BAGLIONI, Astorre
Nacque a Perugia il 3 marzo 1526, da Gentile e da Giulia Vitelli. Sulla sua infanzia, come su quella del fratello minore Adriano, gettò un'ombra sinistra la strage che del padre e di altri congiunti fece nell'agosto del 1527 Orazio Baglioni, al culmine di una lunga serie di contese fratricide per la signoria di Perugia.
Astorre ed Adriano, sui quali pure minacciava di abbattersi la vendetta di Orazio, furono posti in salvo dai partigiani di Gentile, dapprima a Spello, poi a Camerino, infine nel Regno di Napoli, dove si prese cura di loro Ascanio Colonna, che li insignì anche del titolo di viceduchi del suo feudo di Tagliacozzo. Morto Orazio Baglioni all'assedio di Napoli nel 1528, i due furono rimandati alla madre ospite a Città di Castello del fratello Alessandro Vitelli, uno dei più noti capitani del tempo. Questi si assunse il compito di educare i nipoti all'uso delle armi e nel 1540 li condusse con sé alla guerra d'Ungheria, affidando loro il comando di un contingente di trecento fanti, quasi tutti reclutati nei feudi dei Baglioni. Il quattordicenne B. fece così le sue prime prove all'assedio di Pest, dove si distinse respingendo una sortita turca. Raccomandato a Paolo III dal Vitelli, che al Farnese era legato da antica amicizia, il B. al suo ritorno in Italia fu inviato dal pontefice a Parma, alla corte del duca Pier Luigi, dove rimase sino al 1546, allorché dovette allontanarsene in seguito ad un diverbio, di cui si ignorano i motivi, con un gentiluomo della corte farnesiana, il conte Giulio Landi. L'anno successivo il B. fu in Germania, dove partecipò nell'esercito imperiale alla guerra di Smalcalda contro i protestanti, al comando di un distaccamento della cavalleria del principe di Sulmona Carlo di Savoia. In particolare si segnalò alla battaglia di Ingolstadt ed alla conquista di Donauwörth.
Tornato a Roma alla fine del 1547, Paolo III lo nominò governatore della città, carica che il B. mantenne per un triennio: alla conclusione del suo mandato gli fu concessa la dignità di senatore e fu ammesso nella nobiltà romana con privilegi ed immunità trasmissibili ereditariamente. Durante il conclave del 1549, inoltre, gli era stata affidata dal collegio dei cardinali la custodia di Castel S. Angelo. Nella primavera del 1550 il B. prese parte alla spedizione contro le basi tunisine del corsaro Dragut alla testa di un contingente di fanti fiorentini e romani. Nell'aprile si distinse all'assedio di Kélibia ed il 28 maggio comandò le fanterie da sbarco contro la piazza di Monastir; il 10 setternbre, al comando di due compagnie dei cavalieri di Malta, fu il principale protagonista della conquista di Afrika che capitolò dopo un violento assalto guidato dal B. pur gravemente ferito.
A Roma, sul finire del 1550, sposò Ginevra Salviati, di nobilissima ed influente casata: sembra che lo stesso Giulio III intervenisse per concludere il matrimonio. Il favore dimostratogli dal pontefice non impedì al B. di militare l'anno successivo, con il fratello Adriano, nell'esercito dei Farnese contro i Pontifici e gli Imperiali. Preso prigioniero a La Fontanella insieme al fratello, lo stesso Giulio III ottenne, attraverso Ascanio Della Cornia, la loro liberazione in cambio della promessa di rinunziare a combattere per i Farnese. Chiamati poi a Roma e chiusi in Castel S. Angelo, dovettero cedere infine alla richiesta del pontefice di entrare a far parte delle milizie della Chiesa. Il B. combatté così all'assedio della Mirandola nel giugno dei 1551, ma gravemente ferito abbandonò il servizio pontificio, nel quale era entrato così malvolentieri, passando al soldo della Repubblica di Venezia, dapprima al comando di mille uomini affidatigli dal procuratore Matteo Dandolo, poi ricoprendo varie cariche civili e militari, tra le quali il governo di Verona che egli esercitò per quattro anni.
A Verona, il B., che si dilettava anche di letteratura (si ricordano di lui vari sonetti ed una canzone), fondò nel 1565 l'Accademia dei Filotimi. Valente architetto militare, disegnò in questo periodo i piani per le fortificazioni di Udine e diresse personalmente quelle di Peschiera, Bergamo e Padova. La fama militare acquistata al servizio della Serenissima (nel 1560 la città di Perugia aveva attribuito al B. il titolo onorifico di capo dei Priori) gli procurò da Paolo IV anche la lusinghiera offerta del comando generale dell'esercito pontificio, che però il B., rispettoso degli impegni precedentemente contratti con Venezia, non volle accettare.
L'alta considerazione in cui la Repubblica veneta teneva il suo capitano è confermata dall'importanza degli incarichi successivamente affidatigli: dapprima il governo di Corfú (che egli provvide a fortificare), poi il comando generale della cavalleria leggera, infìne, nel marzo 1569, il governo di Nicosia.
Quando il B. prese possesso di quest'ultima carica, si profilava imminente un vigoroso attacco turco contro Cipro; il B. si accinse a rafforzare le difese dell'isola, ma si scontrò con l'ostilità della popolazione, malcontenta del pesante dominio veneziano, con l'incompetenza militare del supremo magistrato dell'isola, Niccolò Dandolo, e con l'incomprensione del governo veneziano, che lesinava i soccorsi. Sicché quando Cipro fu attaccata dai Turchi, nel luglio 1570, sia le fortificazioni sia il numero dei difensori - non più di dodicimila uomini - erano del tutto insufficienti a contenere l'urto dei centomila assalitori. Rimaneva tuttavia la speranza della grande spedizione che si andava preparando da parte delle potenze cristiane contro gli Ottomani: così, non essendosi potuto impedire lo sbarco dei Turchi e la caduta di Nicosia, si cercò di organizzare una lunga resistenza a Famagosta.
Il B., a fianco di Marcantonio Bragadin, fu uno dei principali protagonisti di questo eroico e sfortunato episodìo. Sono rimaste due sue lettere, del 3 nov. 1570 al duca d'Urbino e del 25 febbr. 1571 al Senato di Perugia, in cui, mentre espone lucidamente la situazione disperata della città e l'assoluta necessità di un soccorso esterno, accenna agli espedienti messi in atto per prolungare la difesa. Di particolare rilievo l'uso difensivo che egli fece delle mine e di speciali trincee, denominate "gattoli", che permettevano ai difensori di avvicinarsi al coperto al campo avversario.
L'arrivo, invece degli sperati soccorsi cristiani, della grande flotta turca al comando di Muezzin Sidi Alì il 16 apr. 1571 pose fine ad ogni speranza di vittoriosa resistenza. Fu il B. a consigliare al Bragadin la resa. Firmata la capitolazione il 3 luglio, il Bragadin, il B. e gli altri capi militari di Famagosta, Luigi Martinengo e Giannantonio Quirino, si consegnarono al capo ottomano che, contro i patti, li fece immediatamente trucidare. La testa mozza del B., insieme a quella dei suoi compagni e alla pelle riempita di paglia del Bragadin, fu inviata dai vincitori a Costantinopoli. La moglie del B., Ginevra Salviati, era riuscita nel frattempo ad organizzare una spedizione di soccorso di circa duemila uomini, che arrivò in vista di Cipro quando ogni resistenza era ormai terminata.
La miseranda fine dei difensori di Famagosta commosse tutta la cristianità: tra i molti componimenti poetici dedicati all'episodio, merita di essere ricordata la canzone che compose il Chiabrera in morte del Baglioni. Di lui esiste un ritratto nel Museo civico di Verona, eseguito intorno al 1565 dal pittore veronese Orlando Fiano.
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