ATTENDOLO, Muzio (Giacomuccio), detto Sforza
Nato a Cotignola presso Lugo di Romagna il 28 maggio 1369, da Giovanni, apparteneva a una famiglia di campagnoli relativamente agiati, che contendevano il dominio della terra ai nobili Pasolini. La madre, Elisa de' Petrascini, donna enegica, veniva da una famiglia avvezza alle continue contese di parte. Era poi frequente fra gli Attendolo la vocazione al mestiere del soldato, e ben quindici della casata divennero uomini di guerra. A tredici anni, portato via un cavallo dalla stalla patema, si mise come "ragazzo" al seguito di un uomo d'arme spoletino, detto lo Scorruccio, e con lui fu per quattro anni nelle schiere di Boldrino da Panicale, capitano generale delle genti del papa. Nel 1388 era a Cotignola in difesa dei suoi, aggrediti dal Pasolini: due degli Attendolo vennero uccisi ed egli stesso rimaneva ferito, ma la vittoria rimase agli Attendolo, e i Pasolini lasciarono la terra. L'A. riprendeva il mestiere delle armi con altre sette persone della sua casata; seguiva, dapprima come capo squadra, poi come comandante d'una compagnia di 75 cavalli, Alberico da Barbiano, quindi Francesco Broglia. Nel 1398 passava col cugino Lorenzo al servizio di Perugia, minacciata da Gian Galeazzo Visconti, e quando la città cadde in potere del duca di Milano, si mise ai suoi stipendi. Ma disgustato della gelosia di vari conunilitoni, lasciò il Visconti per i suoi accaniti avversari, i Fiorentini. Costoro lo mandarono a rinforzare prima Francesco da Carrara a Padova, poi il re dei Romani Roberto, che da Trento stava per calare nel Bresciano contro i Visconti, e venne sconfitto il 21 ott. 1401; fu poi inviato al soccorso di Giovanni I Bentivoglio, signore di Bologna. Nella grave rotta che i Viscontei, grandemente superiori di forze, inflissero. alle soldatesche fiorentine, l'A. venne fatto prigioniero, ma riuscì subito a liberarsi, portando in salvo a Firenze i resti delle schiere disfatte. Morto Gian Galeazzo Visconti, egli, sempre al servizio di Firenze, si distingueva nella guerra per l'assoggettamento di Pisa, al comando ormai d'una compagnia di 180 lance. Il 3 dic. 1405 batteva Agnolo della Pergola, che moveva al soccorso della città, e tre settimane dopo respingeva pure Guasparri de' Pazzi; il 27 febbr. 1406 sbaragliava cavalieri e fanti pisani andati a liberare il castello di Crispino. Una lite col condottiero napoletano Tartaglia, che finì col dividere addirittura in due fazioni resercito fiorentino, poté essere pacificata e Pisa divenne parte dello Stato di Firenze. In seguito l'A. fu al servizio di Niccoló III d'Este contro Ottobuono Terzi signore di Parma e Reggio; dopo avere combattuto quest'ultimo con altema fortuna, in un convegno combinato dal marchese a ~ubiera lo uccise a tradimento il 29 maggio 1409, sotto pretesto di vendicare i maltrattamenti usati al suo congiunto Micheletto: l'Estense ricuperò Parma e Reggio e in compenso diede allo Sforza il castello di Montecchio nel Reggiano. L'A. tornò quindi al servizio dei Fiorentini, minacciati dal re di Napoli Ladislao.
Attraverso Firenze l'A. si trovava legato alla causa. dell'antipapa Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa di Napoli) e degli Angiò; e quindi, al servizio di Luigi II d'Angiò, che moveva alla conquista del Napoletano, si trovò di nuovo contro Ladislao; ebbe parte notevole alla vittoria di Roccasecca, il 19 maggio 1411. Poco dopo Giovanni XXIII lo faceva signore di Cotignola, col titolo di conte. Ma, esattamente un anno dopo, l'A. passava al servizio di Ladislao e contribuiva a risollevarne la fortuna; l'antipapa, sdegnato, faceva dipingere il condotticro presso tutti i ponti e alle porte di Roma, sospeso per il piede destro alla forca, come i traditori, con una zappa in una mano e nell'altra una scritta: "Io sono Sforza vilano de la Cotignola traditore che XII tradimenti ho facti alla Chiesa contro lo mio honore". Fu il momento in cui veramente l'A. legò la sua esistenza a quella del Regno di Napoli, e in cui s'iniziò la sua grande e pur tanto varia fortuna. Alla fine del 1412 l'A. aveva una condotta di ben 830 lance: il re lo adoperava soprattutto contro Braccio da Montone. Morto improvvisamente Ladislao a trentasette anni, il 6 ag. 1414, l'A. dall'Umbria giunse a Napoli, ma il favorito di Giovanna II, Pandolfello Piscopo detto Alopo, elevato di colpo alla carica di gran siniscalco, lo fece arrestare e imprigionare. Poco dopo però la regina si fidanzava con Giacomo di Borbone conte de la Marche, per avere nel principe consorte un sostegno. L'Alopo liberò quindi l'A. stringendosi a lui e gli diede in moglie la sorella Caterina. Ma una cospirazione di grandi, in occasione dell'arrivo a Manfredonia del nuovo sposo della regina, lo invitò a proclamarsi re: l'Alopo e l'A. erano imprigionati e la regina tenuta in relegazione. Il 10 ott. 1415 l'Alopo fu giustiziato e il condottiero romagnolo, sottoposto a tortura, ebbe salva la vita grazie all'energia della sorella Margherita, che mantenne compatte le schiere del fratello e prese in ostaggio quattro nobili napoletani. Le durezze del nuovo re però, e le prepotenze dei Francesi venuti al suo seguito, determinarono una rivolta che liberò la regina e l'A.: il re Giacomo fu incarcerato in Castel dell'Uovo; l'A. fu creato gran connestabile e per qualche mese sembrò essere l'arbitro del Regno.
Nel 1417 l'A. mosse contro Roma, occupata da Braccio da Montone, e il 27 agosto penetrava con abile manovra nella città eterna. Ma il nuovo papa Martino V ottenne che i Napoletani abbandonassero Roma: l'A. tornò allora a Napoli. Nel frattempo però la regina era caduta sotto l'influenza di Gianni Caracciolo, creato gran siniscalco, estremamente geloso di lui: l'A. si ritirò ad Aversa, e di qui favoni una nuova rivolta contro Giovanna II, costringendola, nel gennaio 1419, ad accordarsi col condottiero e ad allontanare il Caracciolo. Dopo di che, dietro preghiera del papa e col consenso della regina, l'A. tornò nel Lazio per combattere contro Braccio da Montone, ma con poca fortuna. Il papa finì coll'accordarsi con Braccio e, in urto ora con la regina Giovanna II, fu lieto che l'A. passasse al servizio di Luigi III d'Angiò, che, successo al padre in Provenza, rivendicava i suoi diritti su Napoli. L'A., come gran connestabile del re penetrò.nel Regno occupando nell'agosto 1420 Aversa. La sovrana proclamò allora figlio adottivo ed erede Alfonso d'Aragona, che tentava l'impresa della Corsica contro i Genovesi. Alfonso a sua volta nominò Braccio da Montone gran connestabile del Regno nonché governatore degli Abruzzi. La guerra si trascinava però in lunghi assedi e rari scontri finché Braccio ottenne che l'A. si rappacificasse con Giovanna II e con Alfonso d'Aragona, nonché col Caracciolo. L'A. passò allora al servizio dei Fiorentini. Ma presto sorsero nuovi screzi fra la regina col Caracciolo da un lato e il re dall'altro, cui contribuiva il contegno arrogante dei soldati aragonesi. L'A. rimase con la regina. 11-22 maggio 1423 Alfonso fece arrestare il gran siniscalco e tentò un colpo di mano contro la Regína, chiusa in Castel Capuano; accorse l'A. dalla Campania e, riuscito a penetrare in Napoli, fece molti prigionieri obbligando il re a rifugiarsi in Castel Nuovo. Ma l'11 giugno arrivarono per mare rinforzi aragonesi, e l'A. fu costretto a riparare ad Aversa colla regina: essa ottenne, in cambio di venti cavalieri aragonesi fatti prigionieri, la liberazione del Caracciolo: ora adottava Luigi III d'Angiò. Il re d'Aragona aveva intanto richiamato Braccio, ma il condottiero umbro s'era fermato all'assedio dell'Aquila, che non voleva più sapeme del suo governatorato; inoltre, nell'ottobre 1423, era scoppiata la guerra tra l'Aragona e la Castiglia, e allora Alfonso, lasciato il figlio Pietro con scarse forze a Napoli, abbandonò l'Italia per alcuni anni. Il desiderio della regina era quello di liberare il Regno dai resti del partito aragonese, e ordinò all'A. di soccorrere l'Aquila. Il valoroso condottiero si metteva in marcia col figlio Francesco, di pieno inverno; e il 4 genn. 1424 giungeva presso Pescara, allo sbocco del fiume omonimo nel mare. La città era occupata dai bracceschi, che avevano pure rafforzato con palizzate le rive del fiume, dietro alle quali erano appostati dei balestrieri. L'A. volle girare l'ostacolo, avanzando lungo la spiaggia, fra la città e il mare, proprio alla foce. Il mare era burrascoso e le sue onde agitavano le acque dei fiume e rendevano difficile il procedere. Pure egli avanzò, completamente armato, in testa a tutti; e 400 uomini d'arme lo seguirono e raggiunsero l'altra riva, mentre i nemici accorsi retrocedevano. Ma il vento si faceva sempre più impetuoso e il mare più tempestoso: il resto dei cavalieri non osava venire avanti. Allora l'A. volle ripassare la corrente per mettersi alla testa dei soldati esitanti. Circa a metà del percorso, vide che il paggio che lo seguiva portando il suo elmo stava per esser travolto dalla corrente. Si volse piegandosi per afferrarlo, ma il cavallo più non si sostenne sui piedi posteriori, l'A. cadde di sella e sparì fra le acque, serrato nella pesante armatura. Così finiva il famoso condottiero, a cinquantaquattro anni. Il figlio Francesco, sebbene giovanissimo, assumeva il comando delle sue schiere, e insieme con Giacomo Caldora vendicava il padre nella battaglia dell'Aquila, il 25 maggio 1424, nella quale Braccio era gravemente sconfitto e moriva tre giorni dopo in seguito alle gravi ferite.
L'A. fu certamente uno dei migliori condotticri italiani, e legò il suo nome a una delle due grandi scuole in cui si divise la milizia italiana nel secolo XV; egli sarebbe stato maestro d'una condotta di guerra lenta e studiata, contrapposta a quella rapida e portata alla ricerca dell'azione decisiva di Braccio da Montone. In realtà entrambe le scuole seguivano la prassi dei tempo, in cui trionfava la guerra di logorio; ma negli uni la manovra valeva in maggior misura a minacciare gli avversari, ed era meno portata a cedere il posto al combattimento e alla battaglia. Fin dove l'A. dovesse il suo modo di guerreggiare all'insegnamento d'Alberico da Barbiano, è difficile dire; ma non pare che gli dovesse molto. Certo egli ci appare ben presto capace di far fronte e rimediare a situazioni assai difficili, come nella battaglia di Brescia e dopo quella di Casalecchio, e anche nella prima fase della battaglia di Roccasecca, e abile manovratore, e desideroso di sfruttare il successo. Dové poi esercitare sui suoi soldati un particolare fascino pur cercando di frenare crudeltà e saccheggi. Come politico appare certamente inferiore, spesso strumento delle ambizioni dei pretendenti al regno e dei favoriti di corte. Ma se subì a volte dei tracolli precipitosi, colla prigione e lo spettro del patibolo, seppe con bella tenacia risollevarsi. Mostrò poi abilità nel consolidare, attraverso buoni matrimoni suoi e dei suoì parenti, le basi di quella fortuna che s'era creata colle armi. Dalla prima moglie, Antonia de' Salimbeni, vedova del signore di Cortona, ebbe Chiusi e quattro castelli; dalla seconda mogiue, Caterina Alopa, cinque castelli in Basílicata; dalla terza, Maria Martiana, figlia dei duca di Sessa, vedova a sua volta di Lodovico II d'Angiò e del conte di Celano, molti castelli in Terra di Lavoro e negli Abruzzi. Da un'amante, la bella Lucia di Torsciano nell'Umbria, ebbe il più illustre dei suoi figlioli, il grande Francesco, salito al trono ducale di Milano.
Fonti e Bibl.: A. Minuti, Vita di Muzio Attendolo Sforza, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Misc. di storia ital., VII, Torino 1869; ma vedi anche S. Fermi, Un ignoto biografo piacentino di M. A. Sforza: A. de' Minuti, in Bollett. star. Piacentino, XXXIX(1944), pp. 3-18; E. Ricotti, Storia delle Compagnie di ventura, II, Torino 1844; N. F. Faraglia, Storia della Regina Giovanna II d'Angiò, Lanciano 1904; A. Cutolo, Re Ladislao d'Angiò-Durazzo, I e II, Milano 1936; E. Pontieri, Muzio Attendolo e Francesco Sforza nei conflitti dinastico-civili nel Regno di Napolí, in Divagazioni storiche e storiografiche, Napoli 1960, pp. 73-199. Vedi inoltre A. Semerau, Die Condottieri, Jena 1909; L. Collison-Morley, The Story of the Sforzas, London 1933 (trad. franc., Paris, Payot, 1951). Per la battaglia di Roccasecca v. pure N. Valois, La France et le grand Schisme d'Occident, IV, Paris 1902, pp. 139-141.