ATTI degli apostoli (gr. Πράξεις τῶν ἀποστόλων; lat. Actus apostolorum; fr. Actes des apôtres; sp. Actos, o Hechos, de los apóstolges; ted. Aposiolgeschichte; ingl. Acts of the Apostles. Gli antichi scrittori italiani usarono, e forse più propriamente, "fatti", termine usato oggi solo da pochissimi, per lo più protestanti)
Titolo del libro che, nel Nuovo Testamento, segue immediatamente i Vangeli.
Ha una funzione intermedia: continua, nella narrazione dei fatti, i Vangeli e incornicia l'insegnamento apostolico contenuto nelle lettere attribuite ad apostoli. E per questo motivo, pur non essendo un'opera complessiva su tutti gli apostoli, ma limitandosi invece quasi esclusivamente alla storia di Pietro e di Paolo, senza neppur darla completa, perché Pietro sfugge dall'orizzonte del narratore fin dal c. XV, e né di lui né di Paolo è narrata la morte, gli Atti vennero considerati dalla tradizione ecclesiastica come atti di tutti gli apostoli. Infatti essi nel loro insieme esprimono completamente quel concetto di tradizione apostolica, a cui tenne fermo, nella storia successiva, la Chiesa contro gli Atti apostolici di tendenza gnostica.
La tradizione. - Dalla tradizione concorde (unica eccezione una homilia in Acta ap. attribuita a Giovanni Crisostomo, dove probabilmente si fa confusione con le controversie fra Chiesa occidentale e orientale circa la Lettera agli Ebrei) l'opera è attribuita allo stesso autore del terzo Vangelo. In ciò conviene (tranne rarissime eccezioni) anche la critica moderna. Indiscutibile è la comune fisionomia delle due opere, la loro unità stilistica e la loro connessione documentata dai due prologhi.
La tradizione ecclesiastica, poi, identifica quest'unico autore con Luca, compagno di missione di Paolo, e di cui si parla in Colossesi, IV, 14 ("vi saluta Luca il caro medico"), in Filemone, 24 ("ti saluta Epafra mio compagno di prigionia in Cristo Gesù, Marco, Aristarco, Demade e Luca, miei collaboratori"), in II Timoteo, IV, 10, 11 ("Luca è solo con me"). Inoltre la tradizione volle scorgere un accenno a Luca nel passo II Corinzî, VIII, 18, dove si parla di un fratello che si è acquistato lode nel Vangelo (dando così alla parola εὐαγγέλιον il significato, che non ha altrove in Paolo, di libro scritto), e aggiunge poche altre notizie: che il medico Luca era antiocheno, che visse celibe, che scrisse il Vangelo in Acaia, che morì di 74 anni in Bitinia o in Beozia.
Una delle più antiche testimonianze è quella tramandataci in forma paleograficamente scorrettissima dal Canone del Muratori (v.), della fine del sec. II: Lucas iste medicus post acensum (ascensum) xpi cum eo (eum) Paulus quasi ut iuris studiosum secundum (secum) adsumsisset noumeni (nomine) suo ex opinione concriset (conscripsit) dñm (dominum) tamen nec ipse vidit in carne et idē(ideo) prout asequi potuit ita et ad (ab) nativitate iohannis incipet (incipit) dicere. Simile ma più ricca di particolari la testimonianza ilell'antichissimo prologo monarchiano alla versione latina del Vangelo: Lucas Syrus natione Antiochensis, arte medicus, discipulus apostolorum, postea Paulum secutus usque ad confessionem eius serviens deo sine crimine, nam neque uxorem unquam habens neque filios LXXIIII annorum obiit in Bithynia plenus spiritu sancto. Su per giù le stesse notizie stereotipate ci dànno Ireneo (Adv. Haer., III, 14, 1) ed Eusebio (Hist. eccl., III, 4, 6), ripetuto ed amplificato da S. Girolamo (De vir. ill. c. VII) che conviene citare come la ricapitolazione più completa della tradizione. Lucas medicus Antiochensis, ut eius scripta indicant, Graeci sermonis non ignarus fuit, sectator apostoli Pauli et omnis peregrinationis comes, scripsit evangelium de quo idem Paulus: "misimus, inquit, cum illo fratrem cuius laus in evangelio per omnes ecclesias"; et ad Colossenses: "salutat vos Lucas medicus carissimus"; et ad Timotheum: "Lucas est mecum solus". Aliud quoque edidit volumen egregium quod titulo apostolicarum πράξεων prenotatur. Cuius historia usque ad biennium Romae commorantis Pauli pervenit, id est usque ad IV Neronis annum. Ex quo intelligimus in eadem urbe librum esse compositum... Quidam suspicantur quotiescumque Paulus in epistulis suis dicat: "Iuxta evangelium meum", de Lucae significare volumine et Lucam non solum ab apostolo didicisse evangelium, qui cum Domino in carne non fuerit, sed et a ceteris apostolis. Quod ipse quoque in principio voluminis sui declarat dicens: "Sicut tradiderunt nobis qui a principio ipsi viderunt et ministri fuerunt sermonis". Igitur evangelium, sicut audierat, scripsit, acta vero apostolorum, sicut viderat ipse composuit. Sepultus est Constantinopoli, ad quam urbem vicesimo Constantii anno (356-357 d. C.) ossa eius cum reliquiis Andreae apostoli translata sunt. Similmente lo stesso Girolamo nel Prologus quattuor evangeliorum.
Di grado indubbiamente inferiore sono le tradizioni che fanno di Luca uno dei settanta (o settantadue) discepoli mandati da Gesù dinanzi a sé, o ce lo presentano come pittore che avrebbe riprodotto le fattezze della Vergine, e l'altra delle pseudo-Clementine (Recogn., X, 61) che ne fanno un ricco antiocheno che, convertitosi, avrebbe trasformato la sua casa in basilica cristiana.
La discussione fra i critici verte sul valore da riconoscere ai dati tradizionali. I conservatori accettano e sostengono nel suo complesso la tradizione su Luca medico antiocheno, compagno di Paolo e autore dei due logoi. I critici più avanzati sostengono che in nessun modo i due logoi possono attribuirsi a un compagno degli apostoli e a un testimonio oculare dei fatti; la tradizione lucana avrebbe avuto origine dal fatto che sparsi per gli Atti emergono passi in prima persona plurale: frammenti d'una fonte malamente risolta nel complesso dell'opera; questa fonte doveva essere di un compagno di Paolo, e nulla impedisce di ammettere che sia del medico Luca. In seguito, il nome dell'autore della fonte sarebbe stato esteso alle due opere, dovute, nella forma presente, a un più tardo compilatore.
Gli Atti degli apostoli per il loro stesso contenuto, meno direttamente legato alla storia della salute cristiana, ebbero come libro autonomo ben minore diffusione del Vangelo lucano. Le tracce nella letteratura antica cristiana sono assai scarse fin quasi alla metà del sec. II. I punti di contatto che si son voluti riscontrare con Clemente Romano, Ignazio d'Antiochia, la lettera di Barnaba e il Pastore di Erma, sono ambigui: non sono citazioni letterali, e più che una derivazione potrebbero documentare un'affinità di idee con gli scrittori del principio del sec. II. Secondo Tertulliano (Adv. Marc., V, 2,) Marcione, che pure accettava per la sua chiesa il solo Vangelo di Luca ricorretto, respingeva gli Atti; cosa consona al paolinismo estremo dell'eresiarca; gli Atti infatti presentano un Paolo in grande armonia con Gerusalemme, e dedito a pratiche giudaiche.
Più evidenti diventano le tracce degli Atti dopo la metà del sec. II, quando si può già considerare costituito, nel suo complesso, il canone del Nuovo Testamento. Giustino martire in più luoghi ha presente, oltre al terzo Vangelo, gli Atti. Importante assai è un altro passo del Canone muratoriano: 34 sc.: acta autē omniū apostolorum sub uno libro scribta sunt Lucas obtime theofile comprindit quia sub praesentia eius singula gerebantur sicuti et semote passione petri evidenter declarat sed et profectione pauli ab erbe ad spaniā proficescientis (Interpretazione del Lietzmann: acta autem omnium apostolorum sub uno libro scripta sunt. Lucas optimo Theophilo comprendit quae sub praesentia eius singula gerebantur, sicuti et semota passione Petri evidenter declarat, sed et profectione Pauli ab urbe ad Spaniam proficiscentis). Il canone si preoccupa evidentemente d'allargare il più possibile il valore dell'opera. Tutto quanto negli Atti è narrato ha per testimonio oculare Luca, e la finale abrupta, che non ci narra i martirî dei due apostoli, viene a confermare questa tesi, della presenza perpetua dell'autore a tutti i fatti narrati. E questo tema si ritrova anche in Ireneo di Lione (Ad. Haer., III, 14, 1). Per Tertulliano (Adv. Marc., V, 1, 2, 3; De pud., 12; De ieiun., 10) e per Clemente Alessandrino (Strom., I, 91,1; V, 81, 3; Paedag., II, 16,2) gli Atti sono pure scritti pienamente canonici.
Il contenuto del libro. - Come il terzo Vangelo, gli Atti si aprono con un preambolo a Teofilo, in uno stile che vorrebbe essere solenne, e le cui irregolarità han fornito invece lo spunto a complesse ipotesi moderne sulla redazione degli scritti lucani. Ad alcuni è sembrato infatti incompiuto il concetto, che pure è il tema fondamentale degli Atti, che oltre alla storia di Gesù v'è un altro ciclo di nuova storia religiosa: la propagazione della parola da parte degli apostoli, opera dello Spirito che sempre li assiste. L'autore lascia sospeso il prologo per rifarsi al punto in cui ha conchiuso il terzo Vangelo; ma riprende e precisa più esattamente l'episodio dell'Ascensione. Gesù non è asceso subito al cielo - come potrebbe forse pareie dalla finale del Vangelo - ma è convissuto con i discepoli per quaranta giorni, ha rettificato le loro credenze circa l'imminenza del regno di Dio, ha preannunciato loro il dono dello Spirito e ha insistito sul fatto che questo dono non coincide con l'avvento del regno; ha vietato loro di partirsi da Gerusalemme. Dopo tutto ciò Gesù ascende al cielo dal monte degli Ulivi (I, 1-9). Due angeli appaiono a ribadire il tema dell'Ascensione agli apostoli: così come è asceso al cielo, dal cielo Gesù dovrà tornare per il giudizio. Gli undici discepoli, di cui si dà un nuovo elenco, si stanziano a Gerusalemme. A questo punto si accenna alla convivenza di Maria e dei fratelli di Gesù con la prima comunità (I, 10-14). Nei giorni seguenti Pietro con un discorso invita la comunità a reintegrare il numero dei dodici apostoli, sostituendo al traditore un discepolo che abbia seguito Gesù in tutta la sua carriera. Per mezzo delle sorti lo Spirito designa Mattia (I, 15-26). Il giorno della Pentecoste discende sulla comunità lo Spirito come vento possente e come fiamma. Il dono dei linguaggi inteso come capacità di servirsi dei varî linguaggi per la propagazione del Vangelo, è infuso negli apostoli. Ma taluni dei forestieri dimoranti in Gerusalemme, che son testimoni del fatto, considerano gli apostoli ubbriachi di vino nuovo. Dall'obbiezione prende lo spunto un nuovo discorso di Pietro: non si tratta d'ubbriachezza, ma dell'effusione dello Spirito profetata da Gioele. Il discorso è stilizzato sulla forma di un'attestazione solenne. Gesù Nazareno, uomo accreditato da Dio con segni e prodigi, è stato messo a morte dai Giudei, e da Dio, secondo le profezie e le scritture, è stato fatto risorgere al terzo giorno. Di tutto ciò son testimonî gli apostoli. Molti uditori si convertono: la comunità sale a 3000 anime. La vita della comunità si svolge in fraternità ideale (II). Gli apostoli - specialmente Pietro e Giovanni, che negli Atti appaiono quasi sempre abbinati - continuano la propaganda. Dopo aver guarito un paralitico nato, Pietro predica nel Tempio il messaggio del Cristo morto e risorto, e porta a 5000 il numero dei credenti (III). È però arrestato, insieme con Giovanni e il paralitico, e tradotto dinnanzi al Sinedrio: nuovo suo discorso dinnanzi all'alto tribunale, e testimonianza solenne al Cristo morto e risorto (IV, 1-12). Il Sinedrio, nonostante il suo malvolere, è costretto a dimetterli, interdice però loro la predicazione. L'episodio si chiude con un inno di giubilo della comunità (IV, 13-31). Sullo sfondo di una nuova raffigurazione della carità fraterna che giunge a una quasi comunione di beni (IV, 32-37) si proietta la storia di Anania e Saffira. Questi due coniugi, dopo aver venduto un campo, ne portano il prezzo ai piedi degli apostoli. Ma hanno frodato sul prezzo, e mentiscono successivamente al cospetto dello Spirito, il quale li folgora (V, 1-11).
Si riprende il tema della propaganda. Avendo trasgredito al divieto di predicare, tutti gli apostoli sono arrestati. Sono liberati miracolosamente: compaiono liberi dinnanzi al Sinedrio, testimonio impotente del prodigio, per ribadire la loro testimonianza e la loro ubbidienza a Dio. Il dottore giudeo Gamaliele, con un discorso al Sinedrio, storna dagli apostoli le maggiori punizioni. Essi sono flagellati e rimessi in libertà. Non per questo cessano d'annunziare il Vangelo (V, 12-42). La comunità cresce, e sorge conflitto fra i credenti d'origine giudaico-palestinense e quelli d'origine giudaico-ellenistica per la questione dei soccorsi alle vedove. I dodici invitano la comunità ad eleggere sette ministri delle mense (diaconi): sono eletti sette ellenisti (VI, 1-7). Un d'essi, Stefano, svolge propaganda fra i giudei della diaspora stabiliti a Gerusalemme. Incorre da parte degli oppositori in un'accusa consimile a quella mossa a suo tempo a Gesù: d'aver bestemmiato contro il Tempio. Un tumulto trascina Stefano dinnanzi al Sinedrio (VI, 8-15). In un lungo discorso Stefano provoca nuovamente all'ira quei cuori induriti (VII, 1-53), rievocando le perpetue ribellioni del popolo di dura cervice contro Dio e contro i suoi messi. Le ribellioni contro Mosè sono il simbolo profetico delle ribellioni contro Gesù, il profeta come Mosè profetato dalla scrittura: anche la costruzione del tempio di Salomone viene considerata come atto di molto minore importanza di quanta gliene attribuivano i contemporanei giudei, specialmente in confronto col tabernacolo mobile. A questo punto un nuovo tumulto strappa Stefano dal tribunale. Il protomartire è lapidato fuori città: un giovinetto, Saulo, è fra i protagonisti della lapidazione (VII, 54-60). La persecuzione s'estende a tutta la Chiesa, che, tranne gli apostoli, è dispersa. Saulo infierisce (VIII, 1-3). Filippo, il compagno di Stefano, ripara in Samaria, vi opera guarigioni e prodigi, e per primo diffonde il Vangelo fra i non giudei. Pietro e Giovanni partono da Gerusalemme per ispezionare l'opera di Filippo, comunicano lo Spirito ai samaritani convertiti e battezzati. Fra costoro, un mago Simone, che già con le sue arti aveva sedotto molti in Samaria, offre a Pietro del denaro per acquistare il segreto di operare i prodigi dello Spirito Santo. Pietro lo maledice (VIII, 4-25). Segue quindi un'altra conversione miracolosa operata da Filippo nella persona di un eunuco etiope (VIII, 26-40). La narrazione ritorna quindi su Saulo persecutore. Mentre con missione del Sinedrio si reca a Damasco a perseguitarvi i fedeli, Saulo è folgorato, e temporaneamente accecato dall'apparizione del Cristo (IX, 1-10). Intanto il Signore con altre visioni eccita il fedele Anania a muovere incontro a Saulo e a battezzarlo e a rendergli la vista. Saulo convertito predica in Damasco; è insidiato dai Giudei; fugge facendosi calare in una sporta giù dalle mura: si reca a Gerusalemme dove tutti lo sfuggono; Barnaba però l'introduce presso gli apostoli. Saulo inizia la propaganda a Gerusalemme; è nuovamente insidiato e ripara a Tarso (IX, 11-30).
Si ritorna nuovamente alla storia della chiesa di Gerusalemme: Pietro opera la guarigione di un altro paralitico e una risurrezione, a Joppe, nella persona di Tabitha (IX, 31-43). Recatosi in Cesarea, Pietro, per mezzo di ripetute visioni, è condotto dallo Spirito non solo a battezzare il centurione pagano Cornelio e la sua famiglia, ma a prescindere da tutti gli scrupoli di purità levitica che interdicevano il commercio fra giudei e pagani (X); spiega e difende quindi il suo operato dinnanzi alla chiesa di Gerusalemme (XI, 1-18). L'episodio non accenna alla precedente narrazione di Filippo in Samaria, con cui si sarebbe inaugurata la missione fra i non giudei, e a sua volta, non è accennato dal passo seguente (XI, 19-30) che narra con particolari come per opera d'ignoti fedeli dispersi dalla persecuzione si cominciasse per la prima volta a parlare di Cristo ai gentili di Antiochia di Siria, come sorgesse la comunità, in gran parte pagano-cristiana, d'Antiochia, come in essa Barnaba chiamasse Saulo, e come, avvisata da taluni profeti venuti da Gerusalemme dell'imminenza di una carestia, la chiesa antiochena sovvenisse la comunità di Gerusalemme inviandole soccorsi per mezzo di Barnaba e Saulo. Il capitolo XII (1-24) narra come il re Erode Agrippa mettesse a morte Giacomo di Zebedeo e imprigionasse Pietro: ma questi viene liberato miracolosamente, e Agrippa è punito da Dio con atroce morte nel colmo del suo orgoglio. Intanto Barnaba e Saulo ritornano in Antiochia insieme con un altro discepolo, Giovanni Marco, cugino di Barnaba, e sono chiamati dallo Spirito ad una grande missione (XII, 25-XIII, 3).
Essi passano infatti nell'isola di Cipro, a Salamina e a Pafo, e predicano il Vangelo. Saulo confonde e acceca il mago Elimas Bar Jesu, che vuole distogliere il proconsole Sergio Paolo dal dare ascolto ai missionarî: il proconsole si converte (XIII, 4-12). A questo punto gli Atti cominciano a designar Saulo col nome di Paolo, e a dargli una posizione premimente. La missione passa a Perge di Panfilia. Qui Giovanni Marco abbandona i compagni: Paolo e Barnaba continuano per Antiochia di Pisidia. Paolo tiene nella sinagoga un discorso che per forma e contenuto non differisce molto da quelli attribuiti a Pietro. Nel sabato seguente avviene la scissura fra coloro che aderiscono al Vangelo, e i giudei pervicaci. Fondata la chiesa di Antiochia di Pisidia, i missionarî son costretti a fuggire ad Iconio per gl'intrighi dei giudei (XIII, 13-52). Ad Iconio le cose vanno come ad Antiochia di Pisidia (XIV, 1-6). Riparano a Listra, dove, per una guarigione operata da Paolo, sono accolti come dei. Ma anche qui gl'intrighi di taluni giudei provenienti da Antiochia di Pisidia provocano disordini. Paolo è lapidato e lasciato per morto (XIV, 7-20). Insieme con Barnaba fugge a Derbe, e di qui, ripassando per le stazioni già fatte, cala ad Attalia, e ritorna ad Antiochia di Siria (XIV, 21-28). Al sopraggiungere di alcuni fratelli da Gerusalemme si leva in Antiochia la questione se si debbano circoncidere i gentili che si convertono a Cristo. Paolo e Barnaba si oppongono a questa pretesa e salgono a Gerusalemme, dove espongono tutta l'evangelizzazione delle genti da loro compiuta: Pietro li sostiene, e Giacomo, il fratello del Signore, si limita a fare approvare il cosiddetto decreto apostolico: i gentili convertiti devono astenersi dalle carni d'animali sacrificate agl'idoli, dalle carni soffocate, e da tutti gli eccessi sessuali raggruppati sotto il nome di πορνεία. Giuda Barsabba e Sila sono incaricati di diffondere fra i gentili convertiti il decreto apostolico (XV, 1-35).
Dopo un soggiorno in Antiochia, Paolo e Barnaba s'accingono a partire: ma scoppia fra loro un dissidio, perché Barnaba vuol riprendere con sé Giovanni Marco. I due apostoli si separano. Barnaba e Marco vanno in Cipro; Paolo, preso con sé Sila, attraverso la Siria e la Cilicia ritorna a visitare le chiese già fondate sull'altipiano anatolico. Circoncide Timoteo, e tenta di raggiungere la provincia d'Asia; ma, impedito "dallo Spirito", si volge, a traverso l'altipiano galatico, verso la Misia. Giunge a Troade, e un sogno l'invita a passare in Macedonia (XV, 36-XVI, 10). A questo punto la narrazione è in prima persona plurale. In Macedonia i missionarî si spingono a Filippi e vi fondano una chiesa. Una sommossa provocata da un esorcismo operato da Paolo su di un'indovina provoca la flagellazione e l'imprigionamento di Paolo e Sila (in occasione del tumulto cessa il passo in prima persona plurale; XVI, 11-25). Un terremoto miracoloso rompe nella notte i ceppi dei prigionieri e provoca la conversione del carceriere. Fatto giorno, Paolo chiede e ottiene dai duoviri di Filippi riparazione della flagellazione inflitta a cittadini romani senza processo; ma è invitato a lasciar la città (XVI, 26-40). Passa a Tessalonica e svolge la sua attività nella sinagoga, ma dopo un breve soggiorno s'attira da parte dei giudei la solita persecuzione che lo costringe a riparare a Berea (XVII,1-9). Dopo un breve successo, anche a Berea avvengono disordini. L'apostolo è fatto fuggire e imbarcato su una nave che lo trasporta ad Atene (XVII, 10-15). In Atene compie un tentativo di propaganda, predicando Gesù e la risurrezione nell'Areopago ai rappresentanti delle diverse sette filosofiche. Il tentativo ha assai scarsi risultati e finisce fra i motteggi (XVII, 16-34). Paolo si trasferisce a Corinto, e si unisce a due altri propagandisti, nativi del Ponto e provenienti dall'Italia: Aquila e Priscilla. Predica dapprima nella sinagoga, poi rompe le relazioni con i giudei e svolge la sua attività fra i gentili. Incoraggiato dallo Spirito, si trattiene a Corinto un anno e mezzo. I giudei lo trascinano dinnanzi al proconsole Anneo Gallione. Ma il proconsole non vuole ricevere l'accusa e l'episodio finisce con lo scorno dei giudei (XVIII, 1-17). Paolo parte con Aquila e Priscilla per Efeso: ma non vi si ferma, prosegue per Cesarea e Gerusalemme, per poi ritornare a Efeso, passando per Antiochia e l'altopiano galatico. Intanto Aquila e Priscilla in Efeso entrano in relazione col dottore alessandrino Apollo, lo perfezionano nel Vangelo e gli dànno commendatizie per Corinto (XVIII, 18-28). Paolo, ritornato ad Efeso, entra in rapporto con alcuni cristiani incompleti, forse discepoli d'Apollo, che conoscono il solo battesimo di Giovanni e non hanno ricevuto il dono dello Spirito. Li ribattezza nel nome di Gesù e infonde loro lo Spirito. Dopo aver predicato nella sinagoga, si apparta dai giudei e svolge la sua attività nella scuola d'un certo Tiranno. Avvengono numerosi miracoli. I sette figli del gran sacerdote Sceva tentano di esorcizzare i demoniaci nel nome di Gesù predicato da Paolo, ma i demonî si fanno beffe di loro e li lasciano malconci. Libri magici di gran valore vengono bruciati dai nuovi convertiti (XIX, 1-20). Paolo s'apparecchia a partire per Gerusalemme, quando la plebe efesina, sobillata da un certo Demetrio argentiere, danneggiato per la diminuita vendita delle riproduzioni argentee del tempio dell'Artemide efesia, prorompe in un fiero tumulto anticristiano, che poco manca non travolga Paolo. Con un discorso tenuto nel teatro, il segretario della città placa la folla (XIX, 21-40). Dopo il tumulto, Paolo si reca a visitare le chiese di Macedonia e d'Acaia: impedito d'imbarcarsi a Corinto per la Palestina, risale in Macedonia e passa a Troade, ove, per la Pasqua, si trova circondato dai rappresentanti di numerose chiese, che evidentemente lo devono accompagnare a Gerusalemme (XX, 1-6). A questo punto tornano ad affiorare passi in prima persona plurale (XX, 6, 7, 13 segg.). Segue l'episodio di un fanciullo che, caduto giù dal terrazzo, è fatto miracolosamente risuscitare da Paolo (XX, 7-12), e l'itinerario fino a Mileto, dove Paolo tiene un commovente discorso d'addio agli anziani d'Efeso (XX, 13-38). Continua particolareggiato, con parecchi passi in prima persona plurale (anche XXI, 17), l'itinerario fino a Gerusalemme, inframezzato da profezie sul sinistro esito del viaggio (XXI, 1-16). A Gerusalemme Paolo e i compagni sono accolti da Giacomo, fratello del Signore, e dalla comunità. Per purgare Paolo dall'accusa corrente che lo faceva propagatore d'apostasia dal giudaismo, Giacomo consiglia a Paolo di far le spese e di partecipare al rito di quattro fedeli che han fatto il voto di nazireato. Paolo accetta, ma, prima che trascorrano i sette giorni, è riconosciuto nel Tempio da alcuni giudei d'Asia. La folla aizzata gli si avventa contro, e l'apostolo è strappato dalle mani dei fanatici solo dal pronto intervento del presidio romano della Torre Antonia (XXI, 17-36). Sul punto d'essere introdotto nel quartiere militare, Paolo ottiene dal tribuno militare il permesso di arringare la folla. Narra la sua conversione e una visione da lui avuta molti anni prima nel Tempio. In essa Iddio l'avvertiva che la sua testimonianza non sarebbe stata accettata dal popolo giudaico, e perciò l'investiva dell'apostolato delle genti (XXI, 37-XXII, 21). Più violento prorompe il furore popolare. Il tribuno, trascinato l'apostolo nel quartiere, vuol farlo flagellare. Paolo l'impedisce, ricordando la sua qualità di cittadino romano (XXII, 22-29). Il giorno seguente il tribuno fa trasferire Paolo dinnanzi al Sinedrio, per una prima inchiesta. La cosa termina senza conclusione, perché un contrasto si manifesta fra gli assessori (sadducei e farisei) a proposito della risurrezione dei morti. Ricondotto in prigione, Paolo è informato da un suo nipote d'una congiura fatta dagli zeloti per toglierlo di mezzo. Ne informa il tribuno, che lo manda sotto scorta a Cesarea, presso il procuratore Antonio Felice (XXII, 30-XXIII, 35). Il Sinedrio per mezzo del retore Tertullo inizia un'azione contro Paolo. Paolo si difende; il procuratore Antonio Felice rinvia il dibattito. Paolo acquista un notevole ascendente sul governatore e su sua moglie Drusilla. Ciò nonostante, Felice, quando due anni dopo è richiamato, lascia ancora in prigionia Paolo per propiziarsi i giudei (XXIV). Il successore di Felice, Porcio Festo, sollecitato dal Sinedrio, riapre il processo, e vuol trasferire la causa dinnanzi al Sinedrio stesso in Gerusalemme. Paolo si appella al tribunale imperiale (XXV, 1-12). Sopraggiunti a Cesarea il tetrarca Agrippa II e sua sorella Berenice, il procuratore romano li invita ad esaminar la questione, per aver elementi con cui fare il rapporto al tribunale imperiale. Interrogato, Paolo tiene un lungo discorso apologetico, a cui pongono termine osservazioni ironiche e scettiche di Agrippa e di Festo, che tuttavia si mostrano convinti dell'innocenza dell'apostolo (XXV, 13-XXVI, 32). Paolo è spedito a Roma. Il viaggio, iniziato in autunno, è tempestosissimo. La nave che trasporta Paolo e i suoi compagni (in questo itinerario riemergono ancora alcuni passi in prima persona plurale) naufraga a Malta, dove i naufraghi svernano. A primavera l'apostolo è imbarcato su un'altra nave, trasportato a Pozzuoli e avviato verso Roma. I fedeli di Roma muovono ad incontrarlo a Forum Appii e a Tres Tabernae (XXVII, 1-XXVIII, 15). A Roma Paolo può affittare una casa e, sotto custodia militare, comunicare con l'esterno. Manda a chiamare i capi giudei. Costoro repugnano al Vangelo. La rottura diventa definitiva. Per altri due anni Paolo, in questa forma mitigata di prigionia, svolge la sua attività di propaganda. A questo punto si chiude il libro (XXVIII, 31).
La critica moderna. - Dopo alcuni inizi settecenteschi e del principio dell'800 di ricerche sulle ipotetiche fonti degli Atti, il problema critico si pone con la "scuola di Tubinga". Il Baur aveva preso le mosse, per un'interpretazione storica dell'età apostolica, dalla constatazione di un dissenso tra gli apostoli, e aveva fatto di tale contrasto fra giudeo-cristianesimo e paolinismo la molla di tutto il moto cristiano; e gli Atti furono scrutati come testimonianza di tale antagonismo. Il suo sistema è il seguente. Egli crede di ritrovare notevoli divergenze fra gli Atti e le lettere paoline. Molti elementi di cui ci parlano le lettere (p. es., i tre naufragi di Paolo anteriori al viaggio per Roma, la maggior parte delle sette flagellazioni, dei pericoli elencati in II Corinzî, XI, gli accenni a prigionia e ai rischi di condanna capitale in Asia) mancano negli Atti; in Galati, II, 2, ci si parla di due soli viaggi a Gerusalemme (di cui uno in forma segreta): gli Atti ci parlano di tre. L'accordo di Gerusalemme, secondo Gal., è un accordo privato coi capi: secondo Atti, è preso in un Loncilio. Gli Atti accentrano in Gerusalemme anche la missione paolina e subordinano l'apostolo delle genti a quelli di Gerusalemme, contro la testimonianza d'indipendenza data dalle lettere; parlano di concessioni agli scrupoli giudaici nell'assemblea di Gerusalemme, mentre Paolo sembra ignorarle; tacciono del conflitto di Antiochia, di cui ci parla Gal., II, 11 segg.; presentano fatti che possono parer dubbî dal punto di vista del Paolo delle Lettere (p. es., la circoncisione di Timoteo, Atti, XVI, 3, e il rito di Paolo nel Tempio); fanno anticipare, con la missione in Samaria e con gli episodî dell'eunuco etiope e di Cornelio, dalla chiesa di Gerusalemme la missione fra le genti, che proprio in Gerusalemme trovò i più notevoli contrasti. Inoltre si rilevarono i continui parallelismi fra la storia di Pietro e quella di Paolo (p. es. le guarigioni: III, 1, e XIV, 8; IX, 32 e XXVIII, 8; contrasto con maghi, VIII, 9, 24 e XIII, 6-12; risurrezioni IX, 36 e XX, 7; adorazione degli apostoli X, 25-26 e XIV, 11, cfr. XXVIII, 6; prigionie e processi IV, 1 segg., V, 17 segg., XII, 3 segg. e XVI, 19 segg., XVIII, 12, XXI, 27; flagellazioni V, 40 e XVI, 22; liberazioni miracolose: V, 19, XII, 6 segg. e XVI, 25 segg.; relativo favore da parte dei farisei V, 34 e XXIII, 7; comunicazione dello Spirito riservata agli apostoli, VIII, 15 segg. e XIX, 5); e si rilevarono analoghe simmetrie con la storia evangelica, p. es. nei processi, nei miracoli, ecc. In forza di queste sue ragioni la scuola di Tubinga sostenne che gli Atti rappresentavano la fase di mediazione fra universalismo paolino e giudeo-cristianesimo, sulla base dell'accettazione indiscussa dell'universalismo cristiano, del riconoscimento della tradizione gerosolimitana, della mitigazione delle asprezze antilegalistiche di Paolo (Baur, Schwegler, Zeller). Altri dello stesso indirizzo pensavano a un tentativo di riassorbimento di Paolo da parte del giudeo-cristianesimo. Per tutto ciò la scuola respingeva l'autenticità lucana di tutta l'opera, limitandosi a far risalire a Luca (o a qualche altro protagonista, a seconda degli autori) i brani in prima persona plurale, e tendeva a spingere avanti nel sec. II la compilazione degli Atti.
Contro la scuola di Tubinga si fece simultaneamente sentire la reazione sia da parte dei conservatori della scuola del Ritschl, sia da parte degli ultraradicali dell'indirizzo del Bauer e della scuola olandese, riguardo all'inquadramento generale della storia apostolica. Attraverso molteplici osservazioni si trovò angusta e meccanica la dialettica delle origini proposta dal Baur; non esatta l'identificazione di universalismo e paolinismo; si criticò la concezione dottrinale-teologica degli apostoli e della loro controversia. L'indirizzo radicale con il van Manen preferiva, per verosimiglianza storica, il Paolo degli Atti a quello delle Lettere; da altri si giudicava esagerata l'importanza data al giudeo-cristianesimo che dopo il 70 perdeva ogni funzione; s'affacciava il problema dei rapporti fra cristianesimo ed ellenismo. Perciò della critica tubinghiana degli Atti rimasero per un certo tempo senza sviluppo anche alcune osservazioni ed analisi pregevoli, indipendenti dal sistema. Anche il tentativo di riforma dell'apprezzamento degli Atti avanzato dal tubinghiano F. Overbeck, di considerare cioè l'opera non come intenzionale mediazione, ma proiezione nel passato d'una situazione di fatto presente all'epoca dell'autore, e come intenzionale opera apologetica del cristianesimo, per affermarne, di fronte all'autorità romana, l'innocuità e la liceità, rimase per il momento senza risultato.
Prevalse poi, sotto l'influenza dello spirito positivistico, un altro indirizzo: quello di tentar di sceverare le fonti, dalla cui fusione sarebbe sorta l'opera complessiva. A questo tentativo pareva favorevole l'aspetto degli Atti: ora copiosissimi, ora brevi e quasi aridi; sconnessi nei fatti, e ricchi di discorsi e di miracoli; ora generici e indeterminati, ora ricchissimi di elementi concreti. Inoltre molte narrazioni parevano reduplicate o costituite con la fusione di due racconti diversi: p. es. il primo arresto di Pietro e Giovanni e la discussione davanti al Sinedrio sembrò affine all'arresto di tutti gli apostoli del c. V. L'episodio della Pentecoste parve costituito con la fusione di due racconti: l'uno che narri la prima manifestazione della glossolalia, un altro che narri l'infusione di tutti i linguaggi; il processo di Stefano sembrò ora un processo regolare, ora un procedimento tumultuario di folla; si notò che la descrizione della vita della comunità primitiva ritorna più volte in forme diverse; l'episodio di Cornelio parve amplificato per aggiunte a un nocciolo più antico; il primo viaggio di Barnaba e Paolo a Gerusalemme fu considerato un doppione del cosiddetto concilio; le vicende di Paolo nelle diverse città parvero ricalcate su di uno stesso stampo. Per tutto ciò, mentre la critica protestante conservatrice (p. es. B. Weiss, Bethge, ecc.) cercava di dedurre quali fossero le fonti delle sezioni di cui Luca non poteva essere addotto come testimonio e garante, o quali fossero i noccioli veramente paolini o petrini dei discorsi attribuiti agli apostoli; da parte di critici anche più radicali si cercava di aggruppare da un lato gli elementi ritenuti più verosimili, dall'altro ciò che fu ritenuto leggenda, in due o più documenti, e dal loro intarsio dedurre l'opera nella sua forma ultima (Sorof, Wendt, Spitta e J. Weiss).
Tutto questo indirizzo era sotto l'influenza dei risultati della critica del Pentateuco del Wellhausen, la quale proponeva di spiegare i libri mosaici con la sovrapposizione di diversi documenti. Ma dopo mon molto si dovette riconoscere che il caso degli Atti era diverso, e si abbandonò la speranza di un sezionamento rigoroso delle diverse fonti. La ricerca analitica delle fonti però progredendo sboccò in due risultati - apparentemente contraddittorî - sui quali poggiano tutti i moderni tentativi critici. Si vide che alcuni gruppi di notizie si orientano verso i frammenti in prima persona plurale, sì da costituire un nucleo unico; si osservò poi un'eguale tecnica narrativa in tutta l'opera, e che i doppioni e le narrazioni simili con varianti non si spiegano con fonti diverse, ma con riprese e precisazioni da parte dell'autore (cfr., p. es., le tre narrazioni della conversione di Paolo, IX, 1 segg.; XXII, 3-21; XXVI, 9-20; e le due narrazioni dell'Ascensione).
Insieme con la ricerca delle fonti, la critica si travagliava in due altri problemi che ancora non hanno avuto una soddisfacente soluzione: quello della dipendenza o no degli Atti dalle storie di Flavio Giuseppe (Krenkel), e quello dei rapporti fra Atti ed epistolario paolino, rapporti affermati dagli uni, negati dagli altri. Nel primo decennio di questo secolo, si tentò, facendo valere in parte quello che noi abbiamo designato come secondo risultato della critica e in parte il disorientamento prodotto dal pullulare d'ipotesi diverse, il ristabilimento della tradizione. Un filologo, il Blass, cercò di dare una portata storica a una divergenza già nota fra le diverse tradizioni manoscritte delle opere lucane: la lezione impropriamente detta occidentale, rappresentata soprattutto dal codice D (Codex Bezae), e la lezione dei grandi codici unciali (v. bibbia). Il Blass sostenne che le diverse influenze costituivano due vere e proprie redazioni distinte: a quella dei grandi codici diede il nome di redazione α, alla cosiddetta occidentale quello di redazione β. Ora, poiché talune varianti della redazione β modificano profondamente il senso (cfr., p. es., quella del decreto apostolico: XV, 20) e talune altre offrono, o paiono offrire, elementi di concretezza, e una reca persino una frase in prima persona plurale (XI, 28), il Blass ritenne di poter affermare che entrambe le redazioni derivavano da Luca, il quale, scritto il suo libro alla fine della prigionia biennale di Paolo in Roma, ne avrebbe fatto fare una copia accurata per Teofilo e gliel'avrebbe inviata ad Antiochia (redazione α) e avrebbe concesso la minuta ai fedeli di Roma, che ne avrebbero preso copia (redazione β). Molti critici conservatori aderirono alla tesi del Blass. Altri invece non vollero far dipendere la conferma della tradizione sugli Atti dall'ipotesi della duplice redazione. A. Harnack, e con lui molti protestanti conservatori, aderì alla tesi dei cattolici insistendo sull'impossibilità di scindere i passi in prima persona plurale dal rimanente dell'opera; fece un minuto censimento del lessico per documentare che in tutte le sue parti esso è completamente lucano e unitario, e che in esso abbondano i termini medici, che ci riconducono al "caro medico" di cui parla Paolo. Anche per il Harnack, la seconda opera di Luca a Teofilo sarebbe anteriore al martirio di Paolo, e sarebbe stata scritta in Roma.
Contro la tesi tradizionale s'è affermato in questi ultimi due decennî un altro indirizzo storico. Si è riesaminata la questione delle due redazioni, e si è osservato che la cosiddetta redazione β è ben lungi dal costituire una vera e propria redazione, e che, a parte qualcuna, il più delle sue lezioni, inclusa quella in prima persona plurale, han l'aspetto di chiose e d'amplificazioni tardive calate nel testo. All'affermazione del Harnack si è contrapposta l'unità stilistica del terzo Vangelo, di cui pure una fonte sarebbe Marco, argomentandone come nell'assimilazione delle fonti l'autore dia ad esse una sua propria patina: si è anche osservato che l'uso frequentissimo di termini nautici nei frammenti in prima persona plurale mostra una tendenza al concreto che manca negli altri passi, e si è posta in dubbio l'esistenza d'un vero linguaggio medico nei due logoi. Per contro si sono riprese molte delle critiche della scuola tubinghiana, specialmente le osservazioni dell'Overbeck sugli Atti come opera apologetica di presunto riferimento alla situazione del cristianesimo nell'età di Nerva e di Traiano. La più attiva partecipazione di filologi classicisti ha allargato anche più il campo. Lo Schwartz poi ha supposto che in origine il convegno di Gerusalemme dovesse cadere dopo i fatti narrati nel c. XI, e ha sostenuto che nel c. XII insieme con quella di Giacomo figlio di Zebedeo doveva essere narrata la morte di suo fratello Giovanni. La scoperta di un'iscrizione di Delfi col nome del proconsole Gallione, da parte del Bourguet, ha fornito un elemento per la cronologia dell'attività di Paolo in Corinto. Il Wendland ha determinato i temi e i luoghi comuni del genere letterario a cui appartenevano gli Atti. Per questa stessa via il Norden ha determinato i luoghi comuni della propaganda religiosa ellenistica, da cui dipenderebbe il discorso dell'Areopago, ha indicato una serie di paralleli in opere dell'antichità, in cui passi in prima persona affiorano in scritti e relazioni più ampie in terza persona, e ha sostenuto che il prologo degli Atti, nella sua forma abrupta, attesta che un documento più antico, le memorie di Luca, che venano di sé tutto il libro, è stato mutilato e deformato da un posteriore redattore.
Sia seguendo la tesi del Norden (che i prologhi delle due opere risalgono agli scritti originali del compagno di Paolo), sia continuando ad attribuirli all'ultimo redattore, altri vogliono interpretare gli Atti come un'opera tendenziosa della fine del sec. I o del principio del II, la quale proietterebbe nel passato la situazione dell'età dell'autore, e sarebbe intesa a glorificare agiograficamente la storia cristiana con abbellimenti e prodigi, a stilizzarla in imperturbata armonia, a dimostrare ad ogni costo che il cristianesimo è consono alle leggi dell'impero, che il cristianesimo non è altro che l'ultimo e legittimo sviluppo del giudaismo, che tale fu sempre riconosciuto da tutte le autorità dell'impero con cui venne a contatto; che i disordini da cui fu accompagnato il suo sviluppo si debbono alla perfida opposizione dei giudei. E per raggiungere questa tesi essa spezza, e in gran parte distrugge, una fonte più antica, di cui affiorano solo pochi frammenti, dovuta a un compagno di missione di Paolo (Loisy, Omodeo, in parte Goguel). Fra questa tesi, e quella conservatrice del Harnack, ripresa in parte da E. Meyer e dal Jacquier, oscilla in questo periodo la critica degli Atti, strettamente collegata del resto, data la connessione da tutti riconosciuta tra i due libri, con la critica del Vangelo di Luca (v.).
Bibl.: F. C. Baur, Paulus, der Apostel Jesu Christi, 1ª ed., Stoccarda 1845; 2ª ed., Lipsia 1866-67; A. Schwegler, Das nachap. Zeitalter, Stoccarda 1846; E. Zeller, Die Apostelgesch. nach ihrem Inhalt und Ursprung kritisch untersucht, Stoccarda 1854; F. Overbeck, Kurze Erklärung der A. G., Lipsia 1870 (4ª ed. del Comm. del Dewette); B. Weiss, Einleit. in d. N. T., 3ª ed., Berlino 1897; H. J. Holtzmann, Einleit, in d. N. T., 3ª ed., Friburgo 1892; id., Die A. G., in Hand-Commentar z. N. T., 3ª ed., Tubinga 1901; M. Sorof, Die Entstehung der A. G., Berlino 1890; Fr. Spitta, Die A. G., Halle 1890; J. Weiss, Über die Absicht und lit. Charakter der A. G.,Gottinga 1897; M. Krenkel, Josephus und Lukas, 1894; F. Blass, Über die Verschiedene Textformen in den Schriften des Lucas, in N. kirch. Zeitschrift, 1895; C. Clemen, Die A. G., Giessen 1904; A. Harnack, Lukas der Artzt, der Verfasser des dritten Evan. und der A. G., Lipsia 1906; Die A. G., Lipsia 1908; Neue Untersuch z. A. G., Lipsia 1911; P. Wendland, Die urchristl. Litteraturformen, in Handbuch z. N. T. del Lietzmann, Tubinga 1907; E. Preuschen, Die A. G. (nello stesso Handbuch); E. Norden, Agnostos Theos, Lipsia 1913; H. Wendt, Die A. G., Gottinga 1913; 9ª ed. nel Comm. del Meyer; J. Wellhausen, Krit. Analyse der A. G., in Abhandlungen dell'Accademia di Gottinga, 1914; T. Zahn, Die A. G., Lipsia 1919; A. Loisy, Les Actes des Apôtres (ed. maior, Parigi 1920; ed. minor, Parigi 1925); A. Omodeo, Prolegomeni alla Storia dell'età apostolica, Messina 1920-21, pp. 1-118); M. Goguel, Introd. au N. T., III, Le livre des Actes, Parigi 1922; E. Meyer, Ursprung und Anfänge des Christentums, III, Stoccarda 1923, p. 3 segg.; E. Jacquier, Les Actes des Apôtres, Parigi 1926; K. Lake e F. J. Foakes Jackson, The beginnings of Christianity, I, The Acts of the Apostles, Londra e New York 1925 segg., voll. 3 (I, Prolegomeni; II, Saggi critici di varî; III, Testo critico, a cura di J. H. Ropes). Per indicazioni bibliografiche più ampie, v. le opere del Loisy, del Goguel e dello Jacquier; v. anche bibbia.