MOMIGLIANO, Attilio
MOMIGLIANO, Attilio. – Nacque a Ceva, in provincia di Cuneo, il 7 marzo 1883 da Felice e da Sofia Debenedetti. Frequentò la facoltà di lettere dell’Università di Torino.
La facoltà era allora una delle roccaforti accademiche del «metodo storico», dove insegnavano, tra gli altri, A. Graf (letteratura italiana) e R. Renier (letterature neolatine), fondatori, nel 1883, con F. Novati del Giornale storico della letteratura italiana; la formazione del M. si svolse dunque in un’atmosfera culturale rigidamente condizionata dal modello della «filologia germanica» che, paradossalmente, avrebbe suscitato l’insofferenza del M. studente e poi dello studioso, fino dalle sue prime prove, nei confronti del progetto scientifico (e didattico) della scuola storica.
Il periodo di formazione del giovane M. fu per questo così tormentato da fargli revocare in dubbio la scelta di dedicarsi agli studi letterari, come conferma una lettera all’amico G. Gallico da Firenze, dove il M. si trovava come perfezionando presso l’Istituto di studi superiori.
In essa il M. traccia un bilancio negativo della propria situazione intellettuale e morale – «La mia vita all’infuori degli studi è poca cosa. Anzi, nemmeno gli studi non sono la mia vita […]. Nessuno è più convinto di me della miserabile vanità degli studi critici: eppure non faccio altro» – non senza un accenno agli «anni tristi» torinesi (Lettere scelte, pp. 1-3). Considerazioni verosimilmente ascrivibili a uno stato di depressione, che tuttavia sembrano affondare le proprie radici in profondità, in una inquieta e pessimistica, ma non per questo meno lucida e consapevole, visione del mondo. Anche parecchi anni dopo molto severo il giudizio sulla scuola storica, quando la critica letteraria di impianto positivista impietosamente «inchiodava sul tavolo anatomico la poesia» e, alla ricerca di concretezza, «finiva per farla morire di astrattismo»; i cui esponenti «o non si occupavano dei viventi, o esaurivano il loro studio in osservazioni esterne e in questioni generiche di tecnica; e avevano, per lo più, scarsa attitudine al vero giudizio letterario» (Studi di poesia, Bari 1948, p. 210 [ampliamento della 1a ed., ibid. 1938] ), quando non erano dediti a ricerche «nell’ambito di quella grande e spesso oziosa corrente comparatista che fu la storia dei motivi attraverso la letteratura e la tradizione», o peggio travolti (come è il caso del maestro Graf) dalla «ventata» della critica psicoantropologica. (Ultimi studi, a cura di W. Binni, Firenze 1954, pp. 125 s.).
Si legge in una pagina del suo libro postremo e postumo, intitolato – quasi come un presentimento – Ultimi studi, a proposito dell’apparizione dell’Estetica di B. Croce (1902) e della sua rivista La Critica (1903): «L’una e l’altra segnarono subito un periodo nuovo nella storia degli studi. [...]. Non sapevo affatto, credo, chi fosse Croce: ma quando seppi a cosa mirava il suo libro e che la “Critica” si proponeva come suo primo programma la valutazione della letteratura contemporanea, mi parve d’aver trovato quello che mi mancava». La lezione della prima Estetica e le «esemplificazioni» apparse nella Critica ebbero quindi soprattutto il significato di emancipazione da una cultura storico-letteraria e da una poetica critica ormai declinanti (ibid., pp. 3 s.), esercitando un effetto di incoraggiamento all'interpretazione fondamentalmente estetica del testo letterario. Anche se, per un equivoco pedissequamente ripetuto, l’opera critica del M. è stata archiviata come un epifenomeno del crocianesimo, addirittura una manifestazione di «oltranza» crociana.
Il M. riconosce infatti all’Estetica il valore di spartiacque tra due secoli di civiltà letteraria, ma, sempre più diffidente della speculazione astratta, negli anni della crescente fortuna del crocianesimo, non dimostra alcun interesse per gli sviluppi teoretici e normativi della teoria crociana dell’arte, come conferma la confessione critica premessa, con il titolo L’interpretazione della poesia, al primo volume dell’Antologia della letteratura italiana, pubblicata nel 1930, ove tra l’altro si legge un inequivocabile giudizio sull’estetica crociana e, più in generale, sulle sue applicazioni alla chose littéraire: «Quando abbiamo ben meditato sulla sua [dell’arte] essenza e studiato le definizioni dei filosofi, rimangono sempre in noi l’insoddisfazione e la commozione di un fenomeno che sfugge alla freddezza e alla precisione d’una formula» (Antologia della letteratura italiana, I, Milano-Messina 1967, pp. VI s.). E nella Storia della letteratura italiana, di qualche anno successiva, farà appena un rapido riferimento all’Estetica, per dar sommariamente conto piuttosto del Croce «giudice dei capolavori» del periodo da G.B. Vico a F. De Sanctis, ma sempre più «scontento» dei contemporanei: «di qui quel dissidio tra lui e i giovani» (Storia della letteratura italiana, ibid. 1951, pp. 566 s.).
Laureatosi in lettere nel 1905 (con Graf) e in filosofia l’anno successivo, concluse la propria preparazione a Firenze presso l’Istituto di studi superiori, altra cittadella del metodo storico; quindi dal 1906 al 1920 si dedicò all’insegnamento negli istituti secondari (Saluzzo, Savona, Treviglio, Asti, Bologna, Nuoro, Catania, Torino). Dal 1920 al 1924 fu docente di letteratura italiana presso l’Università di Catania, dal 1925 al 1934 in quella di Pisa e dal 1934 a Firenze: una vita schiva, tutta dedita all’insegnamento e alla ricerca che all’improvviso venne drammaticamente sospesa, nel 1938, dalla promulgazione delle leggi razziali.
Della nobile reazione del M. a tanta iniquità reca testimonianza L. Russo che, nel 1943 scrive: «Non ho mai colto un lamento, una querela, una parola di protesta sulle sue labbra» ( p. 515). Così l’ebreo M. fu costretto ad abbandonare la cattedra fiorentina, rinunciò a un invito a trasferirsi in Inghilterra e, ritiratosi a vita privata, continuò fino al 1943 a collaborare sporadicamente a riviste e iniziative editoriali con lo pseudonimo Giorgio Flores.
Nella premessa ai Cinque saggi (Firenze 1945) si legge, a proposito della «morte civile» alla quale fu condannato: «Nel “Leonardo” questi saggi erano firmati da Giorgio Flores. Lo pseudonimo mi fu imposto a mia insaputa, come il vero nome alquanto tempo prima; e io l’ho portato per quattro anni, con rassegnazione. Stavo anzi per riunire queste pagine col titolo “Giorgio Flores, Primi saggi, quando sopravvennero tempi da togliere la voglia di fare lo spiritoso» (p. 5).
A seguito dell’occupazione nazista e dell’incubo della cattura e della deportazione, il M. e la moglie, Haydée Sacerdoti, si rifugiarono dapprima a Bologna, quindi a Città di Castello e da ultimo a Borgo San Sepolcro, dove rimasero nascosti per otto mesi in una clinica sotto false generalità. In quello spazio concentrazionario il M. divise il suo tempo di angoscia fra l’assistenza alla moglie, gravemente malata, e il commento alla Gerusalemme, che vide la luce a Firenze nel 1945.
Nella premessa: «Devo al Tasso e a Dante le due o tre ore di assenza che la sorte mi concedeva quasi ogni giorno. Nel pomeriggio, mentre mia moglie si assopiva dopo gli assidui terrori del giorno e della notte, io dimenticavo che ad ogni minuto un calcio improvviso poteva spalancare la mia porta, e mi sprofondavo a poco a poco nel mondo lontano della poesia. Devo dire che, se per questa io sono sempre vissuto, per questa soltanto sono sopravvissuto» (T. Tasso, La Gerusalemme liberata, edizione scolastica commentata da A. Momigliano, Firenze 1948 [1a ed., ibid., 1945], pp. VIIs.). E Tasso fu l’argomento del primo corso dopo il ritorno sulla cattedra dalla quale era stato cacciato.
Durante il periodo d’insegnamento nelle scuole medie, il M. si era occupato inizialmente di autori in diverso tempo e modo riferibili alla problematica del comico e dell’umorismo, a cominciare da C. Goldoni – nel 1904 esordì con Lo stile e l’umorismo nel «Bugiardo» di Goldoni (Asti, poi rifluito, con altri scritti in Primi studi goldoniani, Firenze 1922) – per proseguire con Cecco Angiolieri e arrivare al Pulci (con il ponderoso L’indole e il riso di Luigi Pulci, Rocca San Casciano 1907) e il Porta (L’opera di Carlo Porta. Studio compiuto sui versi editi ed inediti, Città di Castello 1909).
Tali opere, mentre rinviano a una discussione teorica di grande attualità nel primo quarto del Novecento (Le rire di Bergson è del 1899; L’umorismo di Pirandello del 1908; La dottrina del riso e dell’ironia in Giambattista Vico di Croce del 1910), delineano contemporaneamente la tendenza del giovane M. all’identificazione, nelle pagine dei suoi autori, di personaggi e tipi, secondo «la maniera tipeggiante avviata e prediletta dalla vecchia critica romantica», ma che, nei primi anni del secolo, suggeriva una via di fuga dall’asfittica atmosfera del metodo storico» (Russo, p. 533). Compare, così, fino da questi primi scritti, un tratto fondamentale della critica psicologico-descrittiva del Momigliano.
E già da questo primo tempo merita comunque segnalare la sua predilezione per A. Manzoni, l’autore che più sentì congeniale. Nel 1913 pubblicò a Genova il saggio su L’Innominato; l’anno successivo inaugurò la copiosa serie dei suoi commenti con le Liriche scelte (Città di Castello 1914); nel 1917 La trasformazione degli «Sposi promessi» (in Giornale storico della letteratura italiana, LXX [1917], pp. 61-107, 254-280), lavori preparatori alla monografia intitolata al «gran lombardo», datata 1913-18, pubblicata a Messina in due riprese, nel 1915 La vita, e nel 1919 Le opere, rielaborata infine nel 1948, punto di riferimento ineludibile della critica manzoniana del XX secolo. Infine, nel 1951 a Firenze, il commento ai Promessi sposi, dedicato alla memoria della moglie.
Per il M. il commento fu un «tentativo di rifarla [la poesia] da un altro punto di vista, di scinderla nelle sue parti per poi riprodurla di scorcio, di riecheggiarla nell’atto stesso del giudizio», perciò è «insostituibile come il verso di un poeta» (Antologia, I, pp. XIII e X). E così, dopo l’Antologia di Carlo Porta (Genova 1913), con il commento alle Opere scelte di Goldoni (Napoli 1914) e alle Liriche scelte di Manzoni, dette inizio alla più ricca serie novecentesca di edizioni commentate di classici italiani per le scuole. Seguirono, intercalate dall’attività più propriamente saggistica e alla collaborazione a quotidiani (fra tutti il Corriere della sera) e periodici, le edizioni di V. Alfieri (Saul e Mirra, rispettivamente Catania 1921 e Firenze 1923); A. Poliziano, Le Stanze, l’Orfeo e le Rime (Torino 1921); G. Boccaccio, Il Decameron. 49 novelle (Milano 1924); G. Parini, Il Giorno (Catania 1925); G. Berchet, Liriche (Firenze 1926); U. Foscolo, Prose e poesie scelte (Messina 1929). Quindi, dopo la forzata interruzione dovuta alla persecuzione razziale, T. Tasso, La Gerusalemme liberata (Firenze 1946) e i due commenti meritatamente famosi alla Divina Commedia (ibid. 1945-48) e ai Promessi sposi (ibid., 1951). È stato detto e ripetuto che nei commenti ai classici la personalità critica del M. offre la miglior prova di sé grazie a una raffinata attitudine descrittiva che comporta una limpida semplificazione fondata su di una rara capacità di intuizione psicologico-morale (quello che Russo designava come «passo cauto e felpato di psicologista», p. 533).
Dei molti testi nati dalla pratica dell’insegnamento, occupano un posto centrale nella produzione del M. – anche per la diffusione che ebbero fin oltre la metà del Novecento – l’Antologia della letteratura italiana, apparsa in tre volumi nel 1930-31 (Messina-Milano, poi «interamente riveduta» vent’anni dopo, a partire dalla nona edizione) e, a seguire, la Storia della letteratura italiana (ibid.) pubblicata sempre in tre volumi fra il 1933 e il 1935 («interamente riveduta» nel 1950-51, a partire dall’ottava edizione).
Da rilevare come il disegno della Storia prenda vita e forma dal preliminare esercizio di antologizzatore e commentatore, questa volta, di tutti gli autori della tradizione italiana. Alla Antologia è premesso l’unico testo «teorico» del M., la già ricordata Interpretazione della poesia che comincia illustrando la condizione necessaria all’esperienza della poesia: «La sua voce non può risuonare che nel silenzio, quando il mondo della realtà è svanito e quello delle nostre passioni dorme»; tale esperienza inizia con la lettura che, nell’isolamento dal mondo reale, dischiude la «visione d’un mondo più vivo e più affascinante dell’altro» nel quale «la nostra persona stessa si annulla». «Potere» misterioso dell’arte vera che nessuna estetica potrà spiegare, perché di contro sulle teorie sull’arte prevale soltanto l’«esperienza critica» immediata del lettore. «Leggere è scoprire la poesia; perciò la lettura è il principio della critica», anche se «capire la poesia è duro», perché comporta vincere l’«ottusità» dell’esistenza quotidiana. Non occorrono mediazioni tra il lettore e il testo: il lettore che rinnova dentro di sé il miracolo della poesia ha comunque sempre ragione sul critico di professione. Di qui evidentemente la cautela raffinatamente descrittiva e idealmente parafrastica dell’approccio critico del M., il significato del suo «impressionismo», perché lettore e critico, proprio come il poeta, creano: «Il critico, dopo il poeta, trae le parole ad una seconda vita. E perciò la critica estetica è per lo più così falsa […]. Non c’è verità detta intorno a un libro di poesia, che duri se non è una verità comprensiva, se non è insostituibile come il verso di un poeta. Quasi tutta la critica estetica muore: ha la sorte dell’arte mancata, tutta luce superficiale, tutta frammenti dispersi». Dall’impressione all’espressione: passaggio non facile, anche quando si sia intuita la verità di un’opera d’arte, perché «la critica è, non dico una gara con la poesia, ma un tentativo di rifarla da un altro punto di vista […]. La critica è insieme riflessione e poesia; questa è la sua difficoltà più grave». Quali allora le doti essenziali richieste al lettore di poesia? «Una ricca vita intima e una straordinaria capacità di trasferirsi nelle anime più disparate» (Antologia, I, cit., pp. VII-XV).
Riassumendo: no esplicito alla critica estetica della vulgata crociana «intorbidata con discussioni teoriche», no implicito alla critica erudita, no alla critica dei rabdomanti di frammenti poetici (alla De Robertis, per intenderci), ma anche allo storicismo, divenuto ormai il senso comune della critica sia accademica sia militante. La critica secondo il M., fondata sulla convinzione della irriducibilità della poesia alla conoscenza storica, è ascolto degli autori, lettura religiosamente sommessa degli spartiti letterari, ricerca nelle figure letterarie di quell’unico protagonista che è lo stato d’animo dell’artista creatore, da parte del critico che, dimentico di se stesso, officia come un sacerdote il culto della poesia, rinnovandone il miracolo. Di conseguenza, la storia letteraria è concepibile soltanto come una serie di capitoli monografici incentrati su singole personalità. Tutte le questioni di ordine sociologico, ideologico, filologico, strutturale riguardanti opere e autori perdono di significato: la storia della società, delle idee, del gusto, delle poetiche e delle tecniche letterarie sarà appena accennata sullo sfondo, perché la lettura così asceticamente concepita si appaga di epifanie di poesia incentrate sulla personalità dei singoli creatori e sull’avvicendarsi di forme espressive, anche se, per ovvie esigenze didattiche, nella stesura del testo il M., procedendo dal primo al terzo volume dell’Antologia, come della Storia, deve venire a compromessi sempre più palesemente avvertibili.
Date queste premesse di metodo, si comprende perché il maestro M., pur capace di affascinare studenti e lettori, non abbia creato una scuola. Luigi Russo – che gli fu amico ed estimatore sincero, pur nella divaricazione sostanziale tra il suo robusto storicismo e l’«impressionismo stilistico-sentimentale» del M., «un maestro dal quale si poteva dissentire ma che intanto faceva nascere qualche cosa di nuovo nell’aria» – primo ebbe a rilevare come non ci sia stata mai nel collega «l’ambizione e la vigoria pedagogica del caposcuola» (pp. 532, 534, 515).
Ai commenti, ai saggi monografici del primo tempo del M., sono da aggiungere il Giovanni Verga narratore. Consensi e dissensi (Palermo 1923) e soprattutto il Saggio sull’Orlando Furioso (Bari 1928), libro nel quale «egli ha effuso la sua vena di poeta» (Russo, p. 539) di poeta, si potrebbe aggiungere, romantico-decadente. Caratteristica delle sue raccolte di saggi e scritti sparsi è non solo l’eterogeneità nella scelta e nell’accostamento dei soggetti, ma anche la disparità di consistenza critica.
Così, per esempio, nella prima raccolta, Impressioni di un lettore contemporaneo (Milano 1928) accanto a recensioni e articoli di quotidiani, studi veri e propri apparsi nella Rivista di Milano, Siciliana e Il Giornale d’Italia, ma anche nel Giornale storico della letteratura italiana: G. D’Annunzio, G. Pascoli, Graf, M. Praga, G. Cena, C. Pastonchi, G.A. Cesareo, Amalia Guglielminetti, Ada Negri, G. Papini, P. Pancrazi, L. Pirandello, G.A. Borgese accanto a C.-T.-H. de Coster e H. Barbusse e così via accomunati sotto l’etichetta «impressioni». Non quindi un bilancio consuntivo di letteratura tra fine secolo e primo Novecento; piuttosto un insieme di pagine critiche, ma anche di materiali inerti che si giustifica affidando il giudizio finale su opere e autori al pubblico dei lettori, così anticipando la proposizione più estrema della futura Introduzione, il rito della lettura-ascolto della voce dei poeti non ammettendo intermediari. Al critico di professione registrare il giudizio dei più. Considerazioni strutturali che valgono anche per le altre raccolte di articoli: i già citati Studi di poesia e gli Elzeviri (Firenze 1945): in contraddizione con i proclamati diritti del pubblico della poesia, il critico non intende rinunciare ad alcuno dei suoi esercizi critici.
Altro discorso ovviamente meritano ancora oggi il Dante, Manzoni, Verga (Messina 1944); i Cinque saggi dell’anno successivo, l’Introduzione ai poeti (che comprende le introduzioni ai classici commentati, Roma 1946) e infine le raccolte postume Ultimi studi e Saggi goldoniani, (a cura di V. Branca, Firenze 1959): cinque libri, con i due ultimi grandi commenti, che onorano il senso di una vocazione e di un destino. Certo è che gli anni dal 1945 alla morte, furono straordinariamente operosi, quasi a compensare il forzato silenzio degli anni 1938-44.
Senza contare saggi e recensioni disseminate in riviste, nel 1945 il M. raccolse i saggi apparsi nella rivista Leonardo (Cinque saggi) e gli articoli pubblicati nel Corriere della sera (Elzeviri); nel 1946, oltre al commento tassesco, l’Introduzione ai poeti, silloge delle introduzioni ai testi già commentati e il commento alla Commedia; tra il 1948 e il 1951 diresse la serie dei Problemi ed orientamenti critici di lingua e letteratura italiana; nel 1951 apparve il commento ai Promessi sposi, e preparò la raccolta degli Ultimi studi; ormai prossimo a morte progettò un libro su Dante da ricavare dalle note del commento.
Il M. morì a Firenze il 2 apr. 1952.
«Le critique n’est qu’un homme qui sait lire et qui apprend à lire aux autres»: la celebre formula di Sainte-Beuve (che lo stesso M. evoca: Antologia, I, p. VIII) è quella che meglio potrebbe riassumere ermeneutica e maieutica di un critico eccentrico rispetto al suo tempo, «fuori dalla comune linea di tutti i critici crociani» (Russo, p. 512), che semmai si potrebbe accostare ad altri isolati. Merita in proposito ricordare come M. Fubini abbia iniziato la sua commemorazione di Momigliano il 13 dic. 1952 all’Accademia nazionale dei Lincei citando il necrologio di E. Donadoni scritto da Momigliano: «nessuno ha saputo vedere così bene come lui in una lirica, in un poema, in un romanzo la biografia spirituale di chi li scriveva […]. La critica del Donadoni è, come non è quasi mai per nessuno, la sua vita». De se fabula narratur perché in queste parole – soggiungeva Fubini – «ci par di scorgere insieme col ritratto del Donadoni, il ritratto suo» e un’idea della critica come «non mero esercizio d’intelletto ma vita, scoperta attraverso lo studio dei poeti del suo più intimo essere, superiore autobiografia» (M. Fubini, Critica e poesia, Bari 1966, pp. 427 s.).
Fonti e Bibl.: Una prima bibliografia degli scritti del M. dal 1904 al 1960 (per un totale di 263 titoli) è di A. Di Preta in La Rassegna della letteratura italiana, LXIV (1960), 2, pp. 248-255. A questa ha fatto seguito la Bibliografia di e sul M. che correda il saggio di G. Di Pino, A. M., in Letteratura italiana (Marzonati), I critici, IV, Milano 1969, pp. 2091-2122; meno attendibile quella che conclude lo studio monografico di P. Tuscano, Critica e stile di A. M., Bergamo 1971, pp. 192-200, per le troppe sviste e omissioni soprattutto nell’elenco di Rassegne e articoli non raccolti in volume che non tiene conto della raccolta Impressioni di un lettore contemporaneo, Milano 1928. Una integrazione degli scritti di e sul M. offre A. Biondi in appendice ad A. M. Atti del convegno di studi nel centenario della nascita... 1984, a cura di A. Biondi, Firenze 1990, pp. 255-274. Lettere del M. sono state pubblicate dall’amico G. Gallico, Lettere di A. M. ad un amico, in Nuova Antologia, giugno 1959, pp. 245-254 e Il Ponte, XVIII (1962), pp. 377-387; una più cospicua silloge è apparsa nel 1969 a cura di M. Scotti: A. Momigliano, Lettere scelte, premessa di U. Bosco, Firenze (in appendice, pp. 263-286, inediti Appunti sulla Sardegna). Quindi Lettere inedite di A. M. ad A. Capitini, a cura di P. Tuscano, in Esperienze letterarie, VI (1981), 1, pp. 71-87 e alcune Lettere inedite a G. Gallico, a cura di A. Biondi, in appendice a Il silenzio della lettura, Padova 1984, pp. 333-342 (in una seconda appendice anche due scritti dispersi di argomento pascoliano e dannunziano apparsi in riviste minori, rispettivamente nel 1904 e nel 1905). B. Croce, Libri di critica e di storia della critica letteraria, in Conversazioni critiche, s. 2, Bari 1950, [1a ed. 1918], pp. 273-274; G. Marzot, Pagine sul M., in La Nuova Italia, VI (1935), 2, pp. 339-349; C. Dionisotti, Studi di poesia, in Giorn. storico della letteratura italiana, CI (1938), pp. 323 s.; L. Russo, La critica letteraria contemporanea, Firenze 1967, pp. 512-528 [1a ed. 1943]; R. Ramat, Polemica del M., in Id., Ragionamenti morali e letterari, Bari 1945, pp. 149-156; G. Bellonci, A. M., in Mercurio, III (1946), 29, pp. 127-131; R. Macchioni Jodi, Romanticismo del M., in Convivium, I (1947), pp. 623-626; G. Petronio, Un maestro: A. M., in Nuova Antologia, maggio 1947, pp. 66-76; C. Varese, A. M., in Convivium, III (1950), 3, pp. 434-440; M. Valgimigli, A. M. [1952], in Id., Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze 1965, pp. 501-503; M. Fubini, Commemorazione di A. M. [1952], in Critica e poesia, Bari 1956, pp. 425-443; E. Cecchi, A. M. [1953], in Id., Di giorno in giorno, Milano 1977, pp. 322-327; V. Branca, A. M. in Siculorum Gymnasium, n.s., VI (1953), pp. 29-42; A. Borlenghi, La critica letteraria dal De Sanctis a oggi, in Letteratura italiana. (Marzorati), Le correnti, Milano 1957, pp. 1015-1018; M. Scotti, A. M., in L’Italia che scrive, novembre 1959, pp. 237-240; W. Binni, A. M. [1960], in Id., Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1969, pp. 219-243; C. Cordié, Ricordo di A. M., in Studi in memoria di C. Sgroi (1853-1952), Torino 1965, pp. 89-93; E. Bonora, Gli studi goldoniani di A. M., in A. Momigliano, Le opere di Carlo Goldoni, Torino 1967, ad. ind.; L. Piccioni, Maestri e amici, Milano 1969, pp. 76 s.; L. Baldacci, I critici italiani del ’900, Milano 1969, ad. ind.; E. Falqui, M. e la valutazione estetica, in Id., Novecento letterario italiano, I, Firenze 1970, pp. 108-125; E. Bigi, A. M., in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, II, Padova 1970, pp. 546-571; M. Apollonio, I contemporanei, Brescia 1971, pp. 621 s.; F. Mazzoni, Introduzione a Dante Alighieri, La Divina Commedia, con i commenti di T. Casin - S. A. Barbi - A. Momigliano, I, Inferno, Firenze 1972, pp. XI-XXVIII; F. Rodolico, Qualche ricordo alla rinfusa, Firenze 1977, pp. 135-139; M. Puppo, La critica letteraria del Novecento, Roma 1978, pp. 33-36; A. Vallone, La critica estetica e stilistica, in Id., Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, II, Milano 1981, pp. 966-969; Atti del convegno su A. M. nel centenario della nascita... 1983, Ceva 1984 (interventi di A. Martini, Gli ebrei a Ceva: i Momigliano, pp. 10-20; M. Puppo, M. o la critica come colloquio, pp. 21-29; F. Montanari, Ricordo di A. M., pp. 30-33; G.G. Amoretti, M. al liceo di Savona, pp. 34-36); G. Pampaloni, Fedele alle amicizie, Brescia 1984, pp. 33-35; A. Biondi, Il silenzio della lettura, cit.; L. Blasucci, la collaborazione di A. M., in Cent’anni di Giornale storico della letteratura italiana. Atti del Convegno... 1983, Torino 1985, pp. 271-291; V. Branca, Un maestro di poesia come ragione di vita, in Id., Ponte Santa Trinita ..., Venezia 1987, pp. 65-78; A. M. Atti del convegno di studi nel centenario della nascita ...1984, a cura di A. Biondi, Firenze 1990 (relazioni di: W. Binni, Introduzione al Convegno, pp. 3-16; G. Petrocchi, Gli studi danteschi, pp. 17-26; G. Ponte, Gli studi sul Pulci e sull’Ariosto (e sul Boccaccio e il Poliziano), pp. 27-48; G. Savarese, M. e il Settecento, pp. 49-64; R. Cardini, neoclassicismo, Momigliano, Praz, pp. 65-102; G. Bezzola, Gli studi sul Porta, pp. 103-114; E. Raimondi, Il commento manzoniano, pp. 115-144; E. Ghidetti, Il lettore dei contemporanei, pp. 145-168; A. Biondi, Il silenzio della scrittura, pp. 169-205. Testimonianze di Spongano, C. Varese, P. Bigongiari, G. Di Pino, F. Montanari. Conclusione di V. Branca. In appendice: A. Biondi, Integrazione alla bibliografia degli scritti di e su Attilio Momigliano fino al 1987, pp. 255-274); E. Ghidetti, A. M.: ‘leggere’ e ‘sentire’ i contemporanei, in Id., Il tramonto dello storicismo, Firenze 1993, pp. 47-74; S. Gentili, La critica letteraria del Novecento (1900-1960), Firenze 1996, pp. 16-17, 34-35.