiuta con energia e rapidità meravigliose. Sul la cronologia delle operazioni militari di A. regnano molte incertezze: ma restano, in ogni modo, sufficientemente sicure le linee generali. Le sue prime campagne furono rivolte contro i barbari che minacciavano dalla parte delle Alpi e del Danubio (270-271); poi egli intraprese la campagna d'oriente, terminata nella prima fase al 272, e ripresa nel 273. In questo stesso anno furono riunite all'Impero le Gallie. Nato tra barbari dei confini, A. si mostrò imbevuto di spirito romano, e quel potere centrale, che sotto Gallieno pare ridotto quasi a nulla, e che Claudio non ebbe tempo di rafforzare, fu da lui ricostituito come forse gli uomini del suo tempo non osavano sperare.
A. si volse da prima contro gli Iutungi che con la loro cavalleria si erano spinti fino in Italia e li mise in rotta: una parte di essi cercò scampo oltre il Danubio, gli altri ricevettero l'ordine di tornare alle loro sedi. Maggiore importanza ebbe la campagna contro i Vandali che avevano invaso la Pannonia. A. ordinò che tutto quanto potesse servire di vettovagliamento al nemico fosse trasportato entro città murate, e venne a battaglia con i barbari, non sappiamo dove, e con esito che, secondo la tradizione meno fav0revole, rimase incerto. I Vandali in ogni modo, chiesero pace. Prima di accordarla A. volle sentire il parere dell'esercito, e poiché questo fu favorevole, la pace fu stipulata a condizione che i Vandali si ritirassero senza molestare il territorio romano; a tale scopo l'imperatore si obbligava a fornire le vettovaglie necessarie. Una banda che, contro il patto convenuto, si abbandonò ad atti di saccheggio, fu dai Romani distrutta. Circa duemila cavalieri vandali presero servizio nell'esercito imperiale.
A. si trovava ancora occupato in Pannonia quando gli Iutungi, uniti questa volta, a quanto sembra, agli Alamanni, passarono le Alpi e si sparsero per la pianura del Po, devastando e saccheggiando. La città di Piacenza cadde nelle loro mani. La situazione era tanto più critica, in quanto che nello stesso tempo i Goti tornarono a invadere l'Illirico e la Tracia, mentre avvenivano in altri punti dell'Impero sedizioni militari. Aureliano stesso, affrettatosi a tornare in Italia, ebbe a subire sotto Piacenza un assalto notturno, che mandò il suo esercito in rotta. Roma parve perduta, ma ben presto l'esercito imperiale prese il sopravvento, le bande saccheggiatrici che scorrazzavano qua e là furono oppresse, e in due successive battaglie, a Fano e sul Ticino, i harbari furono schiacciati. Molte migliaia di essi perirono, i rimanenti furono fatti prigionieri. Da allora per circa un secolo e mezzo, nessun invasore pose più piede in Italia. Nello stesso tempo venivano represse le sedizioni militari, e i pretendenti puniti di morte.
Rimaneva a sgombrare la penisola balcanica dai Goti. Questa opera fu da A. compiuta, a quanto sembra, senza gravi difficoltà. I Goti furono respinti oltre il Danubio, ove l'esercito romano diede loro una disfatta nella quale cadde anche il loro condottiero, Cannabaude. Tuttavia Aureliano giudicò necessario di abbandonare la Dacia, se non che, a somiglianza di quello che i Romani avevano fatto sul Reno, creò sulla destra del Danubio una provincia, detta Dacia Ripense, ch'ebbe per capoluogo Sardica (Sofia). Rimase tuttavia nell'antica provincia un forte contingente di popolazione romana o romanizzata che costituì il ceppo della popolazione romena.
A tale provvedimento, che in effetto poi diede una lunga tranquillità a quella parte del confine, A. fu anche indotto dal bisogno di aver le mani libere per ricuperare l'oriente, che la dinastia palmirena cercava di ridurre nelle sue mani. A Palmira era morto Odenato (v.), e gli era succeduto il figlio Vaballath Atenodoro, ancora ragazzo, sotto la tutela della madre Zenobia (v.). Al principio del suo impero, A. aveva stabilito con la casa palmirena un accordo, in virtù del quale Vaballath avrebbe continuato a governare i territorî romani di Asia, aggiungendo al titolo di re dei Palmireni quello d'imperatore e duce dei Romani. Ma quando Roma fu minacciata dall'invasione degli Iutungi e dei Vandali, la dinastia palmirena volle rendersi indipendente, e Vaballath assunse per suo conto i pieni titoli imperiali. Aureliano passò in Asia, con le legioni delle provincie danubiane, vinse in Siria il generale palmireno Zabdas, e in seguito a una nuova vittoria riportata sotto le mura di Emesa, obbligò l'esercito nemico a chiudersi in Palmira, cui pose l'assedio. Questa città era munita di fortificazioni che permettevano una lunga resistenza. Durante l'assedio, A. ricevette una ferita che pose la sua vita in pericolo. Ma gli eserciti persiani che dovevano soccorrere la città furono battuti, Zenobia che volle correre personalmente a chiedere aiuto alla corte dei Sāsānidi, fu presa prigioniera, e Palmira non tardò ad arrendersi. A. non esercitò alcuna rappresaglia sui vinti, ma solo fece mettere a morte i consiglieri della regina. Palmira ricevette un presidio di seicento uomini e fu congiunta al governatorato della Siria.
A., tornato in Europa, era ancora nella penisola balcanica, intento a combattere contro i Carpi, quando gli giunse la notizia che i Palmireni si erano ribellati, facendo strage della guarnigione romana. Essi avevano trovato un nuovo re, nella persona d'un giovanetto di nome Antioco, che apparteneva alla casa regnante. Ma questa rivolta rimase isolata, si ripercosse solo in Egitto, e principalmente ad Alessandria, che però difficilmente può essersi mossa per solidarietà con la causa palmirena. Vinti i Carpi, con una marcia rapidissima A. apparve sotto le mura di Palmira, prese la città e l'abbandonò al saccheggio. Essa fu distrutta. Fu quindi la volta dell'Egitto: Alessandria venne occupata, i capi dell'insurrezione messi a morte, i tributi aggravati.
Raccolti sotto l'Impero i territorî d'Oriente, A. volse l'animo all'Occidente. Caduto Vittorino, fu dalle milizie chiamato all'impero delle Gallie il senatore Esuvio Tetrico, già governatore dell'Aquitania, il quale non era atto a resistere alla soldatesca indisciplinata, dì cui divenne come prigioniero. Allorquando A. apparve sui Campi Catalaunî (Châlons-sur-Marne), Tetrico stesso passò al campo nemico, durante la battaglia che s'era impegnata e che terminò con la disfatta dei Galli. Così anche l'Occidente venne riunito all'Impero, ricostituito in tutti i suoi confini, salvo la Dacia abbandonata.
Dopo questi avvenimenti, A. poté celebrare un trionfo (274 d. C.) che fu uno dei più fastosi che Roma abbia veduti e fu altresì uno dei più meritati. Tra ì prigionieri che seguivano il carro imperiale, si vide anche Tetrico, che però ebbe poi da A. le funzioni di correttore della Lucania. L'imperatore ebbe il titolo di restitutor orbis.
Ma il Senato non aveva dapprima accolto di buona voglia questo imperatore, proveniente dalle milizie; dopo la rotta di Piacenza, molti senatori si agitarono contro di lui, e non sappiamo se abbiano cercato di contrapporgli un competitore. Dopo le vittorie contro gl'invasori, A. entrò in Roma, e abbatté senza pietà il partito senatorio che gli si era mostrato ostile; si ebbe una lunga serie dì processi terminati con condanne e confische. Per quanto riguardava la forma, i rapporti tra l'imperatore e l'alta assemblea erano corretti, ma A. era sostanzialmente uomo d'armi e teneva a conservare all'Impero il carattere militare.
L'opera restauratrice di A. ebbe largo campo anche nella pubblica amministrazione, e in particolare nella parte finanziaria. Egli aveva trovato vuote le casse dello stato e non è da escludere che la durezza che metteva nelle confische fosse in parte dovuta ai bisogni del fisco. A sollevare le condizioni finanziarie dello stato giovarono molto le vittorie d'Oriente che diedero in mano all'imperatore i tesori di Zenobia, raccolti a Emesa e a Palmira. La moneta corrente d'argento era in questo tempo ridotta a una lega pessima; e ciò era in parte dovuto ai guadagni illeciti che vi cercava il numeroso personale a cui era affidata la coniazione. Quando A. volle porre termine a questi abusi, si trovò di fronte a una sollevazione capitanata dallo stesso direttore Felicissimo. La rivolta fu repressa, e, secondo quanto si afferma, molto sanguinosamente; la coniazione venne affidata alle zecche dello stato sotto la vigilanza di funzionarî imperiali: tuttavia il miglioramento della lega delle monete non fu notevole. Ma questa parte della storia di A. è rimasta molto oscura.
La sicurezza e gli abbellimenti di Roma, il mantenimento e l'igiene della popolazione occuparono molta parte dell'attività di questo imperatore. Prese provvedimenti per assicurare il servizio dell'annona, alla distribuzione del grano sostituì quella del pane, promosse l'uso dei bagni, emanò editti relativi alla polizia dei costumi e al lusso.
L'invasione degli Iutungi e degli Alamanni aveva dimostrato una dolorosa necessità. Gli ampî confini dell'Impero non erano sufficienti a difendere l'Italia e Roma dalla possibilità d'una minaccia nemica: A. volle che fosse fortificata Fano, e con l'approvazione del Senato diede inizio alla costruzione di mura attorno a Roma. Per lunghi secoli questa città non aveva avuto bisogno di tali difese: da quando, cioè, essa era uscita dalla cinta delle mura serviane. Le mura di A. (v. roma: Topografia) furono costruite in fretta, e sotto l'evidente preoccupazione della possibilità di una nuova invasione barbarica. Ma per un secolo e mezzo ancora nessun esercito nemico s'accostò a Roma.
A. era venuto all'impero con un forte sentimento di romanità del quale fu espressione la statua d'oro che volle dedicare al genio del popolo romano. La sua opera militare e politica fu compiuta con coscienza romana, mirò a rafforzare il potere centrale, e seppe opporsi a quelle tendenze disgregatrici che vinsero un ventennio dopo. Dall'Oriente egli portò a Roma il culto del Sole, a cui fece costruire un tempio, circondato di portici, del quale è ignoto il sito. Il Sole non proteggeva soltanto la persona dell'imperatore ma fu considerato il massimo protettore dell'Impero, e quindi fu posto a capo del culto pubblico romano. Per i rapporti col cristianesimo, importante, se si potesse considerarla come sicura, la sua decisione nei riguardi della sede episcopale di Antiochia (v. paolo di samosata): essa non sarebbe legittimamente occupata se non da colui che fosse riconosciuto dai vescovi d'Italia e di Roma. In altre parole, egli avrebbe affermata la preminenza di Roma e d'Italia nelle questioni relative all'amministrazione e alla disciplina ecclesiastica. Il che peraltro risponde ai criterî di accentramento che A. seguiva nella sua politica. Ma dottrinalmente è difficile ch'egli potesse rimanere nello stesso atteggiamento, o mostrare di non accorgersi della questione cristiana. Nell'ultimo periodo della sua vita, come ci viene tramandato, egli aveva assunto verso il cristianesimo un atteggiamento ostile, preparando o anche iniziando un'opera di persecuzione.
I trionfi militari di A. gli avevano data l'autorità necessaria a intraprendere l'opera di restaurazione della disciplina dell'esercito: e in quest'opera procedette col solito rigore inflessibile, che finì con l'allontanargli l'animo anche degli ufficiali che gli stavano più vicino. Dopo la celebrazione del trionfo, A. passò nella Gallia non ancora tranquilla, poi si affacciò sul Danubio, in ultimo si propose di passare in Asia, a quanto pare, per far guerra ai Persiani, vendicar la fine del suo protettore, Valeriano, e ripristinare più saldamente il prestigio dell'Impero in Oriente. Molto poteva attendere da lui il mondo romano. Ma sulla via tra Perinto e Bisanzio il pugnale dei suoi comandanti lo tolse di mezzo (275 d. C.).
Se si tolgono le iscrizioni, le monete e i papiri, le notizie più antiche che noi abbiamo sulla vita di Aureliano stanno nei frammenti di Dessippo, che fu contemporaneo di questo imperatore. Ma il resto della tradizione ci è noto da fonti più o meno tardive. Quelle greche risalgono principalmente a Eunapio, vissuto un secolo dopo di Aureliano. La biografia di Flavio Vopisco, che è il più ampio dei nostri testi, è farcita, specie nella prima parte, di dati e documenti o falsi o dubbî. Le altre fonti latine sono fra di loro imparentate e generalmente assai sommarie.
Bibl.: F. Fuchs, in De Ruggiero, Dizionario epigr., I, p. 930 seg.; Groaz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 1347 segg.; L. Homo, Essai sur le règne de l'emp. A., Parigi 1904; A. von Domaszewski, Gesch. der röm. Kaiser, II, Lipsia 1909, pp. 310-315; M. Rostovtzeff, Social and economic History of the Roman Empire, Oxford 1921, p. 407 segg.; H. Percy Webb, in Num. Chron., 1919, p. 235 seg. Per le mura di A., V. R. Lanciani, Le mura di A. e di Probo, in Bull. Arch. Comun., 1892. Per la politica religiosa di A., U. Fracassini, L'impero romano e il cristianesimo, Perugia 1913; G. Costa, Religione e politica nell'impero romano, Torino 1923, pp. 23 segg., 136 segg.