SALTARINI MODOTTI, Assunta (Tina Modotti)
– Nacque a Udine il 17 agosto 1896 da Giuseppe, meccanico, e da Assunta Mondini, sarta, seconda di quattro sorelle e due fratelli.
Costretta dalle difficoltà economiche, nel 1897 la famiglia Modotti si trasferì in Carinzia e vi rimase fino al 1905. Al rientro a Udine, mentre il padre, militante socialista, partiva per l’America, Tina fu iscritta alle scuole elementari, che frequentò con ottimo profitto, ma che fu costretta ad abbandonare dopo l’esame del terzo anno. Nel 1909 iniziò a lavorare presso le Seterie Domenico Raiser, oltre ad aiutare la madre, sarta a domicilio, ma imparò anche i rudimenti della fotografia dallo zio paterno Pietro, che aveva uno studio fotografico.
Nel 1911 Giuseppe Modotti fu raggiunto a San Francisco dalla primogenita Mercedes e in seguito da Tina, partita da Genova il 24 giugno 1913. La California era infatti una delle destinazioni favorite dagli emigranti italiani settentrionali, che vi trovarono maggiori opportunità e un’integrazione sociale migliore che sulla costa est (Fulfilling the promise of California, 2000, p. 16). Tina inizialmente lavorò nell’industria tessile, assieme alla sorella, per il grande magazzino I. Magnin. Ma con la sua «bellezza romantica, […] dalla figura smilza e minuta, un volto delicato, incorniciato da una massa di capelli scuri ondulati, grandi occhi neri e una bocca sensuale» (Hooks, 1993, p. 19), presto fu assunta come modella per le collezioni di moda dello stesso magazzino. Oltre a queste opportunità professionali, San Francisco offrì alla giovane emigrata friulana una stimolante vita politica e culturale, negli accesi dibattiti delle organizzazioni operaie e nel vivace mondo del teatro degli emigrati italiani, frequentato per la sua qualità anche dagli statunitensi.
Alla Panama-Pacific International Exposition, inaugurata nel 1915, Tina rimase affascinata dalla pittura moderna, che includeva i futuristi italiani. Conobbe poi Roubaix de l’Abrie Richey, soprannominato Robo, un pittore e poeta bohémien statunitense con il quale avviò una intensa relazione sentimentale e intellettuale. Questi la introdusse negli ambienti più avanzati, politicamente e artisticamente, della città californiana, stimolati dai movimenti rivoluzionari di Messico e Russia. Nel 1917 Tina, che nell’anno precedente si era proposta per alcuni provini, cominciò a esibirsi con regolarità come attrice nel teatro degli emigrati di San Francisco con la compagnia Città di Firenze, diretta da Alfredo Aratoli. Negli anni della guerra prese parte ad alcuni spettacoli di beneficenza organizzati dalla Croce rossa o dal giornale socialista La voce del popolo. Nella sua formazione politica fu influenzata dalle idee socialiste del padre, ma in questa fase condivise anche il nazionalismo dei suoi connazionali. Il teatro italiano proponeva oltre ai propri classici anche testi contemporanei, come quelli di Luigi Pirandello, Dario Niccodemi e Gabriele D’Annunzio, e non disdegnava l’impegno politico: Tina recitò infatti in The factory strike e The Russian revolution. La sua carriera teatrale continuò all’interno della compagnia La Moderna, guidata da Bruno Seragnoli, che incluse interpreti di buona levatura tra i quali l’attore siciliano Frank Puglia, «il cui fratello più giovane, Guido Gabrielli, avrebbe sposato in seguito la sorella più giovane di Tina, Yolanda» (Hooks, 1993, p. 29). Seragnoli offrì a Tina la parte di Regina in Gli spettri di Henrik Ibsen e ruoli da protagonista in drammi italiani quali La lettera smarrita, Scampolo e La nemica di Niccodemi e I disonesti di Gerolamo Rovetta.
Alla fine della guerra la famiglia Modotti si ricongiunse a San Francisco, ma nel frattempo Tina aveva iniziato una propria vita accanto a Robo, per quanto non risulta che i due si sposassero (Argenteri, 2005, pp. 59, 70). Insieme si trasferirono poi a Los Angeles, dove Robo scriveva poesie e dipingeva, mentre Tina, decisa a continuare la sua carriera di attrice, cercava lavoro negli studi di Hollywood. Nella loro casa si ritrovavano artisti, intellettuali e fotografi; significativa era inoltre la presenza di esuli messicani radicali quali Ricardo Gómez Robelo (che sarebbe divenuto in seguito il capo del Dipartimento delle belle arti di Città del Messico). Tina entrò in contatto con lo scrittore Ramiel McGehee, i fotografi Edward Weston e Johan Hagemeyer, il poeta e critico d’arte giapponese Sadakichi Hartmann, che collaborava alla rivista anarchica di Emma Goldman. Per quanto priva di un’educazione formale, Tina, lettrice curiosa, aveva una discreta cultura, e scriveva con uno stile personale in diverse lingue, come dimostrano le sue lettere. Stridente era il contrasto tra l’ambiente politico e intellettuale che condivideva con Robo e il mondo del cinema in cui ambiva a entrare, ma le due realtà, quella del glamour hollywoodiano e quella trasgressiva e inquieta degli artisti, sono sempre coesistite a Los Angeles, interagendo a tratti in modi inattesi.
Nel dopoguerra l’industria cinematografica americana, in pieno sviluppo, si lanciò alla conquista dei mercati internazionali, soprattutto europei, e iniziò a differenziare il proprio prodotto in termini di etnia, razza e nazionalità. Selezionò quindi anche interpreti stranieri che rappresentassero le proprie aspirazioni cosmopolite attraverso il casting, senza disturbare però il pubblico americano, in tensione per via dei grandi flussi migratori dal Sud Europa, soprattutto dall’Italia, che si erano susseguiti dalla fine dell’Ottocento, ma che furono bloccati con l’imposizione di quote restrittive nel 1921.
Nel 1920, per esempio, l’italiana Modotti fu la protagonista di The tiger’s coat diretto da Roy Clements, storia d’amore incentrata su di uno scambio di identità personale (e razziale). Modotti infatti interpretava una servetta messicana, Maria, che l’aitante e ricco americano Alexander, non smentito dalla ragazza, scambia per la scozzese Jean. Quando l’uomo scopre che si tratta invece di una «peona di basse origini», la lascia, per riproporsi a lei nel momento in cui ella si esibisce in teatro in una danza moderna e sensuale. Nel film Tina offrì un’interpretazione professionale, priva di manierismi: «In lei si ritrovavano tutti gli elementi della seduzione femminile; era morbida, sinuosa e dolcemente pericolosa come una tigre» (Jacob, in Tina Modotti. Gli anni luminosi, 1992, pp. 214 s.).
Dopo The tiger’s coat, Modotti interpretò il western Riding with death (1921, di Jacques Jaccard), anche qui nel ruolo di una donna messicana, Rosa Carilla. Nella commedia I can explain (1922, di George Duane Baker) ebbe il ruolo di Carmencita, una gelosissima donna latino-americana. In uno dei suoi diari Edward Weston raccontò che Tina e lui ridevano della stupidità dei registi americani: «I cervelli e l’immaginazione dei nostri registi non riescono a raffigurare una ragazza italiana se non con un coltello tra i denti e il sangue negli occhi» (Hooks, 1993, p. 51). L’esperienza cinematografica produsse quindi in Modotti la consapevolezza del pregiudizio antitaliano che percorreva i media americani, e più in generale del messaggio razzista che Hollywood trasmetteva. Mentre la sua fede politica si andava radicalizzando, l’attrice prese pubblicamente posizione dichiarando «che ella aveva cercato di non recare offesa nelle scene che riguardavano il Messico»: in effetti I can explain venne poi incluso in un elenco di titoli contestati dai messicani (Delpar, 1992, p. 171).
La carriera cinematografica e quella teatrale di Tina, di solito proposte come un aspetto minore nella sua biografia, rappresentarono invece una significativa esperienza politica e artistica, avendola esposta alle manifestazioni dei pregiudizi etnico-razziali americani, al ruolo delle comunicazioni di massa e alle contraddizioni della condizione femminile, tra tradizione, modernità e rivoluzione nei costumi sessuali.
Nel frattempo la relazione con Robo entrò in crisi anche perché Tina aveva iniziato a posare per Weston, in un coinvolgimento sia professionale sia sentimentale. Nel 1922 Robo partì per il Messico, per raggiungere Robelo, ritornato in patria per partecipare alla rinascita culturale del suo Paese. Modotti decise di raggiungerlo, ma Robo morì di vaiolo mentre Tina era ancora in viaggio. Di lì a poco l’improvvisa scomparsa del padre la riportò per un breve periodo in famiglia, a San Francisco.
Tina tornò in Messico nell’estate del 1923 con Weston e il figlio di lui, Chandler. Fu sulla terrazza della loro casa che il noto fotografo scattò la serie di nudi di Tina, frutto della loro collaborazione estetica, ma fonte, successivamente, di forti pregiudizi nei confronti di una donna così libera, criticata anche negli ambienti comunisti. Appartiene a questo periodo anche l’emozionante serie di foto Tina che recita, sempre di Weston, probabilmente i suoi ritratti più noti.
A lungo oggetto dello sguardo altrui, Modotti decise di passare dietro la macchina fotografica e imparare a controllarne il potenziale espressivo. Laura Mulvey e Peter Wollen (1982, 1992) scrivono infatti: «per Tina Modotti, il Messico rappresentò il motivo sia di una veloce politicizzazione che di una rapida evoluzione come fotografa» (p. 92). Weston e Modotti proposero le loro fotografie in una mostra collettiva al Palacio de Minería di Città del Messico. Tina inoltre entrò in contatto con i muralisti Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros e José Clemente Orozco, del lavoro dei quali divenne fotografa ufficiale. All’epoca il Partido revolucionario nacional (PNR) era impegnato in un progetto di mestizaje («mescolanza»), che potesse fondere l’eredità amerindia con quella europea, ma nel 1922 Rivera formò il Sindacato degli artisti (tecnici, pittori e scultori), che rifiutò le tradizioni europee per adottare invece l’uso dei colori e dei soggetti aztechi e maya, proposti negli spazi democratici delle strade e degli edifici pubblici: un’arte sociale che influenzò non solo Modotti, ma anche l’approccio degli artisti statunitensi del New Deal.
Nell’estate del 1926 Tina viaggiò con Weston e l’altro figlio, Brett, nelle regioni di Puebla e Oaxaca, documentando edifici, oggetti di culto ed espressioni dell’arte popolare per Idols behind altars (1929) di Anita Brenner, un libro che pare abbia ispirato il progetto messicano di Sergej Ejzenštejn.
Alla costante ricerca di una coerenza tra vita, arte e cambiamento sociopolitico, pasionaria di suo, Modotti partecipò intensamente a questa fase della vita culturale e politica del Messico. Mentre Weston partì e la loro relazione si andò affievolendo, nel 1928 Tina s’iscrisse al Partito comunista messicano e collaborò con giornali impegnati politicamente come El Machete e New masses, intrattenendo una relazione con Xavier Guerrero, artista indio-messicano e dirigente del partito, che però fu chiamato a Mosca per frequentare la scuola leninista. In questo periodo ebbe anche modo di incontrare lo scrittore John Dos Passos e l’attrice Dolores Del Rio, ed entrò in amicizia con la pittrice Frida Kahlo.
Nel 1927 partecipò al comitato messicano in difesa degli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, e in questa occasione conobbe Vittorio Vidali, attivista comunista triestino. S’impegnò inoltre nel Soccorso rosso internazionale, che assisteva le vittime delle repressioni politiche.
Nel settembre del 1928 diventò la compagna di Julio Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, al cui fianco intensificò il lavoro di fotografa e di militante, entrando in contatto con le sperimentazioni astratte degli Estridentisti, evidenti in foto come Fili del telefono, Stadio, Città del Messico, Esperimento di forme collegate o nelle immagini di fiori. Ma Mella, acceso oppositore del presidente cubano Gerardo Machado, il 10 gennaio 1929 venne ucciso in una strada di Città del Messico, mentre camminava insieme con Tina. La complessa situazione politica, che vedeva contrapposti i filosovietici della ‘rivoluzione in un solo Paese’ e i trotskisti della ‘rivoluzione permanente’ come Mella, creò un clima di sospetto e lacerazioni personali, che coinvolse Tina stessa, accusata di aver partecipato al complotto per eliminare Mella.
Sempre nel 1929 Modotti si allontanò da Città del Messico per spostarsi nell’istmo di Tehuantepec, una terra che conservava un regime matriarcale, dove fotografò le fatiche e l’orgoglio delle donne e, con uno sguardo sobriamente compassionevole, bambini laceri e scalzi. Il 3 dicembre dello stesso anno l’Universidad nacional autónoma de México propose la sua prima mostra personale, cui Siqueros dedicò una presentazione intitolata La prima mostra di fotografia rivoluzionaria in Messico. Attenta sia agli elementi compositivi sia all’immediatezza comunicativa e al racconto nitido della realtà sociale, Modotti era stata capace di raggiungere nelle foto significati pressoché simbolici come nel caso di Donna con la bandiera, in Chitarra, falce e cartuccera, o nelle Mani appoggiate sul badile e Mani che lavano i panni.
Per spiegare la sua visione della fotografia, nel 1926 Modotti aveva scritto: «Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore» (Sulla fotografia, in Tina Modotti, 2014, p. 26). E nel 1929 notò: «Sempre, quando le parole “arte” o “artistico” vengono applicate al mio lavoro fotografico, io mi sento in disaccordo. Questo è dovuto sicuramente al cattivo uso e abuso che viene fatto di questi termini. Mi considero una fotografa, niente di più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo, è precisamente che io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni. La maggior parte dei fotografi vanno ancora alla ricerca dell’effetto “artistico”, imitando altri mezzi di espressione grafica. Il risultato è un prodotto ibrido che non riesce a dare al loro lavoro le caratteristiche più valide che dovrebbe avere: la qualità fotografica» (ibid.).
Il 5 febbraio 1930, mutata la temperie politica, dopo un attentato al neoeletto presidente Pascual Ortiz Rubio, Modotti, del tutto estranea ai fatti, fu espulsa ed estradata in Europa, su una nave diretta a Rotterdam, sulla quale viaggiò anche Vidali. Arrestata dalla polizia olandese per intervento dell’OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell'Antifascismo), rischiò di essere estradata in Italia, ma con l’assistenza di un avvocato del Soccorso rosso ottenne un permesso di transito e trascorse sei mesi a Berlino, dove riprese a tratti a fotografare. Sempre più coinvolta nelle attività del Partito comunista, partì per Mosca, dove operava Vidali. Nella capitale sovietica Modotti allestì la sua ultima esposizione; ottenuta la cittadinanza, diventò membro del Partito comunista sovietico e si dedicò anima e corpo alla militanza. In piene purghe staliniane, tenne i contatti con le sezioni del Soccorso rosso in Europa, scrisse articoli nelle molte lingue che conosceva e si occupò di aspetti organizzativi inerenti alle problematiche dei rifugiati politici. Fino al 1935 visse quindi, a fianco di Vidali, fra Mosca, Varsavia, Vienna, Madrid e Parigi, come documentano Christiane Barkhausen (1989), Letizia Argenteri (2005) e Laura Branciforte (2011), ma «da questo momento la loro vita diventa piuttosto difficile da seguire e decifrare» (Argenteri, 2005, p. 226). Talvolta Modotti fu utilizzata infatti in pericolose missioni clandestine all’estero, che le valsero il soprannome di «Mata Hari rossa» e «agente di Mosca» (p. 225).
Nel 1936 partecipò alla guerra civile in Spagna con il nome di Maria, nel 5o reggimento comandato da Carlos Contreras, ovvero Vidali, affiancando come infermiera il medico canadese Norman Bethune e collaborando talvolta con Vidali nella sorveglianza politica all’interno delle brigate internazionali. Durante il drammatico conflitto ebbe occasione di conoscere Robert Capa e Gerda Taro, Ernest Hemingway, Antonio Machado, Dolores Ibárruri, Rafael Alberti, André Malraux. Nel 1938 fu tra gli organizzatori del Congreso nacional de la solidaridad che si tenne a Madrid, mentre già si annunciava la sconfitta: un ritmo di lavoro e di stress che l’invecchiò precocemente e acuì forse la patologia cardiaca di cui soffriva.
Dopo la caduta di Barcellona, nel 1939, fuggì in Francia con il solo abito che indossava; assieme a Vidali decise di non rientrare in URSS e di rifugiarsi invece in Messico. Ma la situazione nel Paese era profondamente mutata.
Il clima di sospetto all’interno degli ambienti filosovietici e la diffamazione sistematica dell’OVRA erano riusciti a creare intorno alla sua persona, a partire dal 1930, un’ambiguità difficile da dissipare, come difficile risulta spiegare il suo silenzio: l’abbandono della fotografia. Seguendo però la logica del suo percorso esistenziale in quel drammatico periodo storico, occuparsi fattivamente di povera gente e di esuli, di popolazioni civili massacrate dai bombardamenti, combattere nella resistenza antifascista, significava mettersi al servizio degli oppressi, non solo guardare e mostrare, ma agire.
Nella biografia di Modotti, come dietro a molte delle sue foto, «si nascondono segreti ancora da svelare, affascinanti intrighi, racconti orali difficili da dimostrare, che uniscono arte, politica, impegno civile e sociale» (Pignat, 2014, p. 19).
Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1942, a Città del Messico, dopo una serata trascorsa a casa dell’architetto svizzero Hannes Meyer, Modotti morì di infarto in un taxi. Sulla sua tomba messicana furono incisi alcuni dei toccanti versi che Pablo Neruda scrisse per lei, Tina Modotti è morta (in Tina Modotti, 2014, pp. 154 s.).
Nonostante la sua esistenza nomadica, alcune delle sue fotografie si sono salvate e sono conservate nei più importanti istituti e musei del mondo, fra i quali, negli Stati Uniti, l’International Museum of photography and film della George Eastman House a Rochester e la Library of Congress a Washington, oltre che in collezioni private.
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