Abstract
Si delineano le caratteristiche generali del sistema degli atti adottati dalle istituzioni dell’UE quali tipizzati dall’art. 288 TFUE. Viene poi dato conto dei loro rapporti e della classificazione in atti legislativi, delegati e d’esecuzione introdotta dal Trattato di Lisbona. Gli atti tipici sono distinti a seconda che abbiano carattere vincolante – i regolamenti, le direttive e le decisioni – o meno – le raccomandazioni e i pareri; ciascuno di essi è analizzato alla luce delle specifiche caratteristiche. Sono poi esaminati gli accordi interistituzionali e i cd. atti atipici. In conclusione è illustrato il regime comune degli atti: l’obbligo di motivazione, i requisiti di forma e di pubblicità, l’entrata in vigore.
Gli atti di cui le istituzioni dell’UE si possono avvalere nell’esercizio delle loro competenze sono enumerati nell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE): regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Si tratta dei cd. atti tipici in quanto essi sono definiti secondo modelli predeterminati nel Trattato. L’art. 288 TFUE distingue gli atti vincolanti, e quindi suscettibili di costituire fonti formali di norme giuridiche, i regolamenti, le direttive e le decisioni, da quelli che tali non sono, le raccomandazioni e i pareri. Il complesso degli atti vincolanti dà luogo al cd. diritto derivato, formalmente subordinato alle norme primarie contenute nei Trattati istitutivi.
Il Trattato di Lisbona ha mantenuto immutata l’originaria classificazione degli atti di cui all’art. 249 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) ed ha semplificato il previgente sistema degli atti giuridici dell’UE eliminando le tipologie di atti proprie della politica estera e di sicurezza comune (PESC) (strategie comuni, decisioni, raccomandazioni) e della cooperazione giudiziaria e di polizia (posizioni comuni, decisioni-quadro, decisioni, convenzioni) (il regime transitorio di tali atti è regolato dal Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie). Di conseguenza, l’art. 288 TFUE è ora disposizione generale destinata a trovare applicazione a tutta l’attività istituzionale dell’UE, avvenga essa in base al Trattato sull’Unione europea (TUE) o in base al TFUE.
Secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia la qualificazione formale dell’atto non rileva al fine di stabilirne la natura e la portata giuridica, mentre sono determinanti il suo oggetto e il suo contenuto così come gli effetti che esso produce. Non può pertanto escludersi che un atto che abbia la forma di regolamento possa, per portata ed effetti, costituire una o più decisioni individuali (cd. regolamenti mascherati) (C. giust., 13.5.1971, cause riunite 41-44/70, International Fruit Company, 411). Il punto assume rilievo al fine di definire la possibilità di sottoporre al sindacato giurisdizionale l’atto e di individuare la legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 263 TFUE.
L’art. 288 TFUE non delinea alcun tipo di rapporto gerarchico tra gli atti elencati: essi si distinguono l’uno dall’altro unicamente per le loro caratteristiche strutturali e per gli effetti che sono destinati a produrre nei confronti dei loro destinatari, senza che sia stabilita dai Trattati una gerarchia formale tra di essi. Né è possibile individuare uno specifico procedimento di adozione di competenza di un dato organo per ciascun tipo di atto che valga a differenziare l’uno dall’altro.
Quanto detto non esclude che una differenziazione di livelli normativi – supralegislativo, legislativo o di base, delegato, di esecuzione – si delinei in ragione della funzione di ciascun atto e delle relative procedure di adozione.
Un’ipotesi di atto di tipo supralegislativo si configura quando i Trattati attribuiscono alle istituzioni il compito di provvedere direttamente, per mezzo di atti da adottarsi talora con una procedura legislativa, a modifiche o integrazioni del diritto primario. È questo il caso delle revisioni semplificate previste per alcuni Protocolli, i quali come è noto sono parte integrante dei Trattati istitutivi; tali revisioni possono infatti essere adottate seguendo la procedura legislativa (v. l’art. 126, par. 14; l’art. 308, co. 3; l’art. 281, co. 2; l’art. 129, par. 3, TFUE). È anche il caso delle cd. clausole passerella, quelle clausole, cioè, che consentono il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata per una determinata deliberazione del Consiglio o l’estensione della procedura legislativa ordinaria per l’adozione degli atti in una materia fino a quel momento soggetta ad una procedura legislativa speciale (v. art. 153, par. 2, ult. cpv.; art. 192, par. 2, co. 2, TFUE; art. 31, par. 3, TUE). Vi sono poi casi in cui i Trattati subordinano l’entrata in vigore dell’atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio alla previa approvazione o al silenzio assenso dei Parlamenti nazionali; la prima ipotesi ricorre nella procedura di revisione semplificata di cui all’art. 48, par. 6, TFUE e nell’art. 25 TFUE; la seconda, che comporta che l’atto entra in vigore se entro un dato termine nessun Parlamento nazionale solleva obiezioni, è prevista dall’art. 48, par. 7, TUE e dall’art. 81, par. 3, TFUE. Anche in queste ipotesi si è comunque in presenza di atti delle istituzioni che, in quanto tali, sono soggetti al controllo di legittimità della Corte di giustizia (C. giust., 27.11.2012, C-370/12, Pringle; Mori, P., Rapporti tra fonti. Il diritto primario, Torino, 2010, 177 ss.).
Il carattere supralegislativo può essere inoltre collegato alla funzione assolta dall’atto nel sistema dell’Unione. Un caso del genere è dato dal regolamento (UE) 182/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, il cd. regolamento comitologia, che in attuazione dell’art. 291 TFUE regola le modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione da parte della Commissione, sostituendo la precedente decisione del Consiglio 1999/468/CE. Pur essendo un atto di diritto derivato, in quanto disciplina in via generale le modalità procedurali per l’adozione degli atti di esecuzione, esso pone un quadro normativo di riferimento che deve essere rispettato dagli atti di base che conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione, per ciò stesso ponendosi in posizione funzionalmente sovraordinata (v. con riferimento alla decisione 1999/468/CE, C. giust., 21.1.2000, C-378/00, Commissione c. Parlamento e Consiglio).
Vi sono poi atti che danno attuazione diretta alle norme dei Trattati e che possono essere definiti di base o legislativi, nella misura in cui vi sono stabiliti gli elementi essenziali e le scelte politiche fondamentali in un dato settore (C. giust., 17.12.1970, 25/70, Köstner, 1161). Secondo la giurisprudenza costante l’adozione delle norme essenziali in una data materia è tassativamente riservata alla competenza del legislatore dell’Unione (C. giust., 5.9.2012, C-355/10, Parlamento c. Consiglio e Commissione). Questo comporta che le misure di esecuzione non possono modificare elementi essenziali di una normativa di base né completarla mediante nuovi elementi essenziali.
Tale osservazione porta ad evidenziare l’esistenza di un ulteriore livello gerarchico collegato al conferimento di competenze di esecuzione di un atto adottato sulla base del Trattato. Evidentemente in questi casi sussiste un rapporto di subordinazione e di necessaria compatibilità dell’atto di esecuzione con l’atto di base (C. giust., 5.9.2012, C-355/10, cit., e giurisprudenza ivi citata).
Allo scopo di semplificare e rendere più chiaro il sistema, il Trattato di Lisbona ha formalizzato la distinzione tra gli atti legislativi (art. 289 TFUE), gli atti delegati (art. 290 TFUE) e gli atti esecutivi (art. 291 TFUE), collegandola espressamente alla procedura di adozione dell’atto stesso (sulla distinzione tra le due tipologie di atti non legislativi v. C. giust., 18.3.2014, C-472/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio). La qualificazione dell’atto come legislativo, delegato o di esecuzione prescinde dalla sua forma, che può essere quella del regolamento, della direttiva e della decisione. Di conseguenza il medesimo tipo di atto è suscettibile di essere qualificato come legislativo o non legislativo a seconda della procedura con cui è stato adottato nel caso specifico.
Può dunque dirsi che, se non è possibile individuare una gerarchia formale tra le varie tipologie di atti normativi, una differenziazione di livelli può essere individuata in ragione della funzione propria e delle procedure di adozione di ciascun singolo atto.
I trattati non definiscono criteri predeterminati in via generale per la scelta dello strumento normativo con cui dar corso a una determinata azione dell’Unione. La scelta dell’atto – regolamento, direttiva o decisione – viene di volta in volta effettuata, tenuto conto delle caratteristiche di ciascuno di essi, in funzione degli obiettivi che il Trattato intende raggiungere in quella data materia e tenuto conto della natura della competenza stessa.
Talvolta tale scelta è effettuata direttamente da quella che viene definita come la base giuridica, cioè dalla disposizione primaria su cui si fonda la competenza; in molti altri casi, i Trattati lasciano alle istituzioni la scelta dell’atto, attraverso la generica previsione che una data azione debba realizzarsi con l’adozione di «disposizioni», «misure» o «azioni»; per questa seconda ipotesi l’art. 296 TFUE stabilisce che le istituzioni lo decideranno «di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità».
Le istituzioni potranno pertanto effettuare la scelta del tipo di atto da utilizzare nel caso concreto nel quadro di una valutazione discrezionale che sarà limitata dalla necessità di conciliare l’obiettivo perseguito con le caratteristiche proprie di ciascun atto giuridico, nel rispetto delle procedure applicabili, come prescritto in via generale dall’art. 13, par. 2, TUE, e del principio di proporzionalità, in coerenza con l’art. 5 TUE.
Secondo la giurisprudenza il principio di proporzionalità comporta che qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva, ritendendosi necessario che «i mezzi approntati da una disposizione del diritto dell’Unione siano idonei a realizzare l’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerlo» (C. giust., 14.12.2004, C-210/03, Swedish Match; C. giust., 7.7.2009, C-558/07, S.P.C.M. e a.; C. giust., 8.6.2010, C-58/08, Vodafone).
Il co. 2 dell’art. 288 TFUE stabilisce che «il regolamento ha portata generale … è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri». Da questa definizione appare chiara la natura essenzialmente normativa del regolamento. È questo l’atto attraverso il quale le istituzioni esercitano con pienezza le competenze che sono state loro trasferite dagli Stati membri, dando vita ad una normativa destinata a trovare applicazione uniforme nel territorio dell’UE e a sostituirsi integralmente, nella materia da essa regolata, alle norme nazionali. Esso si impone a tutti i soggetti dell’ordinamento dell’Unione.
Il carattere della portata generale significa che il regolamento contiene, in linea di principio, una disciplina generale e astratta, rivolta a classi indeterminate o indeterminabili di destinatari. Peraltro il carattere di regolamento dell’atto non è escluso dal fatto che sia possibile individuare, con maggiore o minore precisione, «il numero o anche l’identità dei destinatari in un determinato momento, purché la qualità di destinatario dipenda da una situazione obiettiva di fatto o di diritto, definita dall’atto, in relazione con la sua finalità» (C. giust., 11.7.1968, 6/68, Zuckerfabrik). Diversamente si sarebbe in presenza di una pluralità di decisioni individuali sotto forma di regolamento. È stata del pari riconosciuta la portata generale del regolamento che adotta misure restrittive nei confronti di specifiche persone fisiche e giuridiche sospette di attività terroristiche in quanto tale atto si rivolge «in maniera generale ed astratta all’insieme di persone che possono materialmente detenere i capitali in questione» (Trib., 21.9.2005, T-306/01, Yusuf Al Barakaat International Foundation; confermata da C. giust., 3.9.2008, C-402/05P, e C-415/05P, Kadi).
In linea di principio il regolamento ha un ambito di applicazione territoriale coincidente con quella dei Trattati, cioè con il territorio degli Stati membri. Non può però escludersi il caso che un regolamento riguardi un solo Stato membro (come i regolamenti adottati dopo la riunificazione della Germania, v. per tutti il regolamento CEE del Consiglio 2684/90) o abbia un’applicazione territoriale circoscritta (C. giust., 13.3.1968, 30/67, Industria molitoria imolese).
Il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi. Questo carattere indica il carattere pienamente vincolante dell’atto che in quanto tale è idoneo a disciplinare una determinata materia con una normativa completa, di natura generale ed astratta. Esso si impone nella sua interezza ai soggetti dell’ordinamento dell’Unione, istituzioni, Stati membri, singoli. Il fatto che il regolamento sia obbligatorio in tutti i suoi elementi lo distingue dalla direttiva che ha, per lo Stato che ne è destinatario, un’efficacia dispositiva limitata al «risultato da raggiungere». Tale carattere comporta che uno Stato membro non può applicare in modo incompleto o selettivo un regolamento, né può avvalersi di norme interne per limitare l’applicazione di un regolamento.
I regolamenti sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri, sono cioè idonei a produrre i loro effetti giuridici anche nei confronti dei singoli, persone fisiche e giuridiche, senza necessità di alcun atto di ricezione nel diritto interno. Ciò comporta per gli Stati membri l’obbligo di non applicare alcun tipo di provvedimento legislativo, anche posteriore, che sia incompatibile con le disposizioni di un regolamento. Gli Stati membri non possono neppure subordinare la concreta applicazione del regolamento ad alcuna disposizione o prassi di carattere nazionale che possa «ostare all’efficacia immediata di una disposizione comunitaria … [e], di conseguenza, all’esercizio immediato dei diritti soggettivi che detta disposizione attribuisca ai singoli», perché ciò comprometterebbe irrimediabilmente l’applicazione uniforme e simultanea del diritto UE nell’intera Unione (C. giust., 17.5.1972, 93/71, Leonesio; C. giust., 15.11.2012, C-539/10P, Stichting Al-Aqsa). Pertanto è stata censurata come illegittima anche la riproduzione del contenuto di un regolamento in un atto normativo interno.
Il carattere della diretta applicabilità del regolamento e la sua piena obbligatorietà non escludono che in taluni casi, affinché la disciplina in esso contenuta possa concretamente operare, sia necessaria un’integrazione mediante atti di attuazione da adottarsi da parte della Commissione, nell’esercizio di delega legislativa ex art. 290 TFUE o di competenze di esecuzione ex art. 291, o da parte degli Stati membri (C. giust., 5.5.2015, C-146/13, Spagna c. Parlamento e Consiglio). In questi casi l’intervento normativo degli Stati membri si configura come dovuto in quanto grava su di essi l’obbligo, stabilito in via generale dall’art. 4, par. 3, co. 2, TUE, di prendere ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dagli atti delle istituzioni.
La natura e la funzione del regolamento nell’ambito delle fonti europee comporta che esso sia idoneo a produrre situazioni giuridiche soggettive in capo ai singoli, le quali possono essere fatte valere nei confronti dello Stato ma anche di altri singoli. Secondo la consolidata giurisprudenza «i giudici nazionali devono tutelare» i diritti che il regolamento attribuisce ai singoli, garantendo «la piena efficacia» delle norme in esso contenute. Più in generale tutte le autorità dello Stato hanno l’obbligo di garantire la tutela delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dai regolamenti UE, così come da qualsiasi altra norma del diritto UE dotata di efficacia diretta, senza dover chiedere o attendere l’effettiva rimozione, ad opera degli organi nazionali all’uopo competenti, delle eventuali misure nazionali che ostino alla diretta e immediata applicazione delle norme dell’UE (C. giust., 9.3.1978, 106/78, Simmenthal).
La direttiva è un atto normativo che vincola gli Stati membri che ne sono destinatari per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciando loro discrezionalità in merito alla forma e ai mezzi con cui raggiungere tale risultato. Destinatari della direttiva sono gli Stati membri, indistintamente considerati, ovvero alcuni di essi o anche uno solo di essi. Come il regolamento anche la direttiva è un atto obbligatorio per i suoi destinatari ma, a differenza dei primi, non è direttamente applicabile.
La piena efficacia della direttiva comporta un’attività normativa che si svolge su due livelli; il primo, quello europeo, che porta all’adozione della direttiva da parte delle istituzioni, il secondo, quello nazionale, che si realizza con l’adozione delle misure di trasposizione da parte delle autorità nazionali. Questa caratteristica dà conto della specifica funzione della direttiva nel sistema delle fonti dell’Unione che «riflette un funzionamento “decentrato” dei poteri delle istituzioni» basato sulla ripartizione delle competenze tra l’UE e gli Stati membri (Adam, R.-Tizzano, A., Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014, 220).
In linea di principio, la direttiva detta un quadro normativo e obiettivi comuni che ciascuno Stato membro dovrà realizzare entro margini di autonomia più o meno ampi. Sotto questo profilo, la direttiva è lo strumento più idoneo là dove per la realizzazione degli obiettivi posti dal Trattato non sia necessario adottare una normativa uniforme (e quindi per mezzo di regolamenti), bensì sia considerato sufficiente o sia preferito un intervento di armonizzazione o di ravvicinamento delle normative nazionali o anche ai fini del mutuo riconoscimento delle stesse (Tesauro, G., Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012, 147).
Nella prassi non è raro che le direttive abbiano un contenuto normativo molto dettagliato (direttive dettagliate o particolareggiate), carattere che evidentemente riduce i margini di discrezionalità degli Stati membri nella trasposizione e che può avere conseguenze sugli ordinamenti nazionali e sulla sfera giuridica dei singoli nella misura in cui esse possano assumere la stessa portata dei regolamenti. Questa prassi non è stata mai censurata dalla Corte di giustizia la quale ha anzi ritenuto che la competenza lasciata agli Stati membri quanto alla forma e ai mezzi dei provvedimenti che devono essere adottati dagli organi nazionali «è funzione del risultato» che il legislatore europeo intende sia raggiunto e che «una rigorosa identità fra le disposizioni nazionali» possa essere indispensabile per raggiungere il risultato richiesto dalla direttiva (C. giust., 23.11.1977, 38/77, Enka).
Il recepimento delle direttive nell’ordinamento interno forma oggetto di uno specifico obbligo giuridico che gli Stati membri devono eseguire entro il termine perentoriamente fissato in ciascuna direttiva.
Poiché il termine ha la funzione di dare agli Stati membri il tempo necessario all’adozione dei provvedimenti di trasposizione, non può essere contestata agli stessi l’omessa trasposizione della direttiva nel loro ordinamento giuridico interno prima della scadenza di tale termine. Tuttavia, la direttiva, che a norma dell’art. 297, par. 2, TFUE entra in vigore a seguito della sua pubblicazione o, se ha destinatari singoli Stati membri, della sua notificazione, produce effetti giuridici anche prima della scadenza del termine. Lo Stato membro ha infatti l’obbligo, nel rispetto del principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE, di astenersi dall’adottare misure che abbiano il risultato di rendere più difficile l’attuazione della direttiva o che possano comprometterne il risultato. Tale obbligo grava su tutti gli organi dello Stato, ivi compresi quelli giurisdizionali, che nelle more della trasposizione devono interpretare il diritto nazionale «alla luce della lettera e dello scopo della direttiva» (C. giust., 8.10.1987, 80/86, Kolpinghuis Nijmegen; C. giust., 22.5.2003, C-462/99, Connect Austria).
La discrezionalità che l’art. 288 TFUE lascia agli Stati membri circa la forma e i mezzi per soddisfare l’obbligo di attuazione della direttiva è stata circoscritta dalla Corte di giustizia allo scopo di valutare la congruità delle misure nazionali di trasposizione al risultato prescritto dalla direttiva stessa. Pertanto l’attuazione di una direttiva deve avvenire con le forme e i mezzi più idonei a garantirne la reale efficacia e rispondere pienamente alle esigenze di chiarezza e di certezza delle situazioni giuridiche volute dalle direttive stesse. Inoltre, gli Stati membri devono adottare misure contenenti norme vincolanti equivalenti a quelle applicate nell’ambito nazionale (C. giust., 6.3.1980, 102/79, Commissione c. Belgio). Pertanto, «semplici prassi amministrative, per loro natura modificabili a piacimento dell’amministrazione e prive di una adeguata pubblicità», non sono state considerate dalla Corte come valido adempimento dell’obbligo di recepimento delle direttive (C. giust., 13.3.1997, 197/96, Commissione c. Francia; C. giust., 15.3.2012, C-46/11, Commissione c. Polonia).
Il recepimento di una direttiva non esige necessariamente un’azione legislativa in ciascuno Stato membro. La sussistenza di principi generali di diritto costituzionale o amministrativo può infatti rendere superfluo il recepimento mediante specifici provvedimenti legislativi o regolamentari, a condizione che «tali principi garantiscano effettivamente la piena applicazione della direttiva da parte dell’amministrazione nazionale e che, nel caso in cui la disposizione della direttiva in questione miri a creare diritti per i singoli, la situazione giuridica risultante da tali principi sia sufficientemente precisa e chiara e i beneficiari siano messi in grado di conoscere la pienezza dei loro diritti nonché, occorrendo, di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali (C. giust., 11.6.2015, C-29/14, Commissione c. Polonia). Va peraltro precisato che, qualora la direttiva imponga espressamente agli Stati membri di adottare disposizioni le quali contengano un riferimento alla detta direttiva, la legislazione nazionale preesistente non è sufficiente ma è comunque necessario adottare un atto positivo di trasposizione (C. giust., 27.11.1997, C-136/96, Commissione c. Germania).
Dato che lo Stato è libero di ripartire le proprie competenze sul piano interno, una direttiva può ben essere attuata per mezzo di misure adottate da autorità regionali o locali. Analogamente e ferma restando la generale responsabilità dello Stato per l’attuazione della direttiva, l’art. 153, par. 3, TFUE consente che gli Stati membri affidino alle parti sociali il compito di mettere in atto le direttive in materia di politica sociale per mezzo di convenzioni collettive d’applicazione generale.
Le direttive pongono in modo sistematico l’obbligo di comunicare le misure di recepimento alla Commissione. Tale obbligo ha lo scopo di consentire all’istituzione di svolgere le funzioni di vigilanza affidatele in via generale dall’art. 17, n. 1, TUE e, nello specifico, dall’art. 258 TFUE, così da verificare il tempestivo, completo ed efficace recepimento della direttiva e, in mancanza, dar corso alla procedura di inadempimento di cui agli artt. 258 ss. TFUE. A seguito della riforma apportata all’art. 260 TFUE, la Commissione può chiedere alla Corte giustizia, già in sede di ricorso ex art. 258 TFUE, di condannare lo Stato membro inadempiente a tale specifico obbligo di comunicazione al pagamento di una sanzione pecuniaria.
Dato che le direttive sono indirizzate agli Stati membri e devono formare oggetto di recepimento negli ordinamenti nazionali, esse, in linea di principio, non producono effetti diretti. La loro efficacia nei confronti dei singoli è pertanto mediata dalle misure nazionali di trasposizione: da queste essi ricavano le situazioni giuridiche soggettive indicate nella direttiva. Nella prassi sono però frequenti direttive dettagliate, contenenti disposizioni dal contenuto precettivo chiaro, preciso e che non lasciano agli Stati che ne sono destinatari margini di apprezzamento nella trasposizione. In questo contesto, a fronte dei numerosi casi di mancata, non corretta o non tempestiva attuazione di direttive da parte degli Stati membri, la Corte giustizia ha riconosciuto la possibilità per i singoli di invocare davanti ai giudici nazionali l’effetto diretto di determinate disposizioni contenute in una direttiva non recepita (C. giust., 17.12.1970, 33/70, SACE).
L’effetto diretto può ricollegarsi alle disposizioni della direttiva che abbiano carattere chiaro, preciso e non condizionato per la loro applicazione ad alcun atto delle autorità nazionali. Occorre pertanto valutare caso per caso «se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentono di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri e i singoli» (C. giust., 14.12.1974, 41/74, Van Duyn).
Secondo la Corte di giustizia, il riconoscimento dell’efficacia diretta costituisce una «garanzia minima» per i singoli i cui diritti derivanti dalla direttiva sarebbero altrimenti pregiudicati dall’inadempimento dello Stato e che invece possono così essere esercitati. L’efficacia diretta è stata dunque configurata come una forma di sanzione per lo Stato che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva così da evitare che esso possa «opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa» (C. giust., 19.1.1982, 8/81, Becker). Da siffatta configurazione consegue che l’effetto diretto può essere fatto valere dalla data di scadenza del termine dato agli Stati membri per il recepimento della direttiva, in quanto solo da quel momento si può prospettare una situazione di inadempimento dello Stato.
Ulteriore riflesso di tale configurazione dell’effetto diretto è che il singolo può far valere i diritti derivanti dalla direttiva solo nei confronti dello Stato (effetto diretto verticale) e non anche di altri privati (effetti diretti orizzontali). Si deve anche escludere che, in mancanza di recepimento, lo Stato possa pretendere dal singolo l’esecuzione di un obbligo derivante dalla direttiva (C. giust., 26.9.1996, C-168/95, Arcaro; C. giust., 9.4.2004, C-102/02, Beuttenmüller) ovvero determinare o aggravare la responsabilità penale del singolo (C. giust., 3.5.2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a.). Ciò in quanto, la natura cogente della direttiva esiste solo nei confronti dello Stato membro cui è rivolta e quindi la direttiva «non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo» (C. giust., 26.2.1986, 152/84, Marshall); estendere questa giurisprudenza ai rapporti tra i singoli «significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti» (C. giust., 14.7.1994, C-91/92, Faccini Dori).
L’esclusione degli effetti diretti orizzontali è stata criticata per le discriminazioni che è suscettibile di provocare tra i soggetti beneficiari a seconda della natura pubblica o privata del destinatario dell’obbligo corrispondente. La rigidità di tale limitazione è stata attenuata dalla Corte giustizia ricorrendo ad un’interpretazione ampia della nozione di Stato membro, per cui una direttiva può essere invocata nei confronti dello Stato, indipendentemente dalla veste nella quale questo agisca, come datore di lavoro o come pubblica autorità (C. giust., 26.2.1986, 152/84, Marshall; C. giust., 14.10.2010, C-243/09, Fuß); nei confronti degli enti territoriali, quali i comuni (C. giust., 22 giugno 1989, 103/88, F.lli Costanzo); di organismi che forniscono servizi d’interesse pubblico sotto il controllo dell’autorità pubblica (C. giust., 24.1.2012, C-282/10, Maribel Dominguez, e giurisprudenza ivi citata).
Allo stesso scopo la Corte di giustizia ha sviluppato al massimo la propria giurisprudenza sull’obbligo di interpretazione conforme. Tutti gli organi nazionali, ma specialmente i giudici, sono tenuti a interpretare il diritto nazionale, «a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva» (C. giust., 13.11.1990, 106/89, Marleasing), in modo per quanto possibile compatibile con la normativa dell’Unione. L’interprete, utilizzando il metodo teleologico di interpretazione, dovrà pertanto individuare il significato della norma nazionale rilevante nel caso di specie che sia maggiormente conforme all’oggetto e allo scopo della direttiva (C. giust., 4.7.2006, C-212/04, Adeneler). Si realizza in tal modo una sorta di «effetto orizzontale indiretto delle direttive» (Tesauro, G., Diritto dell’Unione europea, cit., 184). L’obbligo di interpretazione conforme trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (C. giust., 8.10.1987, 80/86, Kolpinghuis Nijmegen; C. giust., 15.4.2008, C-268/06, Impact).
L’eventuale effetto diretto di una direttiva non esclude la necessità di assicurarne comunque la corretta trasposizione con misure adeguate. È pertanto necessario che gli Stati membri assicurino effettivamente la piena applicazione della direttiva in modo sufficientemente chiaro e preciso mediante le opportune misure nazionali di trasposizione o, se del caso, mediante abrogazione delle norme interne incompatibili, in quanto la loro vigenza determina una situazione di incertezza giuridica per gli amministrati.
La mancata e tempestiva adozione delle misure nazionali di trasposizione può dar luogo alla responsabilità dello Stato membro per danni ai singoli. Secondo la Corte di giustizia «sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro». Questo appare indispensabile in particolare quando la piena efficacia delle norme contenute nella direttiva sia subordinata alla condizione di un’azione da parte dello Stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dalla stessa (C. giust., 19.11.1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a.). Presupposti per il sorgere della responsabilità dello Stato sono che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli e che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva; infine, deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Il compito di accertare l’esistenza di tali condizioni e di quantificare il danno è affidato al giudice nazionale. Formatasi con riferimento alla mancata trasposizione di direttive prive di efficacia diretta, questa giurisprudenza è stata poi estesa dalla Corte di giustizia a tutti i casi di violazione grave e manifesta da parte delle autorità nazionali (ivi compresi gli organi giudiziari) di norme del diritto UE preordinate a conferire diritti ai singoli (C. giust., 5.3.1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame; C. giust., 23.5.1996, C-5/94, Hedley Lomas; C. giust., 8.10.1996, cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94 e C-190/94, Dillenkofer; C. giust., 1.6.1999, C-302/97, Konle; C. giust., 30.9.2003, C-224/01, Köbler; C. giust., 13.6.2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo).
La decisione è descritta dall’art. 288 TFUE, non diversamente dal regolamento, come «obbligatoria in tutti i suoi elementi». Tuttavia, il Trattato specifica che se la decisione «designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi», introducendo così una differenziazione in ragione dei destinatari che ne fa un atto suscettibile di avere portata tanto individuale quanto generale o indeterminata. Tale differenziazione, che è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, codifica una prassi che si era consolidata nel tempo e che aveva visto affiancare all’originario modello previsto dal Trattato di Roma della decisione come atto tipicamente individuale l’utilizzazione nella prassi istituzionale e organizzativa dell’UE della decisione senza destinatari.
La decisione individuale assolve ad una funzione eminentemente amministrativa o esecutiva in quanto è lo strumento con il quale le istituzioni applicano le disposizioni normative contenute nei Trattati o nel diritto secondario a fattispecie concrete. Essa può avere come destinatari sia persone fisiche o giuridiche, sia Stati membri ed è dotata dell’efficacia necessaria a vincolare i propri destinatari.
Le decisioni che impongono ai singoli obblighi pecuniari costituiscono, ai sensi dell’art. 299 TFUE, titolo esecutivo che può essere fatto valere davanti alle competenti autorità nazionali.
Trattandosi di decisioni indirizzate agli Stati membri la loro «obbligatorietà vale per tutti gli organi dello Stato destinatario, ivi compresi i giudici» (C. giust., 21.5.1987, 249/85, Albako). Da tale affermazione la Corte ha tratto la conseguenza che «i giudici nazionali devono astenersi dall’applicare norme interne … la cui attuazione potrebbe ostacolare l’esecuzione di una decisione comunitaria».
Ulteriore conseguenza di tale carattere è il riconoscimento dell’efficacia diretta delle decisioni (C. giust., 6.10.1970, 9/70, Grad). Sono stati così estesi alle decisioni i criteri elaborati dalla giurisprudenza sull’effetto diretto delle direttive, riconoscendo che «le disposizioni di una decisione del Consiglio hanno efficacia immediata nei rapporti tra gli Stati membri e i singoli, in quanto esse producono, nei confronti di questi ultimi, diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, allorché dette disposizioni impongono agli Stati membri un obbligo assoluto e sufficientemente chiaro e preciso» (C. giust., 7.6.2007, C-80/06, Carp; C. giust., 20.11.2008, C-18/08, Fosolev).
Esistono poi decisioni a portata generale, che si rivolgono in termini astratti a categorie di persone indeterminate e si applicano a situazioni obiettivamente definite. Nella prassi istituzionale la decisione generale o senza destinatari è diventata da tempo lo strumento di elezione ogni qualvolta si tratti di adottare la disciplina di aspetti relativi al funzionamento del sistema dell’UE o alla sua organizzazione. L’art. 288, co. 4, TFUE ha per l’appunto tipizzato la figura della decisione senza destinatari e i Trattati ne hanno anche previsto l’utilizzazione in specifiche disposizioni. Esse possono essere adottate dal Consiglio europeo, dal Consiglio o dalla Commissione. Si tratta di atti di natura normativa che in determinati casi possono essere indirizzati agli Stati membri, come nel caso di decisioni con le quali si detta la disciplina di dettaglio di procedure previste in regolamenti o direttive. Secondo la giurisprudenza, pure una decisione avente come destinatario uno Stato membro può costituire un provvedimento di «portata generale se si applica a situazioni obiettivamente determinate e comporta effetti giuridici nei confronti di categorie di persone considerate in modo generale e astratto» (C. giust., ord. 8.4.2008, C-503/07, Saint-Gobain Glass Deutschland).
Con la riforma di Lisbona la decisione è diventata l’unico strumento normativo (di carattere non legislativo per espressa esclusione degli artt. 24, par. 1, co. 2, e 31, par. 1, TUE) di cui dispongono il Consiglio europeo e il Consiglio nel quadro della PESC. Ai sensi dell’art. 25 TUE le decisioni definiscono le azioni da intraprendere, le posizioni da assumere e le relative misure di attuazione.
L’art. 288, co. 5, si limita a descrivere le raccomandazioni e i pareri come «non vincolanti». In linea di principio, la raccomandazione è l’atto utilizzato da un’istituzione per invitare Stati membri o altri soggetti a tenere un dato comportamento, mentre il parere è l’atto con il quale le istituzioni o altri organi formulano la propria valutazione su una determinata questione o su un determinato atto. Un generale potere di raccomandazione è riconosciuto al Consiglio, alla Commissione e, nei casi specifici previsti dai Trattati, alla Banca centrale europea (art. 292 TFUE).
La circostanza che il Trattato definisca come non vincolanti tali atti, non esclude che essi possano produrre alcuni effetti giuridici. In determinati casi, i Trattati riconoscono alla raccomandazione specifici effetti; in particolare, l’art. 117 TFUE stabilisce che se lo Stato membro, che voglia emanare norme interne suscettibili di provocare una distorsione della concorrenza sul mercato comune, non si conforma alle raccomandazioni adottate dalla Commissione, non si potrà chiedere agli altri Stati membri di modificare le loro disposizioni nazionali per eliminare tale distorsione. Vanno del pari ricordate le raccomandazioni del Consiglio che definiscono gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione (v. art. 121 TFUE) e quelle che il Consiglio può adottare nel quadro della procedura di controllo dei disavanzi pubblici eccessivi (v. art. 126 TFUE), la cui inosservanza comporta gravi conseguenze politiche e giuridiche per lo Stato membro che le disattenda. La Corte di giustizia ha confermato che, «anche se le raccomandazioni non sono destinate a produrre effetti vincolanti e non possono far sorgere diritti azionabili dai singoli dinanzi ad un giudice nazionale, esse non sono tuttavia del tutto prive di effetti giuridici». I giudici nazionali devono infatti prendere in considerazione le raccomandazioni «ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio, in particolare quando esse sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante» (C. giust., 11.9.2003, C-207/01, Altair Chimica).
Il parere è utilizzato per esprimere la posizione di un’istituzione o di un organo e generalmente costituisce un passaggio necessario, sebbene non vincolante, di una determinata procedura. Si pensi al parere motivato che la Commissione rivolge allo Stato membro nel quadro della procedura di infrazione, la cui inosservanza può comportare il deferimento alla Corte di giustizia (v. artt. 258 ss. TFUE), o, nel quadro delle procedure decisionali, ai pareri che devono essere richiesti al Parlamento europeo, alla Commissione e agli organi consultivi, come il Comitato economico e sociale e il Comitato delle Regioni. Produce particolari effetti giuridici il parere che può essere richiesto alla Corte di giustizia circa la compatibilità con i Trattati di un progetto di accordo che l’UE intenda concludere con Stati terzi o con un’organizzazione internazionale; qualora il parere sia negativo l’accordo non potrà infatti essere concluso, salvo modifiche dello stesso o revisione dei Trattati (v. art. 218, par. 11, TFUE).
L’art. 295 TFUE, quale modificato dal Trattato di Lisbona, prevede che il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione procedano a reciproche consultazioni per definire di comune accordo le modalità di cooperazione e a questo scopo possano concludere accordi interistituzionali. Questa disposizione, codificando una prassi delle istituzioni politiche risalente nel tempo, stabilisce che tali accordi devono essere stipulati «nel rispetto dei Trattati» e che «possono assumere carattere vincolante». Si tratta di atti che possono avere vario contenuto, come l’esternazione di una posizione comune su una data questione politica o su determinati principi ovvero la regolamentazione della disciplina di determinati rapporti o attività comuni alle istituzioni coinvolte. In ragione del loro contenuto e della loro portata gli accordi interistituzionali possono assumere carattere vincolante; tuttavia, considerata la loro specifica funzione, si deve ritenere che gli eventuali effetti cogenti sussistano solo per le istituzioni che li hanno conclusi, dovendosi escludere che possano avere qualsiasi rilievo sulle posizioni dei singoli.
Va infine dato conto del fatto che nella prassi le istituzioni fanno sovente ricorso ad atti formalmente diversi da quelli tipizzati nell’art. 288 TFUE e non espressamente menzionati dai Trattati. È il caso ad esempio delle risoluzioni, conclusioni o dichiarazioni approvate dalle istituzioni politiche, in specie dal Consiglio o dal Parlamento europeo; degli orientamenti, comunicazioni o linee direttrici adottati dalla Commissione e ancora dei codici di condotta. Si tratta di atti, cd. atipici, i quali, pur non essendo in linea di principio fonti di norme giuridiche, possono rivestire notevole rilievo.
Frequente è l’adozione da parte del Consiglio di risoluzioni con cui l’istituzione esplicita la propria posizione su questioni concernenti determinati settori di attività dell’UE, talora preannunciandone le future linee di sviluppo normativo.
Dal canto suo la Commissione fa largo ricorso allo strumento della comunicazione, sia allo scopo di alimentare il dialogo interistituzionale, sia per portare a conoscenza degli Stati membri e dei soggetti privati il modo in cui interpreta le proprie competenze, sia, ancora, per dettare «regole indicative le quali definiscono le linee di condotta» che essa «intende seguire e che essa chiede agli Stati di rispettare» (C. giust., 24.2.1987, 310/85, Deufil). Nel caso in cui l’istituzione adotti norme di comportamento con comunicazioni, orientamenti o altri atti analoghi, essa si autolimita nell’esercizio del suo potere discrezionale e non può discostarsi da tali norme; non si può quindi escludere che, in presenza di talune condizioni e a seconda del loro contenuto, «siffatte norme di comportamento dotate di una portata generale possano produrre effetti giuridici» (C. giust., 28.6.2005, cause riunite C-189/02P, C-202/02P, C-205/02PC-208/02P e C-213/02P, Dansk RØrindustri).
Qualora atti di tale genere producano effetti giuridici nei confronti di terzi si deve ritenere esperibile il ricorso di annullamento. In particolare la Corte di giustizia ha esercitato il proprio sindacato di legittimità nei confronti di una comunicazione della Commissione nella misura in cui «essa costituisce un atto destinato a produrre effetti giuridici propri, distinti da quelli già previsti dalle norme del Trattato» (C. giust., 20.3.1997, C-57/95, Francia c. Commissione). Inoltre, la Corte ha proceduto ad annullare tali atti in quanto violavano le regole sulla competenza delle istituzioni ad emanare atti, diversi da quelli previsti dai Trattati, produttivi di effetti giuridici (C. giust., 13.11.1991, C-303/90, Francia c. Commissione; C. giust., 20.3.1997, C-57/95, Francia c. Commissione, cit.).
Sotto questo profilo va infatti osservato che il ricorso sistematico ad atti atipici nei settori nei quali il Trattato attribuisce una competenza normativa all’UE può provocare uno sviamento di procedura qualora si inserisca nell’iter legislativo. Per limitare tali effetti, l’art. 296, co. 3, TFUE stabilisce che il Parlamento europeo e il Consiglio nel corso di una procedura legislativa si devono astenere dall’adottare atti non previsti dalla procedura applicabile al settore interessato.
Tutti gli atti giuridici dell’UE e quindi non solo gli atti amministrativi, bensì tutti gli atti normativi, anche di natura legislativa, devono essere motivati (art. 296, co. 2, TFUE). L’obbligo di motivazione risponde alla duplice esigenza di far conoscere agli interessati, Stati membri e singoli, il modo in cui l’istituzione ha applicato il Trattato e di consentire al giudice europeo di esercitare il proprio controllo sull’atto.
Il rispetto dell’obbligo di motivazione deve essere valutato in funzione della natura e del contenuto dell’atto considerato così come del contesto giuridico specifico. In linea di principio la «necessità di motivare varia a seconda che si tratti di decisioni generali di carattere normativo o di decisioni a cui manchi tale carattere», rispetto alle quali la motivazione deve essere più dettagliata (C. giust., 16.12.1963, 8/62, Barge c. Alta Autorità). L’obbligo di motivazione è infatti maggiormente stringente quando si tratta di atti che derogano ad una disciplina vigente o che comportano conseguenze pregiudizievoli per i destinatari (C. giust., 25.10.2001, C-120/99, Italia c. Consiglio). Sotto questo secondo profilo va osservato che, ai sensi dell’art. 41, par. 2, lett. c), della Carta dei diritti fondamentali «l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni» costituisce parte integrante del diritto di cui dispone ogni persona ad una buona amministrazione.
La motivazione è un elemento essenziale dell’atto la cui assenza configura una violazione delle forme sostanziali e la conseguente illegittimità dell’atto censurabile in sede giurisdizionale ai sensi dell’art. 263 TFUE; tale vizio deve essere tenuto distinto dalla questione della fondatezza della motivazione, che attiene alla legittimità nel merito dell’atto controverso (C. giust., 19.9.2002, C-113/00, Spagna c. Commissione).
Per espressa previsione dell’art. 5 del Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità gli atti legislativi devono essere motivati con specifico riguardo ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità.
Sebbene i Trattati non vi facciano espresso riferimento, gli atti giuridici devono contenere l’espressa indicazione della base giuridica, ovvero della disposizione che abilita l’istituzione o le istituzioni ad adottare l’atto stesso. Secondo la Corte di giustizia, l’obbligo di indicare il fondamento giuridico di un atto fa parte dell’obbligo di motivazione (C. giust., 20.9.1988, 203/86, Spagna c. Consiglio).
I requisiti di forma e di pubblicità necessari affinché l’atto giuridico acquisti carattere definitivo ed entri in vigore sono regolati dall’art. 297 TFUE. Si tratta dell’autenticazione dell’atto mediante sottoscrizione da parte del presidente dell’istituzione competente per l’adozione dello stesso e della pubblicità che, a seconda della natura e dei destinatari dell’atto, può avvenire tramite pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea ovvero tramite notificazione.
Le forme con cui deve essere data pubblicità all’atto differiscono in ragione della natura dell’atto stesso. Gli atti a portata generale, ovvero gli atti legislativi così come anche i regolamenti, le direttive che sono rivolte a tutti gli Stati membri e le decisioni che non designano i destinatari, sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Gli atti a portata individuale, e più precisamente, secondo quanto recita l’ult. co. del par. 2 dell’art. 297 TFUE, «le altre direttive e le decisioni che designano i destinatari» sono notificate ai destinatari.
La pubblicazione dell’atto giuridico è condizione indispensabile perché esso possa entrare in vigore e produrre effetti giuridici (C. giust., 11.12.2007, C-161/06, Skoma-Lux; C. giust., 10.3.2009, C-345/06, Heinrich). La mancanza di pubblicità di un atto non ne determina l’invalidità ma ne differisce gli effetti giuridici.
La pubblicazione avviene nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, nella serie L (legislazione). Della Gazzetta ufficiale esiste anche l’edizione elettronica che dal 1° luglio 2013 costituisce anch’essa fonte di cognizione ufficiale del diritto dell’Unione. Per garantire l’unità e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione sull’intero territorio di questa, la pubblicazione deve avvenire contemporaneamente in tutte le versioni linguistiche ufficiali alla medesima data.
L’art. 297, par. 2, ult. co., TFUE stabilisce che le direttive destinate soltanto ad uno o ad alcuni Stati membri e le decisioni che designano i loro destinatari, devono essere notificate ai loro destinatari. In forza di tale notificazione gli atti suddetti acquistano efficacia e sono opponibili ai terzi. Molti atti di portata individuale sono comunque pubblicati, in via facoltativa, nella serie C (comunicazioni e informazioni) della Gazzetta ufficiale allo scopo di darvi più ampia pubblicità, mettendo in tal modo i terzi eventualmente interessati in condizione di potere approntare le proprie difese. La notificazione può avvenire o per posta, con raccomandata con avviso di ricevimento, ovvero, quando l’atto è destinato a uno Stato membro, per mezzo di comunicazione presso la Rappresentanza permanente presso l’Unione europea di tale Stato. La notificazione si considera regolare quando sia stata comunicata al destinatario e questi sia stato in grado di prenderne conoscenza.
Per quanto riguarda infine l’entrata in vigore degli atti, l’art. 297 TFUE stabilisce che gli atti che devono essere pubblicati in Gazzetta ufficiale entrano in vigore alla data da essi stabilita o, in mancanza, dopo un periodo di vacatio legis di venti giorni; per gli atti soggetti all’obbligo di notificazione gli effetti giuridici decorrono dalla data di recezione da parte del destinatario della notificazione.
TUE; TFUE; Carta dei diritti fondamentali dell’UE; Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie; regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio del 6.2.2011, 182/2011; decisione del Consiglio del 28.6.1999, 1999/468/CE.
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