Astronomia e cosmologia
Tra la fine del Quattrocento e la fine del Seicento l’astronomia vive una fase di profonda trasformazione: mutano i fondamenti teorici, le forme della pratica osservativa, il profilo disciplinare e istituzionale e lo status sociale di coloro che la praticano. Tali cambiamenti hanno una natura complessa e multiforme, che in parte coincide – e anzi è stata qualche volta assunta come paradigmatica (Kuhn 1957; Koyré 1961) – con la più generale rivoluzione scientifica, e in parte, invece, presenta tratti autonomi, diversi e forse anche divergenti da quelli delle altre scienze.
All’inizio del Quattrocento, l’astronomia è una disciplina ben radicata nel sistema della conoscenza e nei curricula universitari. Insieme ad aritmetica, geometria e musica, essa è parte del quadrivium che, a sua volta, compone con il trivium di grammatica, logica e retorica, il complesso delle discipline insegnate nelle facoltà delle Arti, propedeutiche agli studi di medicina, del diritto e della teologia. Inoltre, l’astronomia è talvolta insegnata nella facoltà di Medicina come astrologia medica, che studia le influenze celesti sul corpo umano e sceglie il momento migliore per la somministrazione di farmaci e per varie terapie. Alla base dell’insegnamento erano i testi dell’antichità classica – le opere di Euclide e Tolomeo in primo luogo, lette in traduzioni medievali del testo e, spesso, dei relativi commenti da originali arabi –, che avevano la funzione di introdurre gli studenti a questioni più complesse e di maggior interesse pratico, quali la compilazione di predizioni astrologiche come oroscopi e pronostici.
Fino alla fine del Quattrocento, l’educazione alla disciplina celeste continua a fondarsi principalmente sul corpus di testi della tradizione greco-araba, mentre l’Europa latina inizia a costruire una tradizione propria soltanto nel 13° sec., con i primi manuali di astronomia sferica e di teoria planetaria. I primi testi a diffondersi su scala europea sono quelli degli astronomi inglesi: la Theorica planetarum di Ruggero di Hereford, il trattato De sphaera di Roberto Grossatesta e, soprattutto, le opere di Giovanni Sacrobosco, l’Algorismus, il Compotus e il Tractatus de sphaera, che forniscono un insieme completo di competenze elementari nei campi della matematica, del computo del tempo e dell’astronomia sferica. Compotus e Sphaera avranno un ruolo non secondario nella storia dell’astronomia in Italia in quanto entrambe contribuiranno in modo decisivo, nei propri campi, alla trasmissione del sapere medievale e al consolidamento di problematiche di lungo periodo. Il Compotus delinea i temi della riforma del calendario, riconoscendo gli errori nel calendario giuliano e proponendo soluzioni che saranno al centro del dibattito nei tre secoli successivi. La Sphaera è il principale testo di insegnamento elementare dell’astronomia almeno fino ai primi decenni del Seicento. Innumerevoli le sue edizioni a stampa tra la fine del Quattrocento e la fine del Seicento, e celebri i commenti al testo, da quello a carattere magico-demonologico di Cecco d’Ascoli, al Commentarius di Cristoforo Clavio, sul quale si sono formate almeno due generazioni di matematici e astronomi gesuiti tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento.
In Italia i primi insegnamenti pubblici risalgono alla fine del 13° sec., mentre una cattedra stipendiata di astrologia, nei cui termini era compresa l’astronomia, è attiva a Bologna sin dal 1334. È grazie agli statuti dell’Università di Bologna del 1405 che è possibile avere un’idea piuttosto precisa di cosa significasse avvicinarsi all’astronomia. Agli studenti di primo anno della facoltà delle Arti era prescritto in primo luogo lo studio degli Elementi di Euclide, un testo che li avrebbe accompagnati per i primi tre anni di corso. Sempre al primo anno, la teoria dei pianeti si studiava attraverso le Theoricae planetarum e le tavole alfonsine, mentre al secondo anno erano previsti l’insegnamento dei canoni per l’uso delle tavole e la Sphaera di Sacrobosco, della quale circolavano già numerosi commenti. Gli ultimi due anni erano dedicati allo studio della pratica astrologica: le nozioni tecniche per l’osservazione sistematica della volta celeste e l’uso di strumenti come astrolabio e quadrante erano prescritti insieme allo pseudotolemaico Centiloquium, che doveva essere studiato con il commento del medico e astrologo ‛Ali ibn Ridwān (988-1061), lo Haly dei latini, e la Tetrabiblos (o Quadripartitum) di Claudio Tolomeo; al quarto anno, l’astrologia medica con l’approfondimento del computo del tempo. Gli statuti bolognesi presentano un programma di studio dettagliato nella scelta dei testi (e persino nell’ordine in cui devono essere letti), dai quali traspare una concezione prevalentemente pratica della conoscenza celeste: previsione delle posizioni planetarie, calcolo del tempo e astrologia medica dominano la formazione dello studente (Università degli studi di Bologna 1888).
Gli sviluppi concettuali del 16° e del 17° sec., il declino dell’astrologia come disciplina accademica, la sua separazione dalla medicina, nonché il parallelo sviluppo delle arti meccaniche, tecniche e ingegneristiche, trasformeranno il contesto disciplinare dell’astronomia. Succede, per es., a Bologna che una cattedra ad praxin mathematicae istituita nel 1557 parallelamente a quella ordinaria di astronomia/astrologia diventi successivamente, nel 1569, un insegnamento ad mathematicam che assorbe le altre due (Biagioli 1989, p. 45), e che vedrà tra i suoi occupanti una personalità ‘di confine’ come Egnazio Danti (1536-1586).
Il profilo intellettuale e l’attività poliedrica di questo domenicano originario di Perugia prefigurano per molti versi l’imporsi, in Italia come in altre parti d’Europa, delle matematiche applicate o ‘miste’ e delle pratiche sperimentali. Si tratta di quelle discipline che erano solitamente definite, sulla scorta di Aristotele, come scienze pratiche, o composte, le quali a differenza delle matematiche pure, come geometria e aritmetica, che si occupano di quantità astratte, hanno come oggetto quantità fisiche dipendenti da cause reali. In questo novero, l’astronomia si trova in compagnia, tra le altre, di musica, prospettiva, cosmografia, architettura, ingegneria, ottica e idrologia.
Come molti altri nello stesso periodo, Danti coltiva interessi sia teorici sia pratici, ed è in grado di muoversi agevolmente tra incarichi accademici e commissioni artistiche: sue sono le mappe dipinte sugli sportelli degli armadi nella Stanza del guardaroba di Palazzo Vecchio, come anche gli strumenti sulla facciata di S. Maria Novella. Anni più tardi a Roma, come cosmografo e matematico di Gregorio XIII, Danti disegnerà i cartoni per le carte geografiche affrescate sulle pareti della Galleria che ora è parte dei Musei Vaticani. Parallelamente, a Firenze, tra il 1562 e il 1571, insegna Euclide e la Sphaera ai giovani di casa Medici, e porta a termine la stampa del Trattato dell’uso et della fabbrica dell’astrolabio (1569), dedicato al cardinale Ferdinando de’ Medici, primo trattato italiano che descrive in dettaglio la costruzione e l’uso dell’astrolabio. Del 1571 è la sua edizione della Sphaera di Sacrobosco, che Danti pubblica nella traduzione volgare di suo nonno Piervincenzo Rinaldi (il cognome originario della famiglia): è la prima traduzione italiana, risalente al 1498, con annotazioni specificamente pensate per l’insegnamento.
Il trattato di Sacrobosco fu infatti il testo di base nell’insegnamento dell’astronomia ben oltre la soglia di fine secolo, e le edizioni italiane si contano a dozzine, accompagnate da commenti di orientamento diverso. Per questioni più avanzate i lettori interessati dovevano però rivolgersi altrove. I moti dei pianeti erano trattati nei testi appartenenti alla tradizione delle theoricae, termine medievale con il quale venivano identificati i modelli geometrici utilizzati per rappresentare, attraverso la combinazione di figure circolari, i movimenti celesti. Le prime Theoricae planetarum risalgono al 12° sec. – il primo testo conosciuto con questo titolo è di Ruggero di Hereford –, ma il genere si consolida nel secolo successivo con la Theorica planetarum da alcuni attribuita a Gherardo da Cremona (1114-1187), che comprende una serie di brevi capitoli, corredati da figure esplicative, sulla teoria del Sole, della Luna, sui moti retrogradi, sui moti dei tre pianeti superiori (in un unico capitolo) e su quelli di Mercurio e Venere. Un’ultima sezione di testo è dedicata alle eclissi e alla precessione degli equinozi. Per tre secoli, le Theoricae rappresentano il principale strumento di penetrazione della teoria planetaria di Tolomeo nell’Europa latina e continueranno a essere utilizzate come testo di insegnamento per tutto il Cinquecento, benché in versioni tecnicamente più avanzate. Dalla fine del Quattrocento, le Novae theoricae planetarum (pubblicato postumo nel 1472) di Georg Peurbach (1423-1461) sostituiscono quelle veteres di Gherardo, pur mantenendone l’impianto.
In Italia, le Novae theoricae si diffondono parallelamente alla Sphaera di Sacrobosco con edizioni, traduzioni e commenti. Una prima edizione esce a Firenze presso i Giunti nel 1531 in volume unico con la Sphaera, la Theorica di Gherardo e altri testi canonici per l’insegnamento. Altre edizioni, in tutto una decina, vengono pubblicate prima della fine del Cinquecento, mentre la prima traduzione in volgare è quella del 1566, commentata da Orazio Toscanella.
Euclide, Tolomeo, Sacrobosco e le Theoricae formano un canone di testi il cui insegnamento sarà prescritto a lungo, ben oltre l’emergere dei nuovi paradigmi teorici a partire dalla fine del Cinquecento. Nel 1599 la Ratio studiorum dei gesuiti prescrive ancora che il professore di matematica «deve spiegare agli studenti di fisica, per circa tre quarti d’ora, gli elementi di Euclide. Dopo che vi si siano dedicati abbastanza ampiamente per due mesi, deve aggiungere cenni di geografia e sulla sfera celeste» – ossia Sacrobosco –, mentre, per quanto riguarda la classe di filosofia, «i testi del secondo, terzo, quarto Libro del De coelo devono essere condensati sommariamente, anzi per la maggior parte tralasciati» (Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, pp. 46, 50).
Ma a questo impianto i gesuiti affiancavano anche ricerche più avanzate, fondate sia sulla pratica osservativa sia sulla riflessione teorica.
Nella seconda metà del Cinquecento e fino al primo Seicento, il protagonista dell’astronomia dei gesuiti fu padre Cristoforo Clavio, un tedesco che si stabilì a Roma dove insegnò le matematiche dal 1563 fino alla morte. Nei cinquant’anni che videro la riforma del calendario (1582), l’apparizione di importanti novità celesti, e l’affacciarsi sulla scena di Galilei, Clavio lavorò instancabilmente ai suoi manuali, tra i quali spiccano l’edizione commentata degli Elementi di Euclide (1574), delle Sferiche di Teodosio (1586) e, soprattutto, della Sphaera di Sacrobosco, che vide, vivente Clavio, ben ventuno edizioni e non meno di cinque aggiornamenti (1581, 1585, 1593, 1606, e 1612) che testimoniano l’evolversi del dibattito astronomico e il processo di adeguamento da parte dell’autore sui temi più urgenti e scottanti, come la riforma del calendario, l’apparizione delle novae del 1572 e del 1604, la teoria della precessione, il modello copernicano e, infine, nell’edizione apparsa postuma nel 1612, le scoperte telescopiche. La Sphaera di Clavio difende strenuamente il paradigma cosmologico di Tolomeo e, allo stesso tempo, ne rappresenta il canto del cigno. Dopo la sua morte, alcuni astronomi gesuiti abbandonarono il geocentrismo per abbracciare, a partire dalla Sphaera mundi di Giuseppe Biancani (1566 ca.-1624), pubblicata nel 1620 e pensata per sostituire il commento di Clavio, il sistema geoeliocentrico di Tycho Brahe (1546-1601).
L’insegnamento universitario apre un angolo visuale importante sulle conoscenze astronomiche di base, sui canoni testuali e sui modelli pedagogici utilizzati tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Tuttavia, si tratta soltanto di una parte, per quanto rilevante, delle attività associate allo studio e alla pratica della scienza celeste. Intendendo – forse un po’ anacronisticamente – l’astronomia come una ‘specializzazione’ accademica e professionale, è possibile osservare che intorno alla disciplina si raccoglie una comunità di ricercatori e praticanti che si riconosce attraverso testi canonici (oltre quelli per l’insegnamento), problemi da risolvere, tecniche e valori. In questo modo è possibile individuare i tratti caratteristici di quella che si può chiamare la ‘professione’ dell’astronomo rinascimentale o premoderno.
È altresì interessante notare le variazioni di tali tratti, in funzione sia del tempo – testi che vengono sostituiti, problemi risolti o abbandonati, l’emergere di nuove questioni –, sia dello spazio, vale a dire l’esistenza di comunità ‘locali’ di astronomi legati da vincoli ambientali o intellettuali. La questione è di grande rilievo per comprendere quella che è stata qualche volta recepita come l’arretratezza dell’astronomia italiana prima di Galilei. Infatti, mentre nell’Europa continentale, e soprattutto in quella riformata, l’astronomia gettava le basi per la ‘rivoluzione’ del secolo successivo – si pensi all’eliocentrismo copernicano, alle tecniche osservative di Brahe e al dibattito cosmologico tra lo stesso Brahe e Christoph Rothmann –, l’astronomia in Italia sconta un duplice giudizio negativo, vale a dire «l’assenza di sviluppi di particolare finezza tecnica o novità concettuale» e «l’essere rimasta estranea all’esigenza di precisione e sistematicità nelle osservazioni» (Baldini 1991, p. 39). Questo giudizio può essere soggetto a qualche correzione: la ricerca astronomica italiana risponde a domande concettuali e pressioni politiche e sociali diverse da quelle operanti altrove. Così, mentre gli astronomi tedeschi del Cinquecento consideravano prioritario un nuovo catalogo stellare, per il quale sono necessari programmi osservativi sistematici, precisione nelle osservazioni e negli strumenti, gli italiani sono chiamati a compiti diversi e, in particolare, a livello di ‘sistema’, alla riforma del calendario giuliano, una questione aperta già da secoli e che solamente nel Cinquecento trovò un terreno adatto alla soluzione.
La bolla Inter gravissimas, con la quale nel 1582 papa Gregorio XIII promulga la riforma del calendario giuliano a partire dall’ottobre successivo, non è che l’ultimo atto di un processo secolare. Alla fine del Quattrocento, quando iniziano i primi tentativi da parte della Chiesa, la questione è già ben chiara: la durata dell’anno giuliano – ossia quello utilizzato come base per il calendario in vigore dal 46 a.C. – è errata, essendo più lunga di 11 minuti e 14 secondi dell’anno tropico, vale a dire del tempo che il Sole impiega per completare un’orbita della sua eclittica. Dopo sedici secoli, l’anno giuliano portava un errore di circa dieci giorni, così che l’equinozio di primavera ‘vero’ cadeva l’11 marzo, piuttosto che il 21, come prescritto sin dai tempi del Concilio di Nicea (325). Anche per quanto riguarda i moti lunari il calendario giuliano errava di diversi giorni (Maiello 1994, p. 33). Ora, poiché il giorno della celebrazione della Pasqua e le altre feste mobili dipendono dal calcolo dell’anno tropico e dalle fasi lunari, è chiaro che un errore nel calcolo della durata dell’anno, benché piccolo, se protratto per secoli, produce effetti sempre più evidenti.
Sin dal Quattrocento lo strumento adottato dai papi per tentare di risolvere la questione fu quello della ‘commissione’ appositamente istituita per decreto conciliare. Così si fece ai concili di Costanza (1414-18) e a quello di Basilea, Ferrara e Firenze (1431-45), ma l’esito non fu positivo, nonostante interventi qualificati sul piano filosofico e politico, come la proposta avanzata dal cardinale Niccolò Cusano nel De reparatione calendarii (1436). Con un nulla di fatto si conclusero anche i tentativi compiuti dal V Concilio Lateranense (1512-17) e dal Concilio di Trento (1545-63), nonostante i tentativi da parte delle commissioni di trovare una convergenza. Nel 1514 il concilio si rivolse alle massime autorità politiche – l’imperatore Massimiliano I, e tutti i sovrani della cristianità – con la richiesta di un invio di pareri da parte dei loro teologi e astronomi, e con un invito a Roma per la discussione finale. Le risposte arrivate delinearono alcune possibili soluzioni costruendo la base di una discussione che si protrarrà per la maggior parte del secolo. In primo luogo fu proposto di trasformare la Pasqua da festa mobile a fissa, come per la Natività, scegliendo una data (non specificata) alla fine del mese di marzo. Questa soluzione avrebbe avuto il vantaggio di non dover riformare il calendario per riportarlo in pari con i moti ‘veri’ del Sole e della Luna, ma avrebbe comportato la revisione radicale della decisione presa dal Concilio di Nicea.
Tra coloro che sostenevano una riforma delle convenzioni su cui si basava il computo del giorno in cui celebrare la Pasqua vi fu anche il principale astronomo del tempo, Paolo di Middelburg (1446-1534), un tedesco stabilitosi in Italia e molto attivo tra Padova, Bologna e la corte di Urbino, prima di diventare vescovo di Fossombrone. Il suo impegno sul calendario è raccolto in una voluminosa opera dal titolo Paulina, de recta Paschae celebratione (1513), che diede l’impulso decisivo all’istituzione della commissione lateranense e nella quale è sostenuta la tesi che si sarebbe dovuto adattare il calendario, spostando la data convenzionale dell’equinozio di dieci giorni, e recuperare lo sfasamento dei calcoli giuliani eliminando un giorno ogni 134 anni. La proposta contenuta nella Paulina mira a modificare il meno possibile il calendario giuliano in modo tale che la riforma possa essere adottata in tempi brevi e con un ampio accordo politico favorito dalla semplicità della soluzione. Tuttavia, la proposta di Paolo non raccolse il consenso necessario, in quanto la maggioranza delle risposte ricevute a Roma erano di segno diverso. Gli astronomi interpellati, infatti, riconoscevano che qualsiasi correzione dovesse in primo luogo avvalersi di calcoli più precisi di quelli allora noti sulla lunghezza dell’anno tropico e la periodicità dei moti lunari. Infine, gli atti della commissione furono raccolti in un Compendium correctionis calendarii che raccoglieva le diverse opinioni, ma senza che ci fosse un accordo su quale adottare.
Pur trattandosi di un altro tentativo fallito, le proposte avanzate durante il V Concilio Lateranense non andarono del tutto perdute, e la Paulina diventò un testo fondamentale per la questione. Nei decenni successivi il dibattito si intensificò soprattutto in Italia. Paolo III Farnese (1533-1549), appena eletto, richiamò a Roma Paolo di Middelburg, il quale però morì prima di poter rimettere mano alla riforma. Successivamente lo stesso papa convocò un astrologo attivo a Ferrara, Gaspare Insoni, di cui però non si conosce l’attività, mentre di Luca Gaurico, suo medico personale, rimangono tre opuscoli sul calendario che rivedono criticamente la Paulina. Inoltre, è significativo notare che anche altre opere di astronomia dedicate a Paolo III, pur non riguardando direttamente il calendario, cercano di accreditarsi presso il pontefice sottolineando la loro utilità per la questione: è questo il caso di due dei testi fondamentali per l’astronomia del Cinquecento, gli Homocentrica di Girolamo Fracastoro e il De revolutionibus orbium coelestium di Nicola Copernico. Pubblicati rispettivamente nel 1538 e nel 1543, sono entrambi dedicati a Paolo III ed entrambi, nelle lettere di introduzione, utilizzano la questione del calendario per conquistare la benevolenza del pontefice. Fracastoro paragona Paolo III a Giulio Cesare – un modello variamente utilizzato dagli stessi pontefici rinascimentali – e, adulandolo con una sottile allusione ai vantaggi offerti dalla sua opera, lo esorta a «riformare l’anno, ristabilire il moto solare secondo i veri equinozi e a correggere gli errori nei cicli lunari» (Homocentrica, 1584, f. 2v). Ancora più esplicito è Copernico che riconduce l’origine della sua opera agli anni del V Concilio Lateranense e a un invito personale di Paolo di Middelburg a occuparsi del calendario. Come Fracastoro, Copernico giustifica la dedica al pontefice con l’utilità – più presunta che reale – della sua opera ai fini della riforma del calendario. I modelli eliocentrici del De revolutionibus consentirebbero maggiore precisione nella misurazione dei moti solari e lunari, che sono la premessa necessaria per la riforma del calendario. Questa posizione, diversa da quella di Paolo di Middelburg, raccoglie la maggior parte dei consensi verso la metà del Cinquecento, e non soltanto tra gli astronomi.
È significativo notare che il primo oppositore italiano di Copernico, il teologo domenicano Giovanni Maria Tolosani, autore nel 1546 dell’opuscolo De coelo supremo immobili et terra infima stabili, intervenne negli stessi anni sulla questione del calendario pubblicando un Opusculum de emendationibus temporum (1537, dedicato al cardinale Schönberg, a sua volta fautore dell’opera copernicana). Pur sostenendo un’ipotesi simile a quella di Paolo di Middelburg, Tolosani riconosce, con Copernico, come non sia possibile correggere il calendario romano e stabilire correttamente la Pasqua senza conoscere la vera lunghezza dell’anno (Granada, Tessicini 2005).
Intorno alla metà del secolo, e poi sempre più nei decenni successivi, la questione del calendario divenne rilevante anche ai fini del confronto con il protestantesimo. Nel momento in cui l’autorità politica e morale della Chiesa romana era messa in questione da istanze riformatrici esterne e interne, l’inabilità di celebrare nel momento corretto la Pasqua, l’evento principale della religione cristiana, era percepita come un vulnus alla legittimità del potere papale. Il Concilio di Trento, apertosi nel 1545, riconobbe la necessità di risolvere la questione, ma invece di istituire una nuova commissione, decretò che la riforma fosse demandata alla sovranità papale. Bisognò aspettare ancora un trentennio prima che, concluso il concilio, Gregorio XIII (1572-1585) creasse una nuova commissione composta di otto membri, tra i quali il cardinale Guglielmo Sirleto, presidente della commissione, e il patriarca di Antiochia, Ignazio Nehemet, esperto di cronologia ecclesiastica, oltre ai già citati Danti e Clavio. Nella commissione era anche un medico calabrese, Antonio Lilio, lettore all’Università di Perugia e, sembra, protetto dal Sirleto, che rappresentava la proposta elaborata dal fratello Luigi, deceduto nel 1576.
Inizialmente la commissione esaminò le proposte ritenute più significative, la maggior parte delle quali italiane e pubblicate negli anni immediatamente precedenti, come il Compendium super annua solaris, atque lunaris anni quantitate (1564) del veronese Pietro Pitati e l’Opera sopra la riforma dell’anno (1576) del matematico Giovanni Padovani, oltre che la proposta del già citato Tolosani. Nel 1578 la commissione, con il parere decisivo di Clavio e del cardinale Sirleto, decise di sostenere il progetto di riforma di Luigi Lilio che fu riscritto in compendio (Compendium nouae rationis restituendi kalendarium, 1577) e inviato per consultazione ai principi cristiani.
Il Compendium, fatto circolare dal 1577 in poi, contiene una proposta di riforma fondata in primo luogo su una misura media dell’anno tropico, originariamente avanzata da Pietro Pitati e coincidente fino alla seconda cifra decimale con i calcoli più avanzati. L’anno era quindi determinato in 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 12 secondi. Come nel calendario giuliano, gli anni avrebbero avuto 365 giorni tranne un anno bisestile ogni quattro. Il giorno in più sarebbe stato aggiunto al mese di febbraio, continuando nell’uso romano. Seguendo un principio nozionale piuttosto che il dato astronomico, l’equinozio sarebbe rimasto al 21 marzo, con la conseguenza che sarebbe stato necessario trovare un modo per riportare indietro la data di dieci giorni, oltre che di aggiustamenti periodici. Nella versione definitiva della riforma, promulgata nella bolla Inter gravissimas del 24 febbraio 1582, si scelse di correggere lo sfasamento del calendario giuliano con l’omissione di 10 giorni dell’anno in corso: al 5 ottobre sarebbe seguito il 14, così che l’equinozio dell’anno successivo sarebbe nuovamente caduto il 21 marzo. In seguito, al fine di mantenere la corrispondenza tra anno civile e astronomico, il nuovo calendario avrebbe ammesso un’eccezione alla cadenza quadriennale degli anni bisestili, eliminando tre anni bisestili ogni cento, scelti tra quelli ‘centennali’ non esattamente divisibili per 400. I cicli lunari sarebbero stati corretti con i calcoli di Lilio, necessari a ristabilire la corretta celebrazione della Pasqua, mentre suo fratello Antonio fu ricompensato con un privilegio di stampa decennale per il nuovo calendario.
Dopo la sua approvazione, la riforma gregoriana non ebbe vita facile. Nel pieno della Controriforma fu adottata soltanto dai Paesi di stretta osservanza cattolica, Italia, Spagna e Portogallo, mentre la Francia seguì nel dicembre 1582. Dai Paesi protestanti, invece, arrivò un secco rifiuto, seguito da violente polemiche pertinenti non tanto gli aspetti astronomici della questione, quanto quelli politico-religiosi. Era evidente, infatti, che la riforma del calendario rappresentava, tra le altre cose, un tentativo di stampo controriformistico di riparare antichi errori e di riportare all’unità – almeno simbolicamente, sotto il vessillo del nuovo calendario ‘restaurato’ – le genti cristiane separate dallo scisma protestante.
Lo scambio di opere polemiche tra cattolici e protestanti investì anche la comunità degli astronomi e in primo luogo, sul versante italiano, Clavio, che fu sin da subito in prima fila per rintuzzare gli attacchi provenienti dal mondo riformato, in modo particolare quelli di Michael Maestlin (1550-1631), autorevole astronomo copernicano e fervente oppositore della riforma gregoriana. Le tesi di Maestlin ebbero vasta risonanza in Italia, tanto che le sue opere furono messe all’Indice, mentre Clavio rispose con due testi in difesa della riforma (Apologia novi calendari romani, 1588; Explicatio romani calendari, 1603). Tuttavia, il conflitto continuò a imperversare per molto tempo. Benché la riforma gregoriana offrisse di fatto una soluzione permanente allo sfasamento del calendario, dal punto di vista dei protestanti era meglio, per usare le parole di Johannes Kepler, massimo astronomo del tempo e allievo di Maestlin, «essere in disaccordo con le stelle che in accordo con il papa» (cit. in Maiello 1994, p. 109).
Se, come si è visto, l’astronomia si costituisce come una disciplina ben definita nei metodi, negli obiettivi e nel suo statuto accademico e professionale, lo stesso non può dirsi per la cosmologia che, pur essendo un sapere tradizionale sin dai primordi della filosofia greca, non si costituisce come disciplina autonoma e accademicamente rilevante fino al 18° secolo. Il termine stesso cosmologia, pur comparendo – forse per la prima volta – verso la fine del 16° sec. nel frontespizio di un’opera poco conosciuta di Antoine Mizauld (Cosmologia, historiam coeli mundi […] quatuor opusculis methodice colligens, 1571), non ha praticamente circolazione almeno fino alla Cosmologia generalis, methodo scientifica pertractata di Christian Wolff, pubblicata a Francoforte e Lipsia nel 1731. Questo non vuol dire che i contenuti comunemente associati alla cosmologia non esistessero prima dell’epoca dei lumi. Nel sistema del sapere medievale e per larga parte del Rinascimento, lo studio dei principi causali che regolano la fisica celeste è dominio della filosofia della natura, o filosofia naturale. Fino al pieno Cinquecento la filosofia naturale è territorio pressoché interamente dominato dall’aristotelismo scolastico, le cui ramificazioni spaziano dal mondo macroscopico della natura celeste alla fisiologia umana e alla biologia animale.
Per quanto riguarda la fisica celeste, il testo di riferimento è il Del cielo aristotelico, affiancato da altri che riprendono lo stesso argomento nel contesto di discorsi più ampi, come la Fisica e la Metafisica (di cui particolarmente significativo è il l. XII, cap. 8 che, trattando delle ‘sostanze’ che muovono i pianeti, adotta il sistema cosmologico a sfere omocentriche di Eudosso e Callippo). Il sistema del mondo che lo studente trovava in questi testi e nei commenti dai quali erano quasi sempre accompagnati era una versione abbastanza fedele a quella originale del filosofo di Stagira, adattata tuttavia alle esigenze dottrinali del cristianesimo. Il Cosmo vi è descritto come una sfera di circonferenza finita, all’interno della quale si muovono, mosse da sfere materiali, le stelle fisse, seguite dai sette pianeti (Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna) ordinati secondo la loro distanza dal centro, occupato dalla Terra. A sua volta, la Terra o, meglio, la regione terrestre, è composta da quattro sfere concentriche, una per ogni elemento che la compone – terra, acqua, aria e fuoco –, i quali però sono, nella realtà, variamente dislocati dal loro ‘luogo naturale’, così da rendere possibile la commistione che permette la vita e i suoi cicli di generazione e corruzione. Diversamente, la regione celeste, i suoi corpi e lo spazio che li separa, è composta di un solo elemento detto etere o quintessenza, non presente sulla Terra e non soggetto alla generazione e corruzione. Si muove soltanto di un moto, quello circolare, ‘perfetto’ in quanto permette il ritorno ciclico di un corpo in uno spazio occupato precedentemente. Poiché i corpi celesti sono composti unicamente di questo elemento, il loro moto non può che essere perfettamente circolare, nonché di velocità uniforme, oppure composto di moti circolari uniformi.
Per Aristotele, l’Universo è dunque finito, ma il suo corpo primo, l’etere, è «eterno, non s’accresce e non diminuisce, e non è soggetto a invecchiamento, alterazione o altre affezioni» (Aristotele, Del cielo, I, 3, trad. di A. Russo, 1983, p. 247). I filosofi cristiani abbandonarono l’idea dell’eternità del Cosmo, incompatibile con la narrazione biblica, ma continuarono a sostenere la finitezza dello spazio, la circolarità dei moti e la perfezione della materia celeste. Sul piano dei rapporti tra le discipline, rispetto all’astronomia geometrica di cui si è parlato in precedenza, la filosofia naturale aveva un potere esplicativo più alto nella gerarchia del sapere, in quanto le sue tesi erano fondate sulla conoscenza delle ‘vere’ cause fisiche dei fenomeni, mentre i modelli astronomici erano considerati meri strumenti predittivi, validi per ‘salvare le apparenze’, ma neutri nei confronti di ogni interpretazione realistica e spiegazione filosofico-naturale.
A partire dalla metà del Cinquecento, e poi più intensamente nel Seicento, la cosmologia aristotelica subì un processo di revisione tanto dei suoi principi, quanto di singoli punti. Questo avvenne in un contesto più ampio di messa in discussione e di crisi della filosofia naturale che veniva attaccata da fronti diversi: la conoscenza più precisa ed estesa della filosofia e della scienza greca, grazie al lavoro degli umanisti che avevano riscoperto, edito e tradotto testi sino allora sconosciuti, metteva in questione l’autorità di Aristotele; l’affacciarsi di pratiche sperimentali e la rivalutazione delle arti meccaniche favorirono il ritorno all’osservazione diretta della natura e l’abbandono di una cultura filosofica considerata ‘libresca’; infine, la formulazione di sistemi filosofici alternativi all’aristotelismo – fossero essi fondati su principi di tipo chimico-alchemico, magnetico o atomistico-meccanicistico – fornì alternative ai non pochi filosofi insoddisfatti dalla filosofia scolastica.
Proposte di revisione critica, riforma o abbandono dell’aristotelismo iniziano a fiorire in Italia sin dalla fine del Quattrocento. Una primissima fase, interna all’aristotelismo, è aperta dalla ripresa di motivi averroistici a opera di un gruppo ristretto di filosofi naturali con spiccati interessi scientifici in astronomia e medicina attivi tra Bologna e Padova. Sulla scia di critiche mosse da Averroè all’adozione da parte degli astronomi di modelli geometrici che infrangevano il principio di uniformità, Alessandro Achillini (1463-1512) prima, Giovan Battista Amico (1511 ca.-1538) e Girolamo Fracastoro poi, sostennero la necessità di riformare l’astronomia tornando al modello cosmologico-astronomico sostenuto originariamente da Aristotele, vale a dire quello delle sfere omocentriche ripreso a sua volta da Eudosso e Callippo. Infatti, i modelli allora universalmente adottati erano quelli offerti dall’Almagesto di Tolomeo, i quali garantivano la precisione (relativa ai tempi) del calcolo delle posizioni celesti per mezzo di strumenti matematici ad hoc, quali circoli il cui centro non era la Terra (detti eccentrici), o il cui centro ruotava su un altro circolo (epicicli) o, addirittura, i cui moti erano uniformi soltanto rispetto a un punto, detto equante, diverso dal centro del moto. Questi modelli erano universalmente adottati dalle Theoricae planetarum e garantivano efficienza predittiva ma, allo stesso tempo, divergendo dal principio cosmologico fondamentale (l’uniformità dei moti), aprivano una frattura con la filosofia naturale. In questa situazione il cielo dei filosofi appariva differente da quello degli astronomi.
Una piena rinascita dell’omocentrismo, stimolata dalle critiche di Achillini, ebbe luogo nella seconda metà degli anni Trenta del Cinquecento a opera di due autori legati allo Studio padovano, Amico, autore nel 1536 del De motibus corporum celestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epiciclis, e Fracastoro, di cui si è già ricordato il libro sui circoli omocentrici. Entrambi gli autori prendono in considerazione la critica averroistica e concordano sulla necessità che la riforma dell’astronomia segua la strada della correzione dei modelli geometrici in senso omocentrico. In altre parole, la divergenza tra astronomia e filosofia doveva essere sanata modificando i modelli di predizione dei moti e non i principi filosofici. Inoltre, rispetto a quelle di Achillini, le proposte di Amico e di Fracastoro approfondiscono la questione presentando modelli astronomici omocentrici in sostituzione di quelli eccentrico-epiciclici di Tolomeo. Nonostante i difetti sul piano astronomico-geometrico, l’omocentrismo italiano mise in luce alcune istanze che diventeranno un potente argomento critico nei confronti dell’astronomia tolemaica. Le stesse si ritrovano nel De revolutionibus di Copernico che molto probabilmente le conobbe durante i suoi anni di formazione in Italia.
L’anno 1543 rappresenta uno spartiacque nella storia dell’astronomia: a Norimberga viene pubblicato il De revolutionibus di Copernico (1473-1543), l’opera che realizza la riforma dell’astronomia propugnata da Amico e Fracastoro, partendo da un punto di vista opposto a quello omocentrico, ossia sostituendo il principio fondamentale della centralità e immobilità della Terra con l’eliocentrismo, una tesi che appariva filosoficamente screditata e storicamente marginale. Al di là delle motivazioni tecniche e filosofiche che spinsero Copernico a un passo così radicale (Goddu 2010; Westman 2011), il De revolutionibus, dedicato a Paolo III, intesse molte relazioni con l’Italia e con gli studi astronomici promossi dal papa e dai suoi collaboratori. A fare da intermediario tra Copernico e il papa fu il cardinale Nicolaus von Schönberg, uno dei principali diplomatici della Curia. In una lettera a Copernico, pubblicata nel De revolutionibus subito prima della dedica, Schönberg invita l’astronomo a completare la sua opera e a inviarla a Roma.
Il cardinale morì prima che Copernico pubblicasse il De revolutionibus, che però arrivò a Roma poco dopo la sua pubblicazione, tanto che una delle prime reazioni all’eliocentrismo al di fuori della cerchia più vicina a Copernico provenne dall’ambiente ecclesiastico e fu quella del già ricordato domenicano Tolosani. Nel suo opuscolo De coelo et terra infima stabili scritto tra 1546 e1547 l’eliocentrismo è attaccato sia per la sua incompatibilità con la Sacra Scrittura, sia sul piano della fisica: secondo Tolosani, Copernico avrebbe ripreso la tesi eliocentrica dai filosofi pitagorici ma, primo, ci sarebbero errori e incongruenze nel recupero storico, e, secondo, la stessa opinione è stata già confutata da Aristotele (Granada 1997). La posizione di Tolosani prelude alla condanna del secolo successivo: nonostante Copernico sia riconosciuto come «esperto nelle scienze matematiche e astronomiche, [egli] compie molti errori sul piano della fisica e della dialettica». Inoltre, «pur avendo conoscenza delle sacre lettere, contraddice alcuni dei principi contenuti in esse, e mette a rischio di eresia sia se stesso che i suoi lettori» (Garin 1975, p. 288).
È possibile che queste pagine abbiano influenzato il dibattito secentesco sulla cosmologia eliocentrica e in modo particolare i primi avversari di Galilei, anch’essi domenicani (Guerrini 2010).
Fino agli inizi del Seicento, i sostenitori della visione eliocentrica copernicana furono un gruppo minoritario composto al massimo da una decina tra astronomi, matematici e filosofi naturali. Questo non vuol dire che il De revolutionibus fosse poco conosciuto o utilizzato. Al contrario, come dimostrano le molte annotazioni sulle copie rimaste della prima e della seconda edizione del 1566 (Gingerich 2002), nonché il successo delle tavole planetarie fondate sui parametri copernicani (le Tavole pruteniche del 1551), il testo era molto diffuso tra gli specialisti, che ne apprezzavano la parte tecnica tralasciando però il primo libro sulla cosmologia.
Tra i primi lettori italiani del De revolutionibus, Giordano Bruno (1548-1600) fu un entusiasta, per quanto infedele, sostenitore dell’eliocentrismo. La sua filosofia della natura è esposta in tre dialoghi in italiano pubblicati a Londra nel 1584 (La cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, e De l’infinito, universo e mondi) e nelle opere latine pubblicate tra il 1588 e il 1591, tra le quali si segnalano il Camoeracensis acrotismus (1588), il De triplici minimo et mensura e il De immenso et innumerabilibus (1591). Nel rovesciamento della prospettiva geocentrica Bruno vede il ritorno della vera visione del mondo, che riemerge da secoli di oscuramento in cui era stata gettata dalla falsa filosofia di Aristotele e dalla scolastica. L’abbandono della centralità e immobilità terrestre è però per Bruno soltanto un primo passo. Copernico non ha visto tutte le conseguenze della sua opera, essendo più «studioso de la matematica che de la natura», mentre spetta allo stesso Bruno portare a compimento la riforma cosmologica e filosofica di cui Copernico è stato «aurora» (La cena de le ceneri, in Id., Opere italiane, a cura di G. Aquilecchia, N. Ordine, 1° vol., 2002, p. 448).
Nelle sue opere, infatti, Bruno sviluppa sul piano fisico e porta alle sue ultime conseguenze l’eliocentrismo. L’Universo è uno spazio fisicamente infinito in cui sono realizzate, nel tempo, tutte le forme possibili dell’essere. È anche uno spazio omogeneo, composto in ogni sua parte dagli stessi elementi – acqua, terra, fuoco e aria – e rispondente in ogni luogo alle stesse leggi: una posizione opposta a quella aristotelica che predicava invece l’eccezionalità della regione celeste, in virtù dell’unica sostanza di cui sarebbe composta. Anche i corpi celesti, le stelle e i pianeti sono composti degli elementi terrestri, e la loro fisica risponde a quella della Terra, che è anch’essa un pianeta, oppure a quella del Sole, ossia a un corpo composto principalmente dall’elemento fuoco e che risplende di luce propria. L’Universo di Bruno è organizzato secondo principi di omogeneità e analogia: in esso esistono infiniti mondi la cui struttura è analoga a quella del nostro sistema solare. Ogni stella della volta celeste è come un Sole, un corpo infuocato intorno al quale orbitano i pianeti, la cui natura fredda e umida è mitigata dal calore solare. Il sistema cosmologico di Bruno rappresenta sotto molti punti di vista uno sviluppo in chiave fisica e filosofica del copernicanesimo, ma allo stesso tempo un consapevole tradimento dello spirito copernicano, nella misura in cui sono ammesse tesi non soltanto diverse ma anche palesemente in conflitto con i presupposti astronomici e cosmologici del De revolutionibus, quali, per es., l’uniformità dei moti celesti e l’unicità del centro dei moti celesti, che vengono completamente abbandonati.
Altri filosofi italiani dello stesso periodo, spesso definiti come naturalisti, tentano la strada del superamento della cosmologia aristotelica attraverso la via filosofica. È il caso di Bernardino Telesio (1509-1588), la cui opera maggiore, il De rerum natura iuxta propria principia (prima edizione 1565, poi pubblicato con sostanziali modifiche nel 1570 e nel 1586) riformula le basi della filosofia della natura in senso antimetafisico, privilegiando l’esperienza sensibile.
Secondo Telesio la natura non può essere conosciuta soltanto in astratto, tramite decreti logici indipendenti dai sensi. Questo metodo ha creato mondi fittizi, che Telesio intende sostituire con una filosofia della natura studiata «secondo i suoi principi propri». Alla metafisica delle sostanze, Telesio sostituisce l’idea che la realtà sia il prodotto di due principi contrari, incorporei e attivi – il caldo e il freddo – che si escludono a vicenda, contendendosi costantemente il dominio sulla materia, intesa come sostrato e mera ‘massa fisica’. Caldo e freddo non esistono al di fuori della materia. L’uno è principio di movimento e la sua azione sulla materia la rende rarefatta, tenue e leggera. L’altro, al contrario, è principio di stasi e influisce su densità e pesantezza. Insieme, i due principi tengono unito l’Universo. La dinamica della regione celeste è ugualmente influenzata dalla presenza di calore emesso dal Sole. Come Bruno, Telesio esclude l’esistenza della quintessenza, benché egli mantenga le sfere solide impenetrabili della tradizione aristotelico-tolemaica, che continuano a sovrintendere al moto dei corpi celesti. Il De rerum natura si muove principalmente sul terreno della fisica e della metafisica, svolgendo nei dettagli il tema cosmologico della dinamica del caldo e del freddo ma senza affrontare, se non per accenni, le questioni legate all’ordine e ai moti dei pianeti. Gli unici interventi che Telesio si concede sull’argomento sono quelli sulle comete (includendo in esse anche la nuova stella del 1572) nell’opuscolo De cometis et lacteo circulo (uscito postumo a Venezia nel 1590), nel quale è rifiutata la spiegazione aristotelica delle comete come esalazioni sublunari e accettata la loro natura celeste.
Dalla fine del Cinquecento in poi, l’astronomia entra in una nuova fase di osservazioni di fenomeni celesti inaspettati. La supernova del 1572 e la cometa del 1577 apriranno nuovi fronti nella sfida alla cosmologia aristotelica mettendo in questione l’immutabilità della regione celeste e la solidità delle sfere che, secondo la tradizione, erano responsabili dei moti delle stelle e dei pianeti. In Italia, come nel resto d’Europa, questi fenomeni stimoleranno un vivace dibattito al quale partecipano astronomi, astrologi, filosofi naturali e teologi. Sulla stella nuova intervengono sia Francesco Maurolico, tra i primi osservatori, sia, qualche anno più tardi, Clavio, in una delle edizioni del commento alla Sphaera. Entrambi riconoscono la posizione celeste del fenomeno: secondo Maurolico, che esclude la natura ‘stellare’ del fenomeno, potrebbe trattarsi di un’aggregazione di luce proveniente da stelle o pianeti circostanti, mentre Clavio, riprendendo le osservazioni del matematico messinese, accetta sia la tesi, peraltro molto diffusa, del segno divino, sia la possibilità che si tratti di una nuova generazione nella regione celeste, con la conseguenza che sarebbe necessario rivedere la teoria aristotelica (Tessicini 2012).
La letteratura italiana sui fenomeni celesti della fine del Cinquecento è ampia e abbraccia generi letterari diversi, dagli scritti astronomici a quelli astrologici, filosofici e religiosi. La stella nuova e le comete appaiono ai loro osservatori come fenomeni a volte divini, altre naturali, celesti o meteorologici, simili a stelle o pianeti, oppure nuvole effimere prodotte dalle esalazioni umide e terrestri. Queste interpretazioni continueranno a essere proposte ben oltre il passaggio di secolo: ma agli inizi del Seicento lo scenario scientifico e culturale muta repentinamente.
Tra la fine di novembre del 1609 e i primi giorni di gennaio dell’anno successivo, Galilei osserva per la prima volta con il telescopio da lui perfezionato nel corso dei mesi precedenti che la Luna non è una sfera «liscia e tersa» fatta di materia quintessenziale
ma, aspra et ineguale […] ripiena di eminenze et di cavità, simili, ma assai maggiori, ai monti et alle valli che nella terrestre superficie sono sparse (Lettera del 7 gennaio 1610, cit. in Bucciantini, Camerota, Giudice 2012, p. 61).
La scoperta dell’esistenza di un paesaggio lunare simile alla Terra fu soltanto la prima di una straordinaria serie di osservazioni che in breve tempo rivoluzioneranno la cosmologia.
A poche settimane dal primo annuncio seguì la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610), il «messaggero celeste» al quale lo scienziato pisano affidò le novità emerse dalle sue prime osservazioni telescopiche. Le 550 copie della prima edizione andarono a ruba, tanto fu il clamore delle novità annunciate: non soltanto Galilei rivelava la superficie irregolare della Luna, coperta di «catene di monti» e di «profondità di valli» (Sidereus nuncius, a cura di A. Battistini, 1995, p. 91) ma anche, e forse ancora più sorprendentemente, che l’Universo è composto di un numero infinito di stelle, la maggior parte delle quali invisibili a occhio nudo. Sino a quel momento il catalogo stellare comprendeva 1022 stelle osservabili a occhio nudo. In una paginetta scarsa il Sidereus nuncius spazza via questa antica certezza: osservate con il telescopio le stelle si moltiplicano a dismisura. Dove gli astronomi vedono a occhio nudo meno di dieci stelle, Galilei afferma di averne osservate più di cinquecento nella Cintura di Orione, riuscendo a raffigurarne soltanto ottanta (p. 123).
La terza grande novità del Sidereus nuncius riguarda Giove e, di riflesso, le teorie sull’organizzazione dei pianeti in ‘sistema’. Quasi tutta la seconda metà del testo è dedicata alle osservazioni di quattro nuovi pianeti «non mai dalle origini del mondo fino ai nostri tempi veduti» (p. 133). Essi orbitano intorno a Giove, formando così un sistema simile a quello della Terra e della Luna. Galilei li denominò, in onore dei signori di Firenze, Pianeti Medicei, una dedica che gli valse, poco dopo, un nuovo impiego a condizioni di favore come «primario matematico» dello Studio di Pisa e «filosofo» del granduca di Toscana.
Altre novità celesti seguirono quelle già straordinarie del Sidereus nuncius. Alla fine di luglio del 1610 fu la volta di Saturno. Galilei ne osservò la forma allungata del globo, come se due ‘manici’ (ansae) fossero stati aggiunti al corpo centrale. Pensando a un nuovo sistema planetario, Galilei attribuì il fenomeno alla presenza di due satelliti – che si trattasse di un anello fu scoperto da Christiaan Huygens nel 1659 –, comunicandone la scoperta con un anagramma. Qualche mese ancora e alla fine dell’anno lo scienziato pisano comunicò un’altra scoperta sensazionale del suo telescopio: il pianeta Venere mostrava fasi simili a quelle della Luna, un fenomeno possibile soltanto nel caso in cui il pianeta descrivesse un’orbita eliocentrica. Nel 1611 fu poi la volta delle macchie solari, che mostravano la possibile rotazione del Sole sul suo asse.
In meno di due anni il telescopio scardinò i fondamenti del millenario edificio cosmologico aristotelico-medievale, ma la vicenda galileiana fu un susseguirsi di successi esaltanti e di brucianti delusioni. Le reazioni negative arrivarono presto. Obiezioni sulla veridicità delle osservazioni vennero sollevate da più parti e con particolare vigore a Bologna e nella natia Firenze, mentre Roma riservò un’accoglienza più favorevole a Galilei. Il 25 aprile 1611 egli fu ascritto all’Accademia dei Lincei, e anche i gesuiti accolsero favorevolmente (benché con qualche distinzione critica, soprattutto di Clavio) le novità celesti portate dal ‘messaggero’ pisano. Galilei fu ricevuto nel Collegio romano con tutti gli onori e un’orazione in sua lode (il Sidereus nuncius Collegii romani) fu pronunciata dal belga Odo Van Maelcote (Bucciantini, Camerota, Giudice 2012, pp. 225-28). Tuttavia, come è noto, la storia dei rapporti tra Galilei e la Chiesa romana era destinata a prendere tutt’altra direzione negli anni successivi.
Nel febbraio del 1616 l’eliocentrismo fu vietato dall’Indice come teoria fisica, a causa della sua incompatibilità con le Sacre Scritture, e il De revolutionibus proibito fino a che non fosse stato corretto come sola ipotesi matematica. Galilei, le cui simpatie copernicane erano note, si recò a Roma per tentare di scongiurare questa decisione, ma il cardinale Roberto Bellarmino gli comunicò il tenore del decreto dell’Indice su Copernico e gli ingiunse di non diffondere le tesi eliocentriche. Due anni dopo, il conflitto con i gesuiti esplose pubblicamente. L’apparizione di tre comete nel 1618-19 diede nuovo impulso alla letteratura sull’argomento, e quando i gesuiti intervennero con due opere – l’anonima De tribus cometis anni MDCXVIII disputatio astronomica e la pseudoepigrafa Libra astronomica ac philosophica, opera di Orazio Grassi, lettore di matematica al Collegio romano –, Galilei rispose prima con il Discorso delle comete, a firma del suo allievo Mario Guiducci, e poi, ma soltanto nel 1623, con Il Saggiatore.
I contenuti della polemica riguardano la posizione, la natura fisica e i moti delle comete. Mentre i gesuiti sottoscrivevano le tesi di Brahe sulla localizzazione celeste delle comete e la loro analogia con i pianeti, Galilei sosteneva la natura effimera delle comete, definite un prodotto delle esalazioni terrestri e dell’azione della luce del Sole, che ne fa risplendere la superficie. Ma al di là dei contenuti specifici della polemica e anche dell’indubbio successo del Saggiatore nei circoli scientifici e culturali più avanzati, lo scontro diretto con i gesuiti segnò un punto di rottura nei rapporti e nella vita di Galilei.
Nel 1623 il clima sembrò volgere nuovamente a favore di Galilei con l’elezione al soglio pontificio di Maffeo Barberini (Urbano VIII), un cardinale fiorentino che in passato gli aveva dato dimostrazione di stima e di protezione. Ma il favore di alcuni vertici ecclesiastici non servì a evitare la condanna che sarebbe arrivata a causa del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), l’opera che segna la piena maturità intellettuale e scientifica di Galilei.
L’opera propone un confronto tra il sistema tolemaico e quello copernicano. Quest’ultimo, essendo oggetto di censura, è considerato da Galilei soltanto come ipotesi matematica, e pertanto non oggetto di speculazione fisica. Nel testo, gli argomenti a favore dell’eliocentrismo sono infatti presentati come mera possibilità, la quale, tuttavia, si rivela gradualmente come verità fisica, squarciando il velo della finzione ufficiale nel momento in cui sempre più stringenti diventano gli argomenti contro il sistema geocentrico di Aristotele e Tolomeo. Nelle prime tre ‘giornate’ del Dialogo Galilei mira a dimostrare che, dato il principio fisico della relatività del moto, non c’è modo di provare l’immobilità (o meno) della Terra. I due sistemi cosmologici sono sostanzialmente equivalenti da un punto di vista logico, benché sia chiaro che il favore del portavoce di Galilei, Filippo Salviati, va a quello eliocentrico, a tratti presentato come il più ragionevole. La quarta giornata è dedicata alla questione che secondo l’autore doveva costituire il principale argomento positivo a favore del moto della Terra, ossia la teoria delle maree. Nelle parole dello stesso Galilei
quando il globo terrestre sia immobile, non si possa naturalmente fare il flusso e reflusso del mare; e che quando al medesimo globo si conferiscano i movimenti già assegnatili, è necessario che il mare soggiaccia al flusso e reflusso, conforme a tutto quello che in esso viene osservato (Dialogo sopra i due massimi sistemi, a cura di L. Sosio, 1970, p. 494).
Secondo questa ipotesi, la combinazione dei moti diurno e annuo della Terra darebbe origine a un moto non uniforme sulla superficie terrestre che sposterebbe ciclicamente le acque, contenute negli oceani come in immensi catini. Nonostante questo argomento sia erroneo, nel suo complesso il Dialogo perora efficacemente la causa eliocentrica, assestando un colpo decisivo alla cosmologia tolemaica e alla fisica aristotelica. In particolare, la fisica galileiana elimina la dicotomia tra regione celeste terrestre e regione celeste che caratterizza la scienza medievale. Le leggi fisiche si applicano ugualmente in tutto l’universo, così che i pianeti, tra i quali la Terra, godono tutti delle stesse proprietà. Da Copernico Galilei riprende il principio ordinatore del Cosmo, secondo il quale esiste una relazione tra il periodo di rivoluzione di ogni pianeta intorno al Sole e la distanza dal centro, così che i pianeti più lontani sono quelli che compiono le loro orbite nel tempo maggiore. Quello che Copernico non poteva prevedere è che lo stesso principio vale anche per i satelliti di Giove, le «stelle medicee» che hanno tempi di rivoluzione intorno a Giove tanto più lunghi quanto più sono lontani (p. 147).
Il Dialogo è un’opera fondamentale della storia della fisica e della cosmologia. Fu, tuttavia, anche un’opera sfortunata per le drammatiche vicende che seguirono: pubblicato a Firenze nella primavera del 1632, il Dialogo fu proibito già il 25 luglio dello stesso anno. Subito dopo il papa istituì una commissione speciale presieduta dal cardinale Francesco Barberini. A settembre, dopo essersi riunita cinque volte, la commissione produsse un rapporto che accusava Galilei di aver violato il divieto del 1616 di diffondere il copernicanesimo. Le carte della commissione furono trasmesse al tribunale del Santo Uffizio, che celebrò il processo conclusosi con l’abiura di Galilei il 22 giugno 1633 presso la chiesa di S. Maria sopra Minerva (Camerota 2004, pp. 460-521).
Il processo e l’abiura segnarono profondamente sia la vita di Galilei sia l’astronomia italiana. Confinato nella sua villa di Arcetri e indebolito nel corpo, Galilei lavorava ormai a fatica. Del 1638 è il suo capolavoro (e testamento) di fisica, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. In seguito alla condanna, l’astronomia rimase ovviamente un po’ sullo sfondo, almeno per questioni di prudenza, dei suoi interessi, ma non del tutto assente. L’uso del telescopio non era stato proibito e Galilei si adoperò alla sua diffusione e al suo miglioramento tecnico, aggiornandosi sui progressi della scienza delle stelle e anzi dedicandovi il suo ultimo scritto, la Lettera al principe Leopoldo di Toscana (1640), che affronta la questione della ‘luce cinerea’, o chiarore, della Luna, in polemica con l’aristotelico Fortunio Liceti (Righini 1978).
Dopo il 1642, anno della morte di Galilei, la condanna dell’eliocentrismo come teoria fisica costringerà alla cautela, se non proprio all’autocensura, coloro che in Italia avrebbero voluto sviluppare le tesi eliocentriche (Motta 2001). Non è un caso che opere di ispirazione eliocentrica e galileiana, come il De systemate mundi di Tommaso Cornelio (1614-1684), filosofo napoletano animatore dell’Accademia degli Investiganti, rimasero manoscritte, e che i principali sostenitori romani di Galilei, gli accademici Lincei, caddero in disgrazia e la stessa Accademia cessò di operare alla metà del secolo (Ricci 2002). In qualche caso, poi, la scuola galileiana, anche quando si interessò a temi astronomici, si astenne dal pubblicarne i risultati (Baldini 1980, pp. 424-25). In un contesto di questo tipo, in cui però bisogna considerare che la censura ecclesiastica non fu l’unico fattore regressivo, la cosmologia italiana, intesa a questo punto come l’interpretazione in chiave fisica dei dati provenienti dall’attività osservativa, tese a perdere terreno rispetto al grande impulso che ebbe nel resto d’Europa nella seconda metà del Seicento.
A Firenze, l’Accademia del Cimento, istituita dal principe Leopoldo de’ Medici nel 1657, costituì un tentativo, per molti versi riuscito, di continuare l’attività scientifica nel solco dello sperimentalismo galileiano. Inoltre, tra i membri dell’Accademia vi erano molti allievi diretti di Galilei, che svilupparono i temi affrontati dal maestro e ne aggiunsero di nuovi. In questo contesto, gli studi astronomici ebbero un posto di rilievo, benché non dominante, nelle discussioni dell’Accademia.
Il risultato più incoraggiante dell’attività astronomica dei membri del Cimento furono le Theoricae mediceorum planetarum (1666) di Giovanni Alfonso Borelli, che affrontano la questione fisica dei moti planetari passando per l’osservazione e la predizione dei periodi dei satelliti di Giove. Inoltre, i Diari manoscritti dell’Accademia e le corrispondenze dei soci sono testimonianza di altre attività su temi ‘galileiani’, quali gli anelli di Saturno e la traiettoria delle comete. Per la prima questione, l’Accademia agì in qualità di arbitro nella disputa che opponeva Christiaan Huygens (1629-1695) a Honoré Fabri (1607-1688) e che vide l’affermazione del primo, sostenitore della tesi che intorno a Saturno vi fosse un anello di materia solida piuttosto che, come sostenuto da Fabri, altri satelliti simili a quelli di Giove. La tesi di Huygens fu poi ripresa e perfezionata da Gian Domenico Cassini (1625-1712), che osservò la natura multipla e composita dell’anello di Saturno. All’insegna della prudenza furono anche gli interventi sulle comete del 1664 e 1665, che videro un intenso scambio epistolare tra Borelli, il principe Leopoldo, Cassini e il francese Ismael Boulliau. Ma nonostante il Cimento e poche altre esperienze di valore anche notevole, come, per es., l’attività di Cassini presso l’osservatorio di Panzano e prima del suo trasferimento a Parigi, l’astronomia italiana della seconda metà del Seicento visse una fase difficile, in quanto perse lo slancio teorico del periodo galileiano e divenne soprattutto astronomia descrittiva e di osservazione.
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