ATTIS ("Αττις, anche "Αττης; Attis)
Divinità frigia, strettamente collegata nel mito e nel culto con la Gran madre degli dei Cibele, e divenuta, come questa, centro di un mistero di carattere e contenuto soteriologico.
La Grande madre era una divinità anatolica. In quella regione montuosa, e che presenta un clima "estremo" (Cumont) con inverni rigidi e lunghi, a cui succede un rifiorire intenso ed esuberante della vegetazione, arsa poi dai calori estivi, la personificazione della vita della natura tende ad assumere un carattere di particolare vivacità, per cui la religione mira ad "alzarsi oltre la distinzione dei sessi. La sua essenza consiste nell'adorazione, sotto varie forme, della vita della natura, vita apparentemente soggetta alla morte e non mai spenta, ma sempre riproducentesi in nuove forme, differenti e pur sempre le medesime" (Ramsay, Luke the physician, Londra 1908, c. vi). La Gran madre è quindi, come la natura, concepita come un essere esuberante, che risiede sui monti, o nelle caverne, o in rocce, ed è appunto raffigurata in questa guisa, spesso con un corteggio di leoni. Divinità consimili si trovano anche altrove: Creta, p. es., ci mostra una divinità femminile e feconda, associata nel culto con il cielo fecondatore, detto Zeus; ma si tratta di uno Zeus giovanetto (κοῦρος), che muore e rinasce, figlio ed amante a un tempo della dea.
Tale religione anatolica fu abbastanza facilmente assimilata dai Frigi, quando essi invasero l'Asia minore. Il loro Sabazio presentava già nel carattere orgiastico del culto elementi affini a quelli di Attis; ne acquistò altri e la fusione fu presto completa.
Attis è dunque un dio della vegetazione: come tale muore e rinasce. Per promuovere e rendere più facile la ripresa della vita vegetale, è comune a molte popolazioni primitive una serie di riti, di carattere magico e poi simbolico, il cui significato e scopo generale è un trasferimento delle energie umane nella natura, della quale si ritiene così di accrescere le forze fecondanti; come in altro caso si trasferiscono nell'uomo le capacità fecondanti di varî animali. Si spiegano così le ferite e le automutilazioni, spesso dopo un periodo di astinenze, durante il quale l'individuo accumula maggiori energie. Così gli uomini si evirano, unendosi in tal modo, con una forma di morte ridotta, alla loro divinità; le donne probabilmente (cfr. S. Reinach, in Revue de l'Histoire des Religions, 1913, p. 277) si tagliano una mammella (Amazzoni). È segno di arcaismo il fatto che queste operazioni non vengono compiute con istrumenti di metallo, e tanto meno di ferro (acuto silice, Catullo; testa, Marziale, III, 81, 3). Ciò presuppone riti di carattere orgiastico e violento, durante i quali il fedele ha la sensazione di essere strettamente congiunto col dio, fino ad immedesimarsi con questo.
Il mito è pertanto strettamente collegato con il rito, e va interpretato come un "adombramento" (Turchi) od "obbiettivazione" (Pettazzoni) di questo. Il mito stesso, come in altre religioni dello stesso genere, doveva far parte del "racconto sacro" (ἱερὸς λόγος), la cui conoscenza permetteva all'iniziato la comprensione e la partecipazione al rito, attraverso il quale otteneva la sua immedesimazione con il dio, e la desiderata salvezza. Ma esso mito ci è pervenuto attraverso varie fonti, che rappresentano due versioni distinte.
La prima si svolge nella Lidia. Ermesianatte (in Pausania, VII, 17, 9) descrive Attis come un Frigio, che, recatosi in Lidia, insegnò a quelle popolazioni il culto orgiastico della Gran madre. Zeus gli suscitò contro un cinghiale, che lo uccise. Questa versione, in cui il mito di Attis è riavvicinato a quello di Adone, ha carattere eziologico, in quanto vuole spiegare l'immolazione del cinghiale, considerato animale sacro, prima per favorire lo sviluppo della vegetazione, poi in onore dello stesso Attis; e la conseguente interdizione di cibarsene. Dalla stessa versione, trasformata, dipende Erodoto, che ci racconta (I, 34-35; IV, 76) come Atys, figlio di Creso, fosse ucciso durante una caccia al cinghiale dal frigio Adrasto.
Ma un'altra versione, che ai critici moderni sembra molto più completa ed originale, è raccontata dallo stesso Pausania (ibidem) e da Arnobio di Sicca (Adversus Nationes, V, 5-7) che accenna, come fonte, a Timoteo "non ignobilem theologorum unum" (secondo varî scrittori, lo stesso ai consigli del quale Tolomeo Filadelfo ricorse per istituire il culto di Serapide) che avrebbe ricavato le sue notizie dalla conoscenza diretta del culto (ex intimis... mysteriis). Sull'immensa rupe Agdos (onde Deucalione e Pirra trassero le pietre con cui ripopolarono il mondo) Zeus tenta di possedere la Gran madre: questa gli resiste, e il seme di Zeus cade sulla pietra, che genera Agdistis. Lo stesso Zeus, per vendicarsi di Cibele, finge di evirarsi e le gitta invece in grembo i testicoli d'un montone (questa parte del mito è destinata a spiegare la castrazione della vittima nel "criobolio" e nel "taurobolio"). Agdistis è una creatura bisessuale e lussuriosa, di forza invincibile, sfrenata e selvaggia; tanto che gli dei pensano di moderarla, e Dionisio (Liber) si assume questo compito. Infatti ubbriaca Agdistis (versando del vino nella fonte in cui era solito dissetarsi) e, mentre dorme, ne lega i genitali maschili, con un laccio di setole, a una pianta. Agdistis, risvegliandosi ed alzandosi impetuosamente, si priva del sesso maschile; dal sangue che sgorga copioso nasce un mandorlo (ἀμυγδάλη, Pausania; secondo Arnobio invece è un melograno, malum punicum: ma si tratta probabilmente di contaminazione con il mito di Eleusi), il cui frutto piace a Nana, figlia del re e fiume Sangario, e la ingravida. Il padre segrega Nana, sperando muoia di fame, ma la stessa madre degli dei la nutre, finché nasce Attis; questi, cresciuto in età, e divenuto bellissimo, è amato da Agdistis che un giorno confessa, sotto l'azione del vino, questa passione. Allora il re di Pessinunte, Mida (o Gallo), per evitare un accoppiamento così orrendo, destina in moglie ad Attis la propria figlia e fa chiudere le porte della città. La Gran madre vi penetra per cercare di impedire le nozze, sapendo il male che sta per derivarne; ma sopraggiunge anche Agdistis, irata e gelosa, e infonde in tutti i convitati il suo furore selvaggio; la sposa si taglia le mammelle, Attis, gettatosi sotto un pino, si evira, e consacra i suoi genitali ad Agdistis: quindi muore. Ma dal sangue nascono viole, di cui l'albero si corona. Il mito, che rivela abbastanza chiaramente la giusta posizione di due racconti, mostra anche la tendenza dei Frigi, già segnalata, a concepire la divinità come bisessuale, attraverso una fusione delle due figure divine che rappresentano il Cielo fecondatore e la Terra fecondata, in un unico essere, in cui si concentra tutta la capacità generatrice della natura. Esso mira insieme a spiegare i varî atti, e gl'istrumenti del culto, in cui probabilmente ogni parte del mito doveva trovare una corrispondenza precisa: ché, in realtà, e come s'è detto, il mito, appunto in quanto cerca di spiegare il rito, è secondario di fronte a questo. Se poi esso non allude esplicitamente alla risurrezione del dio, osserviamo in primo luogo che Attis in verità non muore mai completamente, e che un passo di Firmico Materno (De errore profanarum religionum, 3) vi accenna.
In ogni modo, è chiaro che la religione frigia ebbe una speciale venerazione per Attis, e che gl'iniziati, e soprattutto i sacerdoti (con la loro evirazione), stabilivano un contatto più immediato e diretto tra sé e il dio. Ma non è forse possibile stabilire con sicurezza se e quando siano sorti in Frigia veri e proprî misteri: benché, con la perdita dell'indipendenza, conservando solo Pessinunte una sua autonomia teocratica, si verificassero condizioni che possono sembrare favorevoli al sorgere dei misteri.
Questi furono diffusi nel mondo mediterraneo dai numerosi Frigi emigratí. La prima menzione di Attis in Grecia si trova nel sec. IV a. C.; ma in territorio ellenico il culto si m0dificò abbastanza profondamente, assimilandosi in molti punti a quello di Demetra, come dimostra, tra l'altro, la formula recitata dal mista (homo moriturus) che ci è stata tramandata da Clemente Alessandrino (Protrepticus, II, 15) e, in forma alquanto diversa, da Firmico Materno (op. cit. 18): non solo l'andamento generale di essa, ma l'allusione ad atti e strumenti del culto rivela la somiglianza. Si ebbe così un vero e proprio "mistero", in cui attraverso l'iniziazione, che comprendeva forse un accoppiamento simbolico con la divinità (anche l'evirazione ha, per quanto possa apparire strano, un valore ierogamico), si acquistava la certezza della risurrezione.
In Italia i misteri di Attis penetrarono dapprima, probabilmente, attraverso le città greche dell'Italia meridionale. In Roma il culto di Cibele (v.) entrò, in seguito alla consultazione degli oracoli sibillini, ufficialmente nel 204 a. C.; e da Roma, dove ebbe un tempio sul Palatino e un suo sacerdozio regolato da una legislazione speciale, si diffuse nel resto dell'Impero. Si discute però se anche Attis sia venuto in Roma insieme con la Magna mater.
L'iconografia di Attis consiste quasi tutta in monumenti romani, bassorilievi (tra cui uno rappresentante Attis e Agdistis, nel Museo di Berlino), statuette, monete. Di grande importanza è la statua rappresentante Attis in riposo, nel Museo lateranense in Roma, in cui il dio è rappresentato con attributi che ne dimostrano abbastanza chiaramente la natura di dio della vegetazione. Essa reca l'iscrizione: Numini Attis C. Caecilius Euplus ex monitu deae.
Bibl.: Le fonti principali sono riunite in: N. Turchi, Fontes historiae mysteriorum aevi hellenistici, Roma 1923. Oltre alle opere citate, si veda: W. M. Ramsay, articolo Phrygians, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, IX, p. 900 segg., Edimburgo 1917; F. Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano (trad. ital.), Bari 1913; H. Hepding, Attis, seine Mythen und sein Kult, Giessen 1903; J. G. Frazer, Adonis, Attis, Osiris, Londra 1907; N. Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, Roma 1923; R. Pettazzoni, I misteri, Bologna 1923; per la diffusione: F. Cumont, Attis, in E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, I, Roma 1895, p. 763 segg.; id., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 2247 segg.; J. Toutain, Les cultes païens dans l'empire romain, II, i, Parigi 1911, pp. 73-119; H. Graillot, Le culte de Cybèle mère des dieux à Rome et dans l'empire romain, Parigi 1915; per l'iconografia, Haas, Bilderatlas für Religionsgeschichte, Lipsia-Erlangen 1926, I, nn. 134-148.