MANFREDI, Astorgio
Secondo di questo nome; signore di Faenza con i fratelli Guido Antonio (sino al 1448) e Gian Galeazzo (sino al 1466), nacque l'8 dic. 1412 da Gian Galeazzo e da Gentile di Galeotto Malatesta.
La morte del padre nel 1417 lasciò la reggenza dello Stato e la tutela degli eredi alla madre e a Guidantonio da Montefeltro. Tra il 1418 e il 1420 Gentile ebbe la conferma del vicariato apostolico per i figli Carlo (nato nel 1406 e morto probabilmente entro il 1420), Guido Antonio, il M. e Gian Galeazzo. I Manfredi erano in questi anni vicari apostolici di Faenza e conti della Val di Lamone, la parte più consistente del territorio faentino verso gli Appennini.
La reggenza di Gentile dovette durare, almeno formalmente, sino al 1428. La gestione del potere signorile fu in ogni modo sempre collegiale: le concessioni del vicariato apostolico su Faenza, che si succedettero con regolarità a partire dal 1428, erano formalmente intestate a tutti e tre i figli viventi di Gian Galeazzo.
Il M. dovette intraprendere sin da fanciullo il mestiere delle armi: infatti, diciottenne fu accanto al fratello Guido Antonio nella campagna fiorentina contro Lucca. Non fu una scelta lungimirante: alla battaglia del Serchio (2 dic. 1430), le armate fiorentine vennero sconfitte e il M. cadde prigioniero. Liberato nel 1431, tornò a Faenza con il fratello, ma ne partì ben presto per militare, da solo questa volta, al soldo di Filippo Maria Visconti duca di Milano.
Erano questi i decenni del grande scontro fra la ricostituita potenza viscontea e le leghe strette di volta in volta fra Venezia, Firenze, il Papato e dal 1442 il Regno di Napoli, riunificato sotto Alfonso d'Aragona. Uno degli scenari principali dello scontro sarebbe stata la Romagna, formalmente sotto il dominio pontificio, concretamente governata da piccoli signori sempre più deboli e appetita dalle maggiori potenze italiane come corridoio di importanza strategica primaria per collegare la pianura Padana con il Centrosud.
Nel novembre 1432 il M., agli stipendi del duca di Milano, appoggiò un tentativo, fallito, di Antonio Ordelaffi di espellere il governo papale da Forlì. Nel 1433, con la pace di Ferrara (26 aprile), il M. e Guido Antonio rientrarono a Faenza: la rivolta di Forlì (seguita da Imola) doveva ben presto riesplodere e nel 1434 - quando il Visconti ne approfittò, impossessandosi di Imola, Forlì e Lugo, contando anche sull'insurrezione di Bologna - i Manfredi entrarono insieme agli ordini di Venezia nella rinnovata lega antiviscontea che unì Venezia, Firenze e il Papato. Le truppe della lega furono però sconfitte da Niccolò Piccinino nella battaglia del rio Sanguinario, il M. fu fatto prigioniero e portato a Milano, da dove rientrò a Faenza solo il 19 marzo 1436.
La scena politica divenne, con il 1435-36, ancora più instabile col riaprirsi dei conflitti per la successione napoletana: nel 1436 si ridefiniva a Firenze una lega antiviscontea per controllare l'espansione milanese anche nel Regno, e i Manfredi continuarono a combattere al soldo di Venezia, partecipando alle campagne lombarde del 1437. Nel 1438, dopo essere temporaneamente tornati a Faenza, ne ripartirono in due diversi schieramenti: Guido Antonio militò per Firenze, il M. tornò alla antica fedeltà viscontea, unendosi in Romagna al Piccinino.
Nella regione il M. perseguì una propria politica espansionistica su scala locale, impadronendosi di Riolo, Bagnacavallo, Russi e Fusignano. Mentre Guido Antonio, passato nuovamente con i Visconti, otteneva nel 1439 la signoria di Imola, il M. partecipò alla battaglia di Anghiari (29 giugno 1440) dove fu catturato da Niccolò Gambacorta, che lo cedette per danaro ai Fiorentini; fu rinchiuso alle Stinche, dove rimase sino alla pace di Cavriana (1441). Liberato, si vendicò del Gambacorta, uccidendolo a Bologna il 6 febbr. 1442.
La situazione politica generale era sempre più confusa: Alfonso d'Aragona, divenuto nel 1442 re di Napoli, si alleò col Visconti e mosse verso Nord per combattere Francesco Sforza, giungendo nel settembre 1443 sotto Fano. Il M. si allineò subito al re come raccomandato e aderente e, col fratello Guido Antonio, appoggiò il partito visconteo nell'insurrezione di Bologna, che in ottobre, cacciato Francesco Piccinino, aveva chiamato come signore Annibale Bentivoglio. Tra il 1446 e il 1447 i Manfredi lasciarono il fronte visconteo-aragonese per passare a Firenze: Alfonso d'Aragona non avrebbe mai perdonato questo tradimento.
La morte di Filippo Maria Visconti il 13 ag. 1447 rimescolò ancora le carte del giuoco politico italiano: il M. e Guido Antonio militarono allora agli ordini di Francesco Sforza, capitano generale della neonata Repubblica Ambrosiana. Ai suoi ordini parteciparono alla conquista di Piacenza nel novembre 1447, rientrando a Faenza poco dopo. L'anno successivo il M. seguì nuovamente lo Sforza a Cassano d'Adda, mentre Guido Antonio, malato, si recò a giugno ai bagni di Petriolo, dove morì.
Alla morte del fratello il M., ancora in Lombardia, si affrettò a tornare a Faenza: qui, grazie alla mediazione di Firenze, si accordò con il nipote Taddeo, figlio di Guido Antonio, lasciandogli la signoria di Imola e tenendo per sé e per il fratello Gian Galeazzo il vicariato di Faenza e la contea di Val di Lamone. Mentre Taddeo partiva per Firenze, il M. fu assoldato dal Comune di Bologna in occasione di nuovi tumulti scoppiati in città per il tentativo dei Canetoli di cacciare i Bentivoglio. Il 3 nov. 1448 il M. catturò e portò a Bologna Baldassarre Canetoli; nell'estate 1449, con Sante Bentivoglio, assediò Castel San Pietro, impegnandosi in uno scontro dall'esito incerto alla Riccardina contro Ludovico Gonzaga e Carlo da Campobasso, a capo delle armate napoletane.
Poco dopo, il M. tornò a Faenza: nel 1450 sorgevano infatti i primi problemi di confini fra Imola e Faenza; occupò i castelli di Monte Battaglia, Baffadi, Casola, Stifonte e Riolo, in territorio imolese, e attaccò il nipote Taddeo, secondo Zama sospettato dal M. di avere ordito una congiura contro di lui; nell'estate il M. mosse addirittura contro Imola. Taddeo inviò emissari per chiedere una tregua e i due si rimisero all'arbitrato di Francesco Sforza e Cosimo de' Medici.
Il giuoco delle rappresaglie armate e dei diversi interlocutori in veste di garanti e pacificatori (di volta in volta lo Sforza, il papa, il Medici, Borso d'Este) continuò con alti e bassi, risentendo delle diverse tensioni di cui la Romagna faceva da cassa di risonanza. Lo Sforza in particolare era interessato a mantenere nella regione un livello relativamente alto di tensione, così da potervi esercitare una duratura funzione arbitrale. La regione fra Imola, Cotignola (signoria degli Attendolo governata da un capitano del duca di Milano) e Faenza stava infatti divenendo un protettorato militare sforzesco e dal 1455 avrebbe ospitato regolarmente gli alloggiamenti di parte dell'esercito milanese.
In questi anni la situazione politica del M. era relativamente salda; furono anni di tranquillità: tra il 1451 e il 1462 furono stipulate e celebrate le nozze delle figlie Elisabetta e Barbara con Cecco e Pino di Antonio Ordelaffi, signori di Forlì; nel dicembre 1451 si celebrarono a Faenza le nozze fra Gian Galeazzo e Parisina di Niccolò della Mirandola; nel gennaio 1452 il M., con i primi due figli, Carlo (II) e Galeotto, si recò a Bologna ad accogliere Federico III diretto a Roma per l'incoronazione imperiale, e con i figli fu fatto cavaliere da quest'ultimo.
La situazione politica nel frattempo si andava aggravando. I maggiori poteri della penisola infatti si polarizzavano sempre più chiaramente in due principali schieramenti: da un lato l'asse milanese-fiorentino, cementato dal legame che univa il neoduca di Milano, Francesco Sforza, a Cosimo il Vecchio de' Medici, e dall'altro l'alleanza fra Venezia e Alfonso d'Aragona. In questo contesto, il M. aveva firmato nel novembre 1451 una condotta al servizio di Firenze, cui ottemperò combattendo contro Ferdinando, duca di Calabria. Alla fine del conflitto fra Milano e Venezia degli anni 1452-54, la pace generale stipulata fra gli Stati italiani si tradusse nel 1455 in una lega venticinquennale, la cosiddetta Lega italica, da cui il M. fu escluso per l'opposizione di Alfonso d'Aragona, che pretendeva di essere creditore del M. della enorme somma di 50.000 ducati, a riparazione del voltafaccia compiuto dal M. tra il 1446 e il 1447, quando il suo soldo era già stato pagato. Solo nei primi anni Sessanta, con la mediazione di Cosimo de' Medici e dello Sforza, Ferdinando d'Aragona accettò di cancellare il debito.
Nel 1460 il mai sopito conflitto col nipote Taddeo, signore di Imola, precipitò nuovamente. Taddeo nel gennaio era al soldo di Francesco Sforza, mentre il M. militava agli ordini dei Fiorentini. Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1460 Taddeo mosse contro Faenza con l'appoggio di truppe sforzesche. Taddeo aveva concepito l'impresa contando sull'appoggio di parte degli esuli faentini rifugiati a Imola, primo fra tutti Filippo Garatoni, e sul malcontento che serpeggiava in Faenza, dove infatti, l'11 e il 12 maggio, dopo l'attacco imolese, erano scoppiati tumulti.
Lo Sforza prese le distanze da questa iniziativa di Taddeo, e anzi inviò al M. Antonio da Figino, già cancelliere dei Manfredi, per mediare nello scontro fra i due. Il M. in risposta occupò nuovamente Riolo e Monte Battaglia, che aveva probabilmente restituito al nipote dopo l'accordo dei primi anni Cinquanta. Papa Pio II, che aveva bisogno del M. come capitano contro Sigismondo Malatesta, nell'autunno 1462 inviò a Faenza come arbitro Angelo Geraldini, vescovo di Sessa. Il M. accettò la mediazione del Geraldini, gli consegnò Riolo e Monte Battaglia, e passò agli ordini del papa. Stipulato l'accordo, il M. mosse alla volta di Meldola contro Domenico Malatesta (detto Malatesta Novello). All'assedio della Meldola e alla campagna contro il Malatesta il M. dedicò l'autunno 1462 e nell'aprile 1463 ne ricevette dal papa un soldo di 2000 ducati.
Nel giugno 1462 il M. giunse a un accordo col nipote: gli restituì ogni suo diritto e possesso in Imola e nelle ville di Pediano, Mezzocollo, Monte Medio, Publico e Toricchio, e in cambio fu investito dal Geraldini di Riolo e Monte Battaglia. Ancora nel novembre 1464, però, il M. e Taddeo erano entrambi a Milano per rivendicare una volta di più i propri rispettivi diritti sui castelli contesi. Nel 1466 morì, senza eredi, Gian Galeazzo Manfredi: il M. rimase il solo signore di Faenza e della Val di Lamone.
Nel 1466 per la morte di Cosimo de' Medici e Francesco Sforza si infrangevano gli equilibri garantiti dal legame fra i due: il M. si ingaggiò nel 1467 con la Repubblica fiorentina per 9000 ducati annui, ma dopo pochi mesi cambiò ancora una volta partito e nel maggio passò agli ordini di Bartolomeo Colleoni che, a fianco degli esuli fiorentini antimedicei e segretamente agli ordini della Serenissima, scese in Romagna per combattere le armate fiorentine e milanesi, cui si erano unite in una lega particolare stipulata il 17 genn. 1467 le truppe napoletane. Questa rinnovata lega antiveneziana, agli ordini di Federico da Montefeltro, si scontrò con il Colleoni e i suoi aderenti, tra cui il M., il 25 luglio 1467, a Molinella (battaglia detta anche della Riccardina), scontro tanto celebre quanto poco risolutivo. Solo nel febbraio 1468 papa Paolo II propose una pace generale.
Il M. morì il 12 marzo 1468.
Fu sepolto con gran pompa sul sagrato della chiesa dell'Osservanza di Faenza; la vedova, Giovanna Vestri, morì pochi mesi dopo, avendo fatto testamento il 3 sett. 1468. Il M. lasciava quattro figli maschi (Carlo, Galeotto, Federico e Lancillotto) e una sola figlia ancora vivente, Elisabetta, che sposò Francesco Ordelaffi. Lasciò un testamento molto dettagliato (redatto nel mese di dicembre del 1467), in cui regolò minuziosamente la spartizione dei suoi beni fra i maschi e dispose che solo il primogenito Carlo ereditasse la signoria su Faenza e la Val di Lamone. Alla morte di Carlo gli sarebbe successo Galeotto e a questo Lancillotto. Morti tutti i fratelli, avrebbero ereditato la signoria i nipoti dal più vecchio al più giovane. Arbitri delle eventuali differenze sorte tra i figli furono designati Borso d'Este, Ludovico Gonzaga, Pino Ordelaffi e la Serenissima.
La storiografia locale vede nei vent'anni di signoria del M. il momento di maggiore prosperità della dominazione manfrediana su Faenza: il lusso raffinato della corte, i rapporti con le più note dinastie signorili e aristocratiche, l'opera di sviluppo edilizio a Faenza fanno del M. un protagonista di primo piano, seppur controverso, della storia faentina. Come il fratello Guido Antonio, anch'egli fu accompagnato per tutta la vita da una dubbia fama di mancatore di parola. Inoltre, la decantata prosperità dell'età del M. non poté nascondere i prodromi della crisi successiva: crisi economica di una signoria urbana da sempre priva di una solida e duratura base finanziaria e di un radicamento profondo nel territorio; crisi politica di un potere signorile il cui spazio politico veniva drammaticamente riducendosi.
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