Aspirazioni di riforma della Chiesa ed eresie nei primi due secoli dopo il Mille
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dei secoli la Chiesa subisce violente contestazioni a opera dei fedeli; parallelamente, al suo interno si fanno sentire esigenze di riforma e di rinnovamento spirituale, che trovano la loro espressione dapprima nella fondazione di monasteri e di abbazie, poi nella riforma gregoriana. I fermenti contestativi, talora sbrigativamente e impropriamente definiti ereticali, si diffondono soprattutto in Italia settentrionale, Francia, Germania, Olanda. Essi assumono tuttavia in molti casi caratteristiche e tematiche tali da investire non solo l’organizzazione gerarchica della Chiesa, ma anche la sua essenza dottrinaria, scivolando effettivamente nell’eresia.
A partire dal X secolo, sul solco della tradizione monastica benedettina, in Europa cominciano a fiorire centri nuovi di spiritualità.
Abbazie come quella di Cluny (fondata nel 910, che annovera molti aristocratici fra i monaci), poste sotto il diretto controllo del papa e sottratte alla giurisdizione vescovile, che nell’XI secolo superano il migliaio, sono governate da una rigida regola che intende porre argine al diffuso fenomeno dei monaci erranti, veri e propri vagabondi senza nulla di sacrale. In questo contesto merita menzione la fondazione del primo monastero vallombrosiano nel 1015 a opera di Giovanni Gualberto e quella dei Cistercensi a Cîteaux nel 1098, entrambi ispirati alla più stretta osservanza benedettina.
Le abbazie, spesso al centro di più o meno vasti possedimenti terrieri, divengono importanti nuclei di insediamento e di produzione; non poche di loro danno luogo a un’inestimabile opera di recupero del patrimonio culturale classico, altrimenti condannato alla dispersione. Una moltitudine di amanuensi si dedica pazientemente a trascrivere le opere dell’antichità, senza badare troppo al fatto che i loro autori siano pagani.
Il modello religioso di quest’abbazia risulta tuttavia minoritario nel panorama generale dell’epoca, che vede il clero troppo spesso non solo compromesso col potere, ma coinvolto nel suo esercizio e nello sfruttamento del popolo di Dio. Già nell’811 i Capitularia Regum Francorum registrano la tragica situazione economico-sociale dei sudditi nelle province dell’impero carolingio: “i più poveri lamentano di essere stati defraudati dei loro beni: di questo accusano i vescovi, gli abati, i loro rappresentanti laici, i conti e i loro subordinati. Essi dicono poi che chi non vuole lasciare i suoi beni alla mercé dei vescovi o dell’abate o del giudice o di un loro subordinato viene incriminato con un pretesto qualsiasi e condannato o costretto a rimanere così a lungo in servizio presso l’esercito, che cade in miseria e finisce con il consegnare e vendere tutti i suoi beni”. Questo brano (che si trova nei Monumenta Germaniae Historica, Leges, una preziosa raccolta di fonti per lo studio della storia della Germania) attesta che, nelle articolazioni del potere feudale, il clero e la Chiesa sono coinvolti in maniera decisiva con un ruolo attivo.
Le cosiddette eresie medievali sono proprio il frutto del contrasto tra la predicazione e gli insegnamenti del Vangelo e la pratica di prepotenze e prevaricazioni di cui si rende spesso responsabile il clero, almeno quello che si identifica in un corpo separato di funzionari garanti del sistema di oppressione clerico-feudale e direttamente beneficiario di esso: di fatto, eretici sono spesso definiti (e come tali perseguitati) coloro che denunciano la falsità e l’ipocrisia di preti indegni e corrotti.
Agli inizi dell’XI secolo Gerardo, vescovo di Csanád in Ungheria, registrando il pullulare di eretici, non solo in Grecia, ma anche in Italia, attesta implicitamente che i percorsi e la diffusione delle idee anticonformiste non conoscono frontiere. Inquadrare in uno schema unitario la fisionomia dei dissidenti, sulla base delle testimonianze dei cronachisti, è impossibile. La Cronaca di Ademaro di Chabannes, per esempio, definisce genericamente manichei tutti gli eretici di cui fa menzione, come quelli d’Aquitania che, nel 1018, vanno dicendo che il battesimo e perfino la croce non hanno alcun valore, praticano il digiuno e (secondo lui simulano) la castità; o come quel gruppo di chierici di Orléans che nel 1022, poiché negano la Trinità e altri capisaldi del magistero della Chiesa, vengono linciati dalla folla inferocita.
Il resoconto di un altro cronista, Landolfo Seniore, autore della Mediolanensis historia, ci informa della spedizione organizzata dall’arcivescovo di Milano, Ariberto d’Intimiano, intorno al 1026, contro una setta di eretici guidati da un tal Gerardo, che si era insediata sulla rocca di Monforte, nelle Langhe. Catturati, i presunti eretici vengono condotti in catene a Milano per essere esaminati; gli interrogatori appurano che essi si conformano a un austero tenore di vita, praticando il digiuno, astenendosi dal mangiar carne, rifiutando la sessualità, negando la proprietà privata; ma rivelano anche che questi non accettano il magistero della Chiesa, non credono nei sacramenti, né nella Trinità, e che considerano il martirio come la via più sicura per il Paradiso. Quelli di loro che non sono disposti a ritrattare, vengono arsi sul rogo.
Si può finire impiccati anche per essersi rifiutati di sgozzare un pollo (molti eretici si astengono dall’uccidere animali, in quanto creature di Dio, e dal cibarsene), come accade nel Natale del 1051 ad alcuni malcapitati catturati da Goffredo II di Lorena a Goslar e giustiziati per ordine dell’imperatore Enrico III. I cronisti registrano anche la vicenda di un tal Ramirdo, che a Schere, nella diocesi di Cambrai, organizza un gruppo di rigoristi e che, dopo aver passato indenne un primo interrogatorio davanti al vescovo Gerardo, si rifiuta di ricevere l’ostia dalle mani dei preti locali e dallo stesso vescovo (a suo avviso indegni) e perciò viene condotto al rogo. L’esecuzione di Ramirdo provoca l’indignazione di Gregorio VII, che prende provvedimenti contro il clero di Cambrai, ma questi abusi non sono probabilmente isolati nella violenta società medievale di quegli anni.
Nel 1059 il concilio Lateranense, convocato da Niccolò II, rivendica, contro la prassi seguita dagli imperatori, l’esclusiva competenza del pontefice nelle nomine episcopali, dichiara guerra ai preti simoniaci e concubinari e intima ai vescovi di rimuoverli. L’iniziativa si inserisce nel più ambizioso progetto di ridisegnare il primato universale del pontefice, anche nei confronti della Chiesa d’Oriente. Pochi anni prima, nel 1054, il rifiuto di sottomettersi a Roma da parte di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, aveva provocato il cosiddetto scisma d’Oriente, che sanciva una situazione di fatto di secolare separatezza.
La deliberazione lateranense, che presenta evidenti risvolti economico-sociali perché implica il controllo di risorse e benefici ecclesiastici, vanta vari padri: il fondatore dell’eremo dei Camaldoli Romualdo, il vallombrosano Giovanni Gualberto, il monaco benedettino Ildebrando di Soana (futuro papa Gregorio VII), oltre a vari esponenti del grande movimento riformatore della pataria, a Milano.
Per quanto riguarda i patarini, il loro nome è forse da connettere al termine utilizzato per indicare gli straccivendoli in dialetto milanese; del resto, anche i gueux (pezzenti) dei Paesi Bassi, nella seconda metà del Cinquecento, avrebbero fatto dello sprezzante appellativo una orgogliosa bandiera.
I decreti conciliari, tuttavia, a Milano rimangono inapplicati e danno luogo a violenti tumulti e gravi disordini. Uno dei capi della pataria milanese, Arialdo da Carimate – poi santificato –, viene assassinato dopo atroci sevizie su un isolotto del Lago Maggiore da due chierici sguinzagliati dal discusso arcivescovo di Milano, il simoniaco e corrotto Guido da Velate, un esponente della nobiltà feudale insediato sul seggio episcopale dall’imperatore Enrico III. In questo periodo i preti milanesi sono quasi tutti sposati o mantengono pubblicamente concubine, con la piena connivenza dell’arcivescovo, e i sacramenti da loro amministrati sono considerati dai patarini come privi di efficacia.
Questi sono anche gli anni di una delle più acute crisi fra i due massimi poteri della cristianità: la mentalità teocratica e riformatrice di Gregorio VII, espressa nel Dictatus Papae (1075), trova il suo terreno di scontro nella lotta per le investiture dei cosiddetti vescovi conti, uomini scelti dall’imperatore più per la loro fedeltà che per la purezza dei costumi. Di qui l’aspro conflitto tra Gregorio VII e Enrico IV, il quale, dopo essere stato scomunicato ed essersi sottoposto all’umiliazione di Canossa, riprende il sopravvento e costringe il suo avversario a fuggire da Roma e a trovar ricetto presso i Normanni, nell’Italia meridionale. La cosiddetta riforma gregoriana non si esaurisce con la morte del pontefice, e viene continuata dai suoi successori, fino al concordato di Worms (1122).
Nel novembre del 1095 Urbano II indice la crociata per la liberazione dei luoghi santi, inaugurando una prassi destinata a grande fortuna e ad ancor più grandi polemiche, quella dell’indulgenza plenaria per tutti i partecipanti. L’avventura della crociata, che vede mobilitarsi masse di un intero continente, non significa però soltanto il perdono indifferenziato per più o meno grandi peccatori allettati dal riscatto di una vita abietta, ma anche una repentina valvola di sfogo per la turbolenta nobiltà feudale, speranzosa di gloria e di bottino, e per il suo seguito di facinorosi. Questa avventura, la prima di una lunga serie, avrebbe dato la stura alla secolare leggenda del Santo Graal, confluendo in un genere letterario nuovo, fondato sul cavalleresco, l’eroico e l’esoterico.
Nelle Fiandre, a cavallo dei secoli XII e XIII, troviamo un predicatore, Tanchelmo, probabilmente un nobile della cerchia di Roberto II conte di Fiandra, il quale svolge una vigorosa polemica contro preti simoniaci e concubinari, invitando i fedeli a disertare le funzioni, a non riconoscere l’autorità dei preti e, soprattutto, a non pagar loro le decime. Il successo riscosso da Tanchelmo, che riesce a raccogliere e sollevare molti cittadini predicando in varie località dei Paesi Bassi (Utrecht, Lovanio, Bruges) e lungo il corso del Reno, allarma la gerarchia: Tanchelmo viene assassinato da un prete nel 1115.
Altri focolai ereticali vengono registrati da Guiberto di Nogent a Bucy-le-Long, nei pressi di Soissons, dove due fratelli, entrambi contadini, Clemenzio e Eberardo, predicano per le campagne, contestando il clero indegno e intaccando l’ortodossia. Nel 1114 vengono arrestati e interrogati. In attesa delle decisioni del vescovo, la folla irrompe nella prigione in cui erano rinchiusi assieme ad altri sospetti e li conduce al rogo.
Teatro dell’azione contestatrice di Pietro di Bruis – originario delle Hautes-Alpes – sono le contrade del Delfinato e della Provenza, dove questo chierico radicale predica per oltre un ventennio, con un certo successo, le proprie teorie eterodosse, affermando, fra l’altro, l’inefficacia del battesimo impartito agli infanti, l’inutilità delle preghiere per i defunti e dell’edificazione di chiese e santuari, la vanità della credenza nel sacramento della comunione. In particolare Pietro si scaglia contro il simbolo della croce, evocatrice di un atroce supplizio, che la Chiesa avrebbe dovuto espungere e aborrire invece di farlo proprio, rendendolo oggetto di culto. Così, Pietro e i suoi seguaci scorrazzano per i paesi del Midi, compiendo violenze e bruciando croci, fino a quando non sopravvengono la cattura e il rogo, intorno al 1135.
Un altro personaggio che ha una certa notorietà in questi anni è il monaco Enrico, probabilmente originario di Losanna e discepolo di Pietro di Bruis, che, gettata la tonaca alle ortiche, si mette a girovagare nella Francia meridionale e nella Svizzera, passando per Losanna, Le Mans, Poitiers, Bordeaux e infine Tolosa, predicando dottrine di stampo pelagiano (egli afferma infatti che il peccato originale riguarda solo Adamo e non i suoi discendenti), scagliandosi contro il clero indegno e simoniaco, e suscitando disordini e tumulti. L’abate cistercense Bernardo di Chiaravalle lo combatte aspramente, insinuando che la foga riformatrice del monaco Enrico nasconda in realtà un’indole lasciva. Catturato una prima volta nel 1134, il monaco Enrico promette, a quanto pare, di emendarsi entrando fra i Cistercensi; ma, se pure vi viene accolto, ben presto riprende la sua vita vagabonda. Nel 1145 è nuovamente catturato: dopo questa data di lui non si ha notizia.
Nel corso degli anni Sessanta del XII secolo il monaco Ecberto di Schönau scrive alcuni Sermones contra cataros. Sembra che gli eretici avessero tentato di guadagnarlo alle loro idee attraverso frequenti discussioni, che Ecberto utilizza nei suoi scritti. I Sermones registrano la vicenda di cinque eretici provenienti dalle Fiandre, arrestati a Colonia, che preferiscono morire arsi sul rogo piuttosto che abiurare le loro dottrine (5 agosto 1163). Fra loro si trova anche una fanciulla che, sebbene non ancora condannata, sfuggendo a coloro che la trattengono, si getta fra le fiamme che avvolgono i suoi compagni di fede, non sopportando il pensiero di non condividerne il martirio.
Troviamo Bernardo di Chiaravalle coinvolto nella vicenda di un altro celebre dissidente, Arnaldo da Brescia, espulso dalla sua città per la sua infuocata predicazione contro il corrotto vescovo Manfredo. Arnaldo, discepolo di Pietro Abelardo, assiste costernato alla condanna delle tesi del suo maestro nel sinodo di Sens (1140), per opera proprio di Bernardo di Chiaravalle, il quale diviene anche suo nemico personale, tanto che riesce a farlo espellere da Luigi VII. Arnaldo è costretto a vagare tra Italia, Francia, Svizzera, Germania e Boemia, prima di rientrare a Roma nel 1145, dopo aver ottenuto il perdono del pontefice Eugenio III.
Quando giunge nella Città Eterna tuttavia la situazione è cambiata: una rivolta popolare ha costretto il papa alla fuga, istituendo una municipalità (dall’effimera esistenza) retta da un patricius, a cui Arnaldo aderisce con entusiasmo.
In questo periodo le posizioni dell’attempato dissidente, che in precedenza erano riconducibili ai temi della pataria milanese contro il clero simoniaco e concubinario, si radicalizzano. Arnaldo, coinvolto sempre più nella nuova istituzione municipale, che egli pensa di rimodellare sull’esempio dei Comuni dell’Italia settentrionale, predica contro il potere temporale del papa, al quale contrappone la povertà evangelica, attirandosi la scomunica (1148). Egli cerca allora un improbabile alleato nell’imperatore, ma il papa – l’inglese Adriano IV – trova un accordo con Federico Barbarossa, il quale scende a Roma per essere incoronato e fa arrestare Arnaldo, le cui posizioni oltranziste nella municipalità risultano ormai sgradite agli stessi romani. Molti infatti, dopo l’interdetto che il papa scaglia sulla città nell’imminenza della Pasqua, temono di perdere guadagni a seguito del mancato afflusso di pellegrini. Arnaldo, dopo un sommario processo, viene arso sul rogo; le sue ceneri sono disperse nel Tevere (1155). L’uomo non si era reso conto dell’inopportunità di indebolire l’autorità papale nel delicato frangente di quegli anni: quando egli giunge a Roma nel 1145 è in procinto di essere indetta la seconda crociata (destinata a un esito fallimentare), di cui era stato massimo fautore proprio Bernardo di Chiaravalle.
La più duratura e ramificata eresia del XII secolo è quella che prende il nome da Valdesio di Lione, morto intorno al 1206 (noto anche con il nome di Pietro Valdo). La sua dottrina è incentrata sul recupero della povertà evangelica, dello spirito apostolico, del rifiuto del mondo e della ricchezza. Se si tiene conto che uno dei pilastri della Chiesa medievale, l’ordine francescano, si richiama agli stessi temi, risulta evidente quanto sia sottile la linea che separa l’ortodossia dall’eterodossia. Valdesio, dovizioso mercante di Lione, rinunciando alle ricchezze e agli agi, anticipa di pochi anni Francesco d’Assisi e per un momento sembra che la sua iniziativa possa svolgersi nell’alveo della Chiesa: nel 1179 egli, insieme ai suoi seguaci (tra cui ci sono anche delle donne), viene ricevuto a Roma nel concilio Lateranense III, che manifesta apprezzamento per il modello di vita sobrio e santo che essi propongono, ma non intende concedere l’officium praedicandi a gente non tonsurata, che sfugge a ogni controllo gerarchico. L’atteggiamento di cauto ma distaccato apprezzamento della Chiesa dura poco: nel 1184 il pontefice Lucio III emana a Verona una decretale “ad abolendam diversam haeresium pravitatem, quae in plerisque mundi partibus modernis coepit temporibus pullulare”. In questo importante documento vengono menzionate per nome e cognome le eresie condannate con la scomunica (perpetuo anathemati). L’elenco comincia con i catari, i patarini, “quelli che si facevano falsamente chiamare Umiliati o Poveri di Lione”, per concudersi con gli arnaldisti, passando attraverso altre eresie ormai dimenticate, quali quella dei Passagini e dei Giosefini.
Un rappresentante di Enrico II Plantageneto al concilio Lateranense compendia con disincantato realismo la diffidenza e il timore che suscita nella curia romana quella massa cenciosa di proletari non irreggimentati, ancorché animati da buone intenzioni: “Costoro mai hanno dimore stabili, se ne vanno a due a due a piedi nudi, vestiti di lana, nulla possedendo, ma mettendo tutto in comune come gli apostoli, seguendo nudi il Cristo nudo. Iniziano ora in modo umilissimo, perché stentano a muovere il piede, ma qualora li ammettessimo, ne saremmo cacciati” (G. Merlo Grado, Eretici ed eresie medievali, 1989).