assoluto
Ciò che non dipende da altro per la sua realtà, incondizionato. Si oppone quindi propriamente a «condizionato», «dipendente», ma non a «relativo», giacché esso non esclude la relazione per la quale un altro dipenderebbe da lui. Oltre a questo significato, a. ha l’altro (del resto connesso con il primo) di «compiuto in sé e per sé», «perfetto».
Il secondo significato (che nella storia della speculazione si trova spesso fuso col primo) prevale e caratterizza la filosofia greca, che, orientata com’è verso la svalutazione del divenire come segno e manifestazione d’imperfezione, tende a concepire l’a. come ciò che è sottratto alle vicende del divenire, come realtà che è tutto quello che può essere, realtà tutta in essere e compiuta nella sua perfezione. La speculazione greca intorno all’a. inizia propriamente con Platone, che oppone il mondo eterno delle idee, culminante nell’idea del Bene che tutte le coordina e le riassume, al mondo effimero del divenire. All’interno di tale concezione una attenzione particolare meritano la natura e il ruolo dell’anima, che è sotto molti aspetti un altro a., in quanto all’origine vive una vita iperuranica nella totale assenza di corpo, di cui non sente affatto la mancanza, e che anzi Platone concepisce, soprattutto nella prima fase del suo pensiero, come una sorta di punizione dell’anima. Altra manifestazione del suo carattere di assolutezza è quella di essere per sua natura automotrice, ossia capace di muovere sé stessa e perciò destinata a muovere i corpi, dai quali però resta non condizionata e indipendente. Tale concezione viene ulteriormente perfezionata dal neoplatonismo, e mette capo all’idea dell’Uno, a. nel vero senso del termine, perché sciolto da qualsiasi legame con le entità sottostanti – Intelletto e Anima – che nascono e vivono «rivolgendosi» a lui (ἐπιστϱοφή), ma che da lui vengono completamente ignorate, perché l’Uno, che si è «sottratto» da tutto, versa in uno stato di incoscienza, essendo per definizione «al di là dell’intelletto». L’Uno – come il «motore immobile» di Aristotele (ma diversamente da questo, perché il motore immobile è ancora un intelletto che pensa sé stesso) – mette in moto tutto il cosmo in quanto è il cosmo che si muove verso di lui. Anche nel neoplatonismo si conferma il carattere a. dell’anima, in particolare dell’anima del mondo. Infatti è una dottrina caratteristica di Plotino, per es., che il corpo (del mondo) è nell’anima, ma l’anima non è nel corpo. Il concetto di a. è naturalmente anche al centro della speculazione gnostica, sia pagana che cristiana, che lo pone in cima alla piramide degli enti, solitario ed unico in un «abisso» posto al di là del tempo e dello spazio.
Largamente presente nel platonismo medievale e rinascimentale, in particolare nelle correnti mistiche, tale concezione dell’a. riceve nuova linfa vitale dall’idealismo tedesco posteriore a Kant – e anzi in aperta polemica con le conclusioni scettiche della terza parte della Critica della ragion pura (➔), la Dialettica trascendentale, riguardo alla possibilità di conoscere l’assoluto La speculazione intorno all’a. è infatti al centro dell’idealismo oggettivo di Schelling e di Hegel, che inizialmente prendono le mosse da un a. indifferenziato, assimilato da entrambi alla «notte». Ben presto, tuttavia, le due filosofie prendono strade diverse. Mentre Schelling resterà sostanzialmente fermo a quella che Hegel definirà ironicamente una «notte in cui tutte le vacche sono nere» (Fenomenologia dello Spirito, 1807) (➔), Hegel si attesta sul concetto di un a. che ha in sé la differenza, definito fin dagli anni giovanili «identità dell’identità e della non identità». Il concetto era già noto al neoplatonismo, che lo usava per descrivere l’attività dell’Intelletto o υοῦς, ma non poteva trovare applicazione all’Uno, imprimendo quello che Hegel definirà un tratto di «orientalismo», cioè di irrazionalismo mistico, a tutto il sistema neoplatonico. Hegel propende invece per una «mistica razionale», una mistica, cioè, nella quale all’a. non si arrivi attraverso una intuizione improvvisa (il «colpo di pistola» della Fenomenologia – altra allusione a Schelling), ma attraverso una dimostrazione. La realizzazione di questo complesso programma filosofico è affidata principalmente a uno strumento: la «mediazione che toglie sé stessa», o «mediazione della mediazione». Tale concetto, illustrato soprattutto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (➔) (1817), consiste – come nelle cosiddette prove «a posteriori» della tradizione tomistica – nel partire ancora una volta dal finito per arrivare all’a., per poi scoprire, invece, che il finito, da cui l’a. pareva dipendere come punto di partenza, è in realtà un prodotto dell’a. stesso, nel quale si dissolve, come il cibo, che pure dà inizio al processo digestivo, si scioglie nei succhi gastrici e diventa una sola cosa con questi. Analogamente, nel processo hegeliano di mediazione, l’a. distrugge ciò da cui in un primo tempo pareva dipendere, e si rivela il vero protagonista dell’intero processo dialettico. Nelle lunghe Aggiunte ai §§ 80 e 92 dell’Enciclopedia Hegel precisa che l’apparente consistenza e identità delle cose finite è opera della «bontà» dell’a. (di Dio), ma che superiore alla bontà dell’a. è la sua «potenza», in virtù della quale le cose finite appaiono per quello che realmente sono, e cioè un suo prodotto privo di autonoma sussistenza. L’a. si conferma così, a pieno titolo, un vero a., cioè un incondizionato. Resta naturalmente una fondamentale differenza con qualsiasi concezione mistica dell’a., in particolare quella che Hegel tiene costantemente presente quando parla di Jacobi e del «sapere immediato». Nella concezione hegeliana l’a. è processualità, anzi l’a. si può e si deve confermare tale solo ed esclusivamente nella processualità, perché solo nella processualità si può confermare come il signore di tutto. L’a. dei mistici si condanna a una «inerte solitudine», dalla quale risulta più la sua impotenza che la sua potenza. L’a. di Hegel non ha nessun timore di entrare nel tempo e nello spazio attraverso l’alienazione (➔), perché spazio e tempo sono dentro di lui, e l’alienazione è momentanea, apparente, è un «gioco» – termine e concetto già presenti nella filosofia neoplatonica – che egli intraprende seco stesso.
Dopo Essere e tempo (➔) (1927) la filosofia di Heidegger, a partire dalla cosiddetta «svolta» iniziata con la Lettera sull’umanismo (1946), appare sempre più condizionata da temi che, più che hegeliani, potrebbero essere definiti neoplatonici. Il vero protagonista di Essere e tempo era l’essere finito (Da-sein, l’essere temporale) e il suo destino mortale, e dell’Essere, benché presente nel titolo dell’opera, non v’era traccia. Il tema principale dell’opera, conseguentemente, non era l’oblio dell’Essere, ma l’oblio della natura finita dell’Esserci, nel disperato tentativo di rinviare sine die l’incontro con la morte, l’unico vero «avvenire» che si prospetti a un essere consegnato a essa fin dalla nascita. Nella velata critica di ogni «filosofia dell’avvenire» emergeva il rifiuto di ogni prospettiva consolatoria, e l’invito ad affrontare con spirito lucido e rassegnato il proprio destino. Completamente diversa appare invece la prospettiva heideggeriana dopo il 1946. Nelle opere del secondo periodo l’Essere – termine con cui Heidegger ora intende l’a. – appare il vero protagonista del processo, e l’essere finito il suo «pastore» o il suo profeta. Di questa seconda figura c’è bisogno solo perché l’Essere ama nascondersi, e si «sottrae» alla vista dei più. Nasce da ciò – ora – il vero e proprio oblio dell’Essere, che tuttavia viene concepito, hegelianamente, come un momento che l’Essere stesso ha progettato. In realtà quei pochi tra gli eletti che sanno mettersi all’ascolto dell’Essere sanno che l’a. è sempre stato accanto a noi, e preparano il terreno per la sua manifestazione futura.