DURFORT, Astorge de
Apparteneva probabilmente al ramo di Aurillac (diocesi di Saint-Flour, Cantal) della grande famiglia dei Durfort, imparentata per mezzo di matrimoni ai La Tour, ai La jugie, ai Châteauneuf. Indicato con il titolo di damigello o cavaliere della diocesi di Limoges, appartiene al novero di famiglie dell'aristocrazia limosina i cui membri percorsero carriere importanti nella gerarchia della Chiesa, negli uffici della Curia e nella diplomazia pontificia, grazie all'ascesa al trono papale nel 1342 di uno di loro, Pierre Roger, che aveva preso il nome di Clemente VI. Grazie al matrimonio con una certa Héliade il D. divenne nipote del papa. Il 19 giugno 1344 gli sposi ricevettero il permesso di disporre di un altare portatile e il 18 giugno dello stesso anno il beneficio dell'indulgenza "in articulo mortis" secondo modi canonici. Tali privilegi erano uguali a quelli ricevuti dal fratello - forse primogenito - del D., Etienne, e sono i primi, testimoniati con certezza dalle fonti, che il D. ricevette dal pontefice.
Nei primi anni del pontificato di Clemente VI, dunque, il D. non si distingueva dagli altri numerosi parenti dei papa che ottenevano da questo favori e benefici. Improvvisamente il 23 dic. 1347 il pontefice lo scelse per affidargli un compito di grande responsabilità, il rettorato di Romagna. Si trattava di ristabilire l'autorità del papa in una delle regioni ecclesiastiche nelle quali la lontananza della Sede apostolica aveva favorito le iniziative dei signori locali e le ambizioni dei Visconti di Milano.
Il giorno stesso della nomina il papa impose alle autorità ecclesiastiche della provincia di prestare obbedienza al nuovo rettore e chiese a Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano, ad Alberto e Martino Della Scala, a Obizzo, marchese d'Este, vicario di Ferrara, a Giovanni e Giacomo Pepoli di Bologna, ai Gonzaga di Mantova, ai Comuni di Firenze, Siena, Arezzo e Perugia, al patriarca di Aquileia e al doge di Venezia Andrea Dandolo di fornire al D. l'aiuto necessario. Il D. ottenne un'indennità giornaliera di 4 fiorini e gli stessi poteri che in passato i papi avevano conferito ai suoi predecessori; aveva autorità sull'amministrazione della provincia, il tesoriere della quale fu avvertito del suo arrivo. Il D. succedeva ad un altro cavaliere limosino, Aymeric Rolland, al quale avrebbe dovuto presentare le sue lettere di nomina e del quale doveva seguire, secondo i desideri del papa, i consigli.
Per far fronte alle spese del suo incarico il D. prese in prestito 3.000 fiorini dalla Camera apostolica impegnandosi a restituirli entro il Natale 1348. A questa data, però, aveva versato solo 1.000 fiorini; il 12 genn. 1349 ottenne di poter restituire i restanti 2.000 fiorini in due rate (Natale 1349 e 1350). Effettuò un secondo rimborso alla fine del 1349. Nello stesso tempo il D. aveva ottenuto che gli fossero concessi 600 fiorini, rappresentanti l'annata dovuta alla tesoreria del monastero di Aurillac: ne rese 300 il 12 genn. 1349 e il suo parente Raimond de Durfort estinse il debito l'anno seguente, come si apprende dai conti del collettore di Bourges.
Gli inizi in Romagna sembrarono soddisfacenti. Clemente VI se ne compiacque e incoraggiò il rettore con una lettera del 21 apr. 1348. Una serie di istruzioni gli furono portate dal cavaliere Gui de Proynis della diocesi di Rodez, che diventò poco dopo vicerettore di Romagna. Il papa fece pressione su tutti i signori dell'Italia settentrionale perché fornissero al D. contingenti militari; in proposito furono sollecitati gli stessi personaggi che erano stati avvertiti dell'arrivo del rettore, e con loro anche Giacomo di Savoia, signore di Torino. Inoltre tutte le entrate spettanti alla Camera apostolica furono messe a disposizione dei rettore.
Nel marzo 1349 venne cosi formato un piccolo esercito sotto l'alto comando del rettore, composto da truppe assoldate sul luogo e comandate da Niccolò Della Serra, cavaliere di Gubbio, e da cavalieri guidati dal capitano di ventura Werner d'Urslingen; l'esercito doveva essere rinforzato da truppe inviate da Mastino Della Scala, Giovanni Visconti, dal marchese d'Este e dai Pepoli. Il fiorentino Giovanni Alberto Alberti fu nominato tesoriere dell'armata il 15 marzo 1350. Inoltre il papa rinnovò le sue richieste ai Comuni toscani e alla Repubblica di Venezia che non avevano dato risposta. Obiettivo immediato era la riconquista di Faenza e quello a più lunga scadenza la sottomissione e la punizione degli avversari della Chiesa romana. Le lettere del papa ai signori e ai Comuni per sollecitare l'invio di armati si fecero sempre più pressanti. Clemente VI chiese 100 cavalieri per tre mesi a Obizzo d'Este e ai Pepoli, si rivolse non più al solo arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti, ma scrisse anche a Bernabò e a Galeazzo Visconti, sollecitò l'intervento di cavalieri e signori perugini per indurre il governo comunale a rispettare gli impegni presi (28 marzo-1° apr. 1350). Nel maggio 1350 il papa credette di poter annunciare al D. che 400 cavalieri milanesi e truppe di Mastino Della Scala erano sul punto di raggiungerlo e gli ordinò quindi di passare all'azione (5 giugno 1350).
Il sequestro di Giovanni Pepoli dietro istigazione del D., che lo sospettava di doppio gioco, rimise in discussione lo svolgimento delle operazioni. Il fratello di Giovanni, Giacomo, per rappresaglia, catturò Hugues Adémar, un cavaliere di Saint-Paul-Trois-Châteaux, che si era recato a Roma con la famiglia per ottenere le indulgenze del giubileo e che, al ritorno, era passato per Bologna per svolgere, sembra, una missione speciale su incarico del papa e del rettore. Il pontefice chiese al D. di intervenire per ottenere la liberazione del prigioniero (29 luglio 1350). Ma non si faceva eccessive illusioni sulle possibilità di una conclusione pacifica e preparò nel contempo una prova di forza. Ordinò al D. di impadronirsi della città di Bologna; intimò al marchese d'Este, sotto pena di scomunica e di privazione dei beni che teneva dalla Chiesa, di non stringere alleanze con i Pepoli; inviò il medesimo avvertimento a Giacomo da Carrara, vicario di Carlo, re dei Romani, nella città e nel distretto di Padova (30 luglio 1350); indirizzò elogi e incoraggiamenti a Niccolò Della Serra che era riuscito, insieme con la piccola armata della Chiesa, a sottomettere tquasi miraculose" gran parte del contado bolognese.
Ma tutti gli sforzi furono vanificati dall'accordo concluso con i Pepoli dai Visconti, accordo in seguito al quale Giovanni Visconti comprò Bologna il 16 ott. 1350. I mercenari pontifici allora non ricevettero più il loro soldo, e malgrado gli appelli rivolti dal papa a Mastino Della Scala e Obizzo d'Este, Bologna non poté essere ripresa. Niccolò Della Scala fu trattenuto alla corte di Avignone e i mercenari ingaggiati in Romagna, che non erano ancora passati al servizio dei Visconti, furono licenziati nel febbraio 1351. Il D. stesso si trovò in gravi difficoltà e rimase bloccato a Imola.
Incapace di modificare tale situazione, il papa cambiò politica. Dopo aver sospeso a divinis l'arcivescovo Giovanni Visconti e aver iniziato a preparare un processo contro di lui, decise di arrivare ad un accordo. Gli chiese di concedere una udienza al D. nella speranza che questi fosse in grado di far valere presso i Visconti i diritti che la Chiesa romana vantava sulla città di Bologna; chiese inoltre all'arcivescovo milanese di inviare ad Imola 400 cavalieri in aiuto del D. con il compito di circondare la città, nella quale il D. era intrappolato e di liberarlo (18 aprile e 2 maggio 1352).
La missione del D. in Romagna si concluse quindi con una completa sconfitta. Il pontefice, comunque, volle dimostrargli la sua gratitudine per l'impegno con cui aveva portato avanti l'incarico cancellando il debito di 1.000 fiorini che il D. aveva ancora verso la Camera. Inoltre gli confermò il rettorato in Romagna; si trattava di un atto meramente formale, dato che di fatto Giovanni Visconti era padrone della situazione. Il 18 apr. 1352 Clemente VI aveva conferito a Giovanni il vicariato di Bologna per dodici anni, dietro il versamento del censo annuo di 12.000 fiorini, riservandosi pure la facoltà di chiedergli i servizi di 400 uomini armati. Non si hanno altre notizie sul D.; nel testamento redatto il 30 apr. 1364 Delphine de Châteauneuf lo indica come defunto signore di Aurillac.
Fonti e Bibl.: Marcha di Marco Battagli da Rimini, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XVI, 3, a cura di A. F. Massera, p. 48; Petri Azarii Liber gestorum in Lombardia, ibid., XVI, 4, a cura di F. Cognasso, pp. 51 ss.; Hyeronimus de Bursellis, Cronica gestorum… civitatis Bononie, ibid., XXIII, 2, a cura di A. Sorbelli, pp. 43 s.; Clément VI, Lettres closes patentes et curiales se rapportant à la France, a cura di E. Déprez - J. Glénisson - G. Mollat, Paris 1901-1961, ad Indices; S. Baluze, Vitae paparum Avenionensium, a cura di G. Mollat, Paris 1914-1922, ad Indices; L. Mohler, Die Einnahmen der apostolischen Kammer unter Klemens VI., Paderborn 1931, pp. 415 s., 568, 594; G. Mollat, Les papes d'Avignon, Paris 1964, ad Indicem; AVasina, IRomagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di Dante, Firenze 1965, ad Indicem; J. Larner, Signorie di Romagna. La società romagnola e l'origine delle signorie, Bologna 1972, p. 108; Storia dell'Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna 1976, ad Ind.; A. Vasina, L'area emiliana e romagnola, in Storia d'Italia (UTET), diretta da G. Galasso, VII, 1, Torino 1987, pp. 516 ss.
B. Guillemain