DE MARCHI, Attilio
Nacque a Milano, da Giovanni e da Caterina Perego, il 18 marzo 1855, in una famiglia non facoltosa, ma certo impegnata e capace d'impartire ai quattro figli (Emilio, Luigi e Odoardo oltre al D.) una compiuta educazione universitaria. L'ambiente domestico dev'essere stato cattolico liberale e benpensante, con una forte propensione a un aperto cattolicesimo nell'indiscussa accettazione dello Stato unitario statutario italiano.
Milanese d'origine, il D. fu, o tosto divenne, milanese per vocazione. Dalla sua città, infatti, non si allontanò mai. Qui studiò, qui s'iscrisse all'accademia scientifico-letteraria di via Borgonuovo, dove ebbe maestri G. I. Ascoli, in ispecie, V. Inama e A. Coen. A quest'ultimo, nel messaggio per il commiato dalla cattedra fiorentina (cfr. l'opuscolo A Achille Coen, Firenze 1911, pp. 17 s.), il D. rammentò d'essere stato uditore della prolusione milanese, il 1879, che fu l'anno della sua laurea in lettere antiche.
A Milano quindi iniziò il tirocinio d'insegnante medio, dal 1883 in poi presso i collegi militari; entrava frattanto in rapporto con l'editore Francesco Vallardi, che gli affidò la direzione di una collana di classici latini annotati per le scuole. Il D. vi curò in proprio parecchi autori, massime quelli che più aiutavano a intendere i vari aspetti (politici, militari, istituzionali, ecc.) della vita romana, di quelle "antichità" che, libero docente dal 1891, professò dal '92 presso l'accademia milanese (come incaricato, dal 1895 come straordinario e dal 1904 come ordinario).
L'esperienza "milanese" fu, per il D., duplice: da un lato pratica di testi letterari, dall'altro esperienza epigrafica. Accanto agli spogli accuratissimi del Corpus Inscriptionum Latinarum, in ispecie per nuanto atteneva alla vita religiosa e alla vita privata (e nell'interesse per cose di culto e di religione è lecito scorgere una traccia dell'insegnamento, del metodo e della problematica del Coen), il D. fu vigile sempre a seguire, e a promuovere, i ritrovamenti archeologici della sua città, a commentarli tecnicamente, a divulgarne i risultati con scritti e discorsi, visite collettive a siti e musei, ecc. Perciò, non apper a fu costituita sul finire del secolo anche in Milano una sezione, tosto fiorente, dela società Atene e Roma "Per la diffusioie e l'incoraggiamento degli studii classici", il D. ne fu subito eletto presidente, e in tale carica si dimostrò operosissimo.
Carica, invero, a lui congeniale, se il D. ebbe sempre la mira ai valori culturali, civili, e quasi potremmo dire moderni, dell'antichistica, né mai volle perciò rinserrarsi nel chiuso dell'angusto mestiere accademico; e questi valori si propose d'immettere, spesso col metodo dell'"analogia", del "ricorso" e del "confronto", nella cultura contemporanea, nella vita medesima della sua Milano.
Socio corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze lettere ed arti dal 1896 (e membro effettivo dal 1912), affidò, bensì, agli Atti dell'Istituto una serie notevolissima di dotte memorie, sulle quali primeggia, meritamente lodata e premiata, quella (1891) sulle Insulae o case a pigione in Roma antica;ma fuor dalle riviste specialistiche o tecniche svolse un'intensa attività pubblicistico-divulgativa in cui avevano gran parte, o addirittura più parte, argomenti e problemi di educazione civica e morale, pubblica e privata beneficenza, assistenza agl'indigenti e agli emigranti (non senza che di questa attività extra accademica lasciasse traccia o ricordo nei suoi scritti "scientifici" o parascientifici; cfr., per es., l'accenno al grave problema dell'emigrazione, così caro al cuore d'un pastore lombardo, mons. G. Bonomelli, in IRomani, p. 225).
Nella metodica di quest'attività, vuoi classicistica vuoi pubblicistica, si rispecchiano i maggiori motivi della coeva cultura milanese. La teoria dei "ricorsi", o "confronti", o "analogie", trionfa, invero, nell'opera storiografica di E. Ciccotti, collega del D. all'accademia; e il D., sebbene probabilmente si schierasse contro "il professore socialista", invano difeso dall'Ascoli, al Ciccotti rendeva, tuttavia, cordiale omaggio negli Elleni (Milano 1913, pp.172 s.; 2 ed., ibid. 1924, pp. 163 s.). La medesima teoria, già accennata fugacemente nel Cultoprivato (II, p. 53, n. 1), gli permise di sostenere (nell'art. Plebe e patriziato di Roma antica alla luce di un ricorso storico, in Rend. d. Ist. lomb. di sc. lett. ed arti, XLV [1912], pp. 115-20; donde Romani, p. 141) che il problema delle origini della plebe e dei rapporto originario fra patrizi e plebei non diverge dal problema, e dalla realtà, del contrasto fra originari e forastieri nella Lombardia bresciana e bergamasca, suddita della Serenissima. Troppo cattolico e conservatore, il D., per aderire al materialismo storico e partecipare della scuola "econornico-giuridica", ma troppo colto e "tradizionalista" per accedere all'ipercritica.
In questo tranquillo e signorile equilibrio si rivelano le sue doti migliori e la sua posizione storiografica. Il D., infatti, non fu, propriamente, né uno storico né un filologo (e tanto meno un seguace del cosiddetto metodo storico), ma, nella migliore e più pregnante accezione del termine, un letterato (capace di pubblicare inediti di Alessandro Verri e di Alessandro Manzoni): com'erano letterati i maggiori suoi colleghi dell'accademia (F. Novati, P. Martinetti, G. Zuccante, M. Scherillo ecc.), che fra la crisi del '98 e lo scoppio della prima guerra mondiale riuscirono, coadiuvati dall'intrapresa editoriale di Ulrico Hoepli, a immettere l'accademia e il suo magistero nella vita della città, non separandosene mai e svolgendo, quindi, un'opera fruttuosa ed assidua di cultura e di educazione.
Il maggior fascino degli scritti del D. sta, oggi ancora, nella sua perizia letteraria, il ricordo frequente di letture, l'elogio di uomini, fossero R. Bonghi o Ch.-A. Sainte-Beuve, che la comune dei dotti giudicava poco o punto "scientifici c e il costante proposito di ravvicinare l'antico al moderno e il moderno all'antico (anche con qualche tocco di nazionalismo tripolino al tempo della guerra libica), sia che intitolasse dal romanzo di A. Fogazzaro una raccolta di testi papiracei tradotti che mettevano in luce qualche lembo d'un Piccolomondo antico, sia che a fini di analogia elettorale, e in periodo di lotta elettorale, divulgasse tradotto e commentato il Commentariolum petitionis di Quinto Cicerone. Qui, ancora, l'assisteva un alto senso dell'equilibrio e della rnisura. Perciò, mentre avvertiva, contro il Mominsen e i mominseniani, che "inai ... si vuole inquadrare in norme sistematiche assolute le istituzioni civili della repubblica" romana (Rend. d. Ist. lomb. disc. lett. ed arti, XXXV [1902], p. 465), limitava nel contempo gli entusiasmi per l'opera di Guglielmo Ferrero, avvertendo (ibid., XI-V [1912], p. 663):"lontani momenti storici hanno sì somiglianze grandissime, ma anche particolari differenze di cui è pericoloso non tener conto; e l'usare senz'altro la fraseologia politica e sociologica moderna per parlare dei fatti e degli uomini di Roma antica può dare sì un sapore piccante alla storia, ma a detrimento talvolta del rigore storico".
Fu, probabilmente, un errore la partecipazione del D. alla campagna contro i due primi volumi della Storia dei Romani di G. De Sanctis e la metodica ad essi sottesa. All'articolo, dal De Sanctis rnedesimo apprezzato per il garbo dello scrivere e la cortesia del dissenso (cfr. la lettera al D. da Torino, 9 aprile 1908; edita da S. Accame, nella terza ed., Firenze 1979, della Storia, I, 3, p. XIII): Di alcuni criteri critici seguiti nell'indagine della storia romana (in Rend. d. Ist. lomb. di sc. lett. ed arti, XLI[1908], pp. 270-84), il De Sanctis diede una risposta severa, magistrale, incontrovertibile (rist. in Scritti minori, III, Roma 1972, pp. 250-81), assai pregiudizievole alla fama e alle fortune del De Marchi. Questi, però, aveva giustamente rilevato quanto di troppo meccanico ed automatico, di troppo belochianamente razionalistico, è nella (prima) critica desanctisiana, dalla quale in quell'anno medesimo 1908 il De Sanctis, del resto, cominciava faticosamente, ma risolutamente, a districarsi, come insegna il saggio, antibelochiano appunto, su I più antichi generali sanniti (ibid., III, pp. 186-202).
Stupisce, d'altronde, il troppo rapido declinare pur degli scritti maggiori e migliori del D.; sia il giovanile, elegante opuscolo Del valore della parola humanitas in Cicerone (Milano 1889), il cui proposito, peraltro, non è tanto di studiar l'allora disconosciuta humanitas di Cicerone, quanto d'individuare (e di rendere in italiano) le varie nuances del vocabolo (una ricerca, fra parentesi, che da R. Reitzenstein in poi ha dominato la critica tedesca e di riflesso la nostra); sia i due volumi paralleli GliElleni (Milano 1913; 2 ed., ibid. 1924) e IRomani (Milano 1931; completato ed edito a cura dell'allievo e genero del D., A. Calderini).
I Romani cadde nel più assoluto silenzio, nonostante qualche tentativo di attualizzazione fascistica (cfr. p. 601), ed è certo inferiore agli Elleni, anche per la frammentarietà della composizione e le minori cure stilistiche (rilevante, pero, in campo storiografico tecnico, la presa di posizione, pp. 154 s., contro la tesi mommseniana della "diarchia" augustea).
Non sono, né l'uno né l'altro volume, libri, stricto sensu, di storia, ma nemmeno, e felicemente, di sociologia e neppure di manualistica. Arieggiano, invece, massime in quel delizioso excursus, La giornata di Sesto Vibio Sabino (Romani, pp. 584 s.), i romanzi pedagogici del classicismo dall'Anacharsis dell'abbé J.-J. Bartehélemy al Quo vadis? di H. Sienkievicz. Libri, dunque, non tanto da studiare o da consultare, quanto da leggere, per avvertire il vincolo di continuità fra l'antico e noi, la presenza e la necessità dell'antico. Ma è comprensibile che, troppo poco "scientifico" Gli Elleni e frutto fuor di stagione IRomani, l'unoe l'altro libro non abbiano avuto la fortuna che si meritano tuttavia.
Maggior fortuna, perché più "scientifico", siccome attesta la stessa recente ristampa anastatica (New York 1970), ebbe Il culto privato di Roma antica (I, Milano 1896; II, ibid. 1903).
Diligentissimo nello spoglio delle fonti letterarie e soprattutto epigrafiche, ma non sempre sufficientemente critico (per es., nell'accettare sic et simpliciter la tradizione sul cosiddetto scandalo dei Bacchanalia;II, pp. 85ss.), e spesso lavorato sulla teoria del "ricorso" (ibid., II, p. 103), illibro è soprattutto valido per l'impegno umano che l'anima nell'interpretare il fenomeno religioso, epperò nell'avvertire il progresso di coscienza, per es., dal matrimonio romano al sacramento cristiano (ibid., I, pp. 162 ss.) - senza indulgere peraltro, mai, alla troppo facile distinzione faziosa tra o religione" cristiana e "superstizione" pagana (ibid., I, p. 238). Appunto perché il D. fu, in ultima analisi, un uomo di religione.
Morì il 29 dicembre 1915 a Milano; lasciava un duplice retaggio, se da lui direttamente o indirettamente derivano le due scuole migliori delle due università milanesi: la scuola storico-religiosa di Uberto Pestalozza alla Statale, e alla Cattolica la scuola papirologica di Aristide Calderini.
Fonti e Bibl.: Una bibl. delle opere del D. in A. Calderini, alle pp. 33 ss.della commem. a cura di C. Pascal, A. D., Milano 1916.Per la collaborazione del D. alla Rass. nazionale, cfr. G. Licata, La Rass. nazionale, Roma 1968, p. 597 (con ampie citazioni degli scritti letterario-morali del De Marchi). Si v. inoltre A. Calderini, in Riv. di filologia e di istruz. classica, XLIV (1916), pp. 319-322;G. Oberziner, in Rend. d. Ist. lomb. di sc. lett. ed arti, L (1917), pp. 197-211. SulD., l'Accademia scientifico-letteraria (di cui fu presidente rettore dal 1912alla morte) e l'ambiente milanese, cfr. l'Epistolario Pestalozza- Casati, a cura di P. A. Carozzi, Vicenza 1982, ad nomen. Cfr., inoltre, P. Treves, L'idea di Roma e la cultura ital. del sec. XIX, Milano-Napoli 1962, pp. 55 s., 206;G. Cardinali, in Enciclopedia Italiana, XII, p. 576.