ASTRATTO (dal lat. absractus, part. pass. di abstrahere, da ab e trahere "distaccare, condur via"; fr. abstrait; sp. abstracto; ted. abstrakt, abgesondert, abgezogen; ingl. abstract)
Contro la sofistica soggettività del conoscere, Socrate aveva messo in evidenza la imprescindibile universalità dei concetti. Platone dà rilievo alla scoperta di Socrate e vede l'assolutezza di questi concetti universali che sono la verità delle cose; li fissa quindi come immutabili idee universali, idee che sono le vere cose. Ma svanivano cosi le cose reali, per la conoscenza delle quali Socrate mostrava necessaria l'universalità dei concetti: l'ideale verità, duplicando la realtà, di fatto la sopprimeva. Bisognava riportare la verità alla realtà. È quanto fece Aristotele col riconoscere il valore soltanto formale dell'idea: egli, evitando così la suddetta duplicazione, non distrusse, ma inverò l'idea platonica mostrandone l'idealità immanente, come essenza, nel reale.
E l'idea quindi, pura, nella sua immutabile universalità, divenne astratta dalle cose reali, cioè tale che possa essere, con un atto mentale, considerata per sé senza il soggetto reale cui inerisce.
L'astratto (τὸ ἐξ ἀϕαιρέσεως) è quindi universale. I due termini, con lo svilupparsi e il fissarsi dell'aristotelismo nella scolastica, finiscono quasi con l'identificarsi. E nello stesso tempo, siccome intelligere est actio in ipso intelligente manens (Tommaso d'Aquino, De unitate intellectus, cap. IX, in Opuscoli e testi filosofici scelti da B. Nardi, II, p. 65), così l'astratto universale fu anche l'intellectum (cosa in quanto conosciuta, cioè esistente in intelligente, per modum intelligentis): l'astratto, in quanto tale, è soltanto pensato. E anche qui si finì con l'identificare e con l'invertire. Il pensato almeno quello umano, è astratto. La dualità platonica tra l'idea e la cosa si ripresenta, con maggiore eterogeneità, tra l'astratta cosa pensata universale e la concreta cosa esistente individuata: astratto e universale è il modo di essere nel pensiero; concreto e singolare il modo di essere nella realtà.
E il pensiero astratto, proprio in quanto tale, è vero, perchè solo rimanendo astratto può lasciare la cosa nella sua materialità individuata e non cadere nel platonismo, che, dando realtà alla universale idea della cosa, finisce col falsificarla, con l'intenderla aliter quam sit (Tomm. d'Aquino, Summa theologica, I, q. 85, a.1, ibid., p. 428). L'astratto è quindi vero, e reciprocamente. Così, però, la verità rimane astratta, mentre la realtà è concreta; e l'adeguazione quindi si mostra impossibile.
Per avvicinarsi a questa realtà concreta, bisognava o negare l'astrattezza del pensiero, in quanto universale, e con Anselmo d'Aosta ciò si era tentato, senza però negare anche il presupposto, da cui la necessità di quell'astrattezza era dedotta (la distinzione dell'esse in mente dall'esse in re); o negare la stessa universalità (nominalisti medievali) anche in quanto pensiero (Berkeley). Tra questi estremi rimaneva perciò salda, pur nella dualità in cui si dibatteva la posizione aristotelico-scolastica. L'idea chiara e distinta di Cartesio era in certo modo un tentativo per togliere l'astrattezza dall'idea. Questa, in quanto non composta dall'intelletto che la vede, è suscettibile essa di astrazione (non di divisione); e perciò, nella sua unità, è individuale, non astratta. Ma un potente colpo d'ala per sollevare il pensiero speculativo al disopra della notata contrapposizione tra l'astrattezza del pensiero e la concretezza del reale lo dà Kant agli albori del suo criticismo (Dissertazione del 1770, § 6) facendo maximam ambiguitatem vocis abstracti notare... Nempe proprie dicendum esset: ab aliquibus abstrahere, non aliquid abstrahere. Il concetto universale dell'intelletto, quindi, che tradizionalmente si dice e si ritiene astratto, rectius diceretur abstrahens quam abstractus. Quare intellectuales consultius est ideas puras, qui autem empirice tantum dantur conceptus, abstractos nominare. I concetti puri, dunque, nella loro universalità di pensiero, sono astraenti ab omni sensitivo; soltanto i concetti empirici sono astratti. La generalità di questi non è affatto l'universalità di quelli. L'universale intellettivo, così, pur non perdendo contatto col processo astrattivo, non è più l'astratto: diverrà poi sempre più chiaramente per Kant la funzione stessa di quel processo. Il pensiero universale si avvia a separare le sue sorti dall'irreale astratto.
Questa posizione kantiana è confermata e sviluppata da Fichte, che della filosofia (che appunto ha per oggetto questo universale) fa una "astrazione riflettente" che cerca di dimostrare "il necessario modo di azione della intelligenza", il quale è la forma stessa della realtà (Sul concetto della dottrina della scienza, § 7). Però questo universale fichtiano, che astraendo dal sensibile e riflettendo così su sé stesso costituisce la filosofia, se non è astratto, non è neppure concreto.
Hegel fa considerare che l'universale, che non è concreto, è necessariamente astratto, ed è in fondo il tradizionale universale intellettivo (Enciclopedia, § 79). Laddove deve essere concreto, cioè vero e proprio universale, quello che la filosofia deve raggiungere: "la filosofia non ha punto da fare con mere astrazioni o con pensieri formali, ma soltanto con pensieri concreti" (ibid., § 82). Né, con ciò, la filosofia rinunzia alla propria universalità. È invece l'universale che finalmente rinunzia alla propria astrattezza. Così entro l'universale concreto, e quindi entro il concreto pensiero, restano per Hegel come astratti da una parte l'universale dell'intelletto, il concetto soltanto formale, dall'altra il singolare nel senso.
Ma "il concetto, quantunque astratto, è proprio ciò che è concreto... il concetto in quanto esiste come concetto" (ibid., § 164). Perciò il vero astratto hegeliano è il singolare, che, come astratto, non cessa di essere nello spirito. Nella concretezza della spiritualità, la cosiddetta realtà, con la pretesa singolarità delle sue cose distinte e separate, è astratta. Si riafferma così l'esigenza da cui era partito Platone, dopo che, però, si è riconosciuta la realtà come astratta dalla e nella stessa spiritualità.
I problemi nascenti da questa posizione sono in via di esplicazione.
Bibl.: Oltre le opere citate, cfr.: J. Locke, An Essay concerning human Understanding (1690), Oxford 1894, II, cap. 11, §§ 10-11; cap. 32, § 6; IV, cap. 7, § 9; G. Berkeley, A treatise concerning the principles of human Knowledge (1710), in Works, I, Oxford 1871, introduzione §§ 6-25; R. Eucken, Geistige Strömungen der Gegenwart, Jena 1908, 4ª ed., parte A, sez. 2ª, §§ e-a, id., Geschichte der philosophischen Terminologie, Lipsia 1879, pp. 66, 68.