Asino
Poemetto incompiuto in terza rima. Problematica ne è la datazione. L’unico indizio che permetta di ancorare la fluttuazione cronologica a un termine certo si ricava dalla lettera a Lodovico Alamanni, del 17 dicembre 1517:
Se [L. Ariosto] si truova costì, raccomandatemi a lui, e ditegli che io mi dolgo solo che, avendo ricordato tanti poeti, che m’abbi lasciato indreto come un cazo, e ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino.
Se ne deve dedurre che sul finire del 1517 M. lavorava al poemetto o stava per mettervi mano. Prima del chiarificatore intervento di Jean-Jacques Marchand (L’altro asino di Machiavelli, in Marco Praloran 1955-2011. Studi, a cura di S. Calligaro, A. Di Dio, 2013, pp. 27-45), veniva collegata al poemetto una battuta di M., riferita da Giuliano Brancacci a Francesco Vettori per lettera del 3 marzo 1518: «el Machiavello ci disse: a coloro [ai creditori di un tale Davide Lomellini] interverrà proprio come a me dell’Asino, che saranno condennati delle spese». M. si riferisce invece a un fatterello di vita quotidiana: lo smarrimento di un asino a lui affidato a un conoscente.
L’ipotesi che l’avvio della stesura debba essere arretrato di qualche anno, al 1514 o al 1515, e comunque non troppo oltre il fatidico 1512, è di per sé ragionevole, ma trova un limite oggettivo nel silenzio della documentazione superstite. A questa stessa obiezione va incontro la tesi di Luigi Foscolo Benedetto, il quale, affidandosi a un’impressione estetica, ritenne che l’A. avesse conosciuto due distinte fasi di composizione: al 1512, post res perditas, risalirebbero i primi cinque capitoli, «ricchi di nervi e di sangue, di scatti sdegnosi e di minacce»; al 1517 i restanti tre, giudicati invece «troppo blandamente satirici nella loro generalità convenzionale» (Benedetto 1920, pp. 20-21). In anni più recenti, questa tesi, emendata dei suoi tratti impressionistici, è stata rilanciata da Mario Martelli, il quale ha richiamato l’attenzione su alcuni indizi testuali, a suo giudizio incompatibili con una datazione esclusiva al 1517. Il più consistente di tali indizi – per il resto abbastanza labili – è la battuta antimedicea che sembra di poter cogliere ai vv. 49-54 del primo capitolo, la quale secondo lo studioso mal si converrebbe al 1517, allorché M. appare impegnato nel tentativo di recuperare favore presso i Medici, e meglio si spiegherebbe invece nel 1512, all’indomani del forzato e doloroso
allontanamento dalla vita pubblica (Martelli 1990, pp. 16-21). Senonché, come ha opportunamente pur sempre dai Medici, appena rientrati a Firenze, che allora dipendevano le sorti dell’ex segretario (Sasso 1997, p. 125).
Che la stesura dell’A. sia avvenuta in due fasi distinte resta perciò, allo stato attuale delle conoscenze, mera congettura. Così come soltanto congetturale, per la mancanza di riscontri obiettivi, risulta la ricostruzione delle cause che indussero M. ad abbandonare la stesura del poemetto. Un certo credito ha trovato la tesi, avanzata da Carlo Dionisotti, che l’interruzione dell’A. sia da porre in rapporto con l’impressione suscitata in M. dalla lettura del Furioso, di cui è documento nella citata lettera all’Alamanni (C. Dionisotti, Machiavellerie, 1980, pp. 250-51).
Ma accanto a pur plausibili motivazioni di ‘autocritica letteraria’, si potrebbero invocare, con pari legittimità, altre ragioni. Difficile per esempio sottrarsi all’impressione che, alludendo ai malumori che l’A., una volta reso pubblico, avrebbe suscitato in alcuni ambienti e ai guai che ne sarebbero potuti derivare all’autore, la battuta di M. riferita da Brancacci sottintenda una certa esitazione e forse un rallentamento dello slancio compositivo, e che pertanto la decisione di abbandonare la stesura del poemetto vada spiegata anche con un giudizio di ‘opportunità politica’, e insomma riveli l’emergere di qualche dubbio circa l’«effettiva adeguatezza della forma al fine» (Inglese 1985, p. 231). Come che sia, è plausibile che l’interruzione dell’A. non si discosti di molto dal termine cronologico (marzo 1518) fissato dalla testimonianza di Brancacci. Tanto più che nel 1518 le ambizioni letterarie di M. appaiono ormai rivolte al teatro, come provano la traduzione dell’Andria di Terenzio e la stesura della Mandragola. Ed è significativo, a tale riguardo, che il prologo della commedia erediti dal poemetto il motivo della maldicenza, venendo così a rafforzare il sospetto di prossimità cronologica tra le due opere.
Interrotto al capitolo viii – e prima che si compia la metamorfosi bestiale del protagonista – l’A. si presenta come una narrazione autobiografico-allegorica in terza rima. A fronte dell’esilità dell’intreccio (a giudicare almeno da quel che M. arrivò a comporre), l’opera non si lascia agevolmente ricondurre a una fisionomia coerente e unitaria, e comunica piuttosto l’impressione di una notevole varietà di toni e di prospettive, da cui si generano talvolta delle vere e proprie digressioni rispetto all’asse principale del racconto (così è per es. per il cap. v, cui è affidato un dolente intermezzo ‘politico-filosofico’).
Diamo in sintesi la trama: il cap. i, che funge da proemio, indica la materia dell’opera – le peripezie attraversate dal protagonista sotto la pelle di un asino – e per tramite di un apologo ne addita la genesi in una naturale (e pertanto incoercibile) inclinazione del suo autore alla maldicenza. Con il cap. ii comincia la narrazione vera e propria, ambientata nella stagione primaverile (come prescrive la retorica degli ‘inizi’). Nel giorno dell’equinozio, il protagonista si smarrisce, senza sapere come, in una selva oscura, dove incontra una giovane, «piena di beltade» (v. 49), seguita da un corteo di «innumerabili animali» (v. 56). Veniamo a sapere che quel luogo sinistro è il regno di Circe e che la donna è una sua ancella, incaricata di sorvegliare e accudire gli animali, uomini un tempo, che la maga ha mutato in bestie con la sola potenza del suo sguardo.
Al fine di sfuggire all’incantesimo di Circe, il protagonista viene esortato dalla donzella a unirsi al corteo degli animali, diretto al palazzo della maga; per far questo è costretto però ad abbandonare la posizione eretta e a procedere carponi. Nel cap. iii la fanciulla lo guida al palazzo di Circe e lo informa circa il suo destino: i fati lo hanno colpito con particolare durezza, ma questa sofferenza non è senza termine e un giorno egli sarà di nuovo felice. Perché ciò accada è necessario tuttavia – così la provvidenza ha decretato – che egli si muti in asino e sotto questa nuova pelle giri per il mondo («gir ti conviene / cercando il mondo sotto nuova pelle», vv. 116-17). Prima che la metamorfosi si compia, gli è nondimeno concesso di trattenersi «alquanto tempo» nel regno di Circe, per prendere esperienza di quel luogo. Il cap. iv si apre con una fiera dichiarazione del protagonista, che si dice pronto a sostenere quel che la fortuna gli ha riservato.
L’ancella lo ricompensa con parole di caldo elogio; quindi lo invita alla sua tavola, affinché possa ristorarsi. Il resto del capitolo è occupato da un vivace intermezzo erotico – preceduto dalla convenzionale descriptio delle bellezze della donna – nel quale il protagonista rievoca sapidamente la notte di piacere trascorsa in compagnia della fanciulla. Nel cap. v vediamo la donna uscire dal palazzo, sul fare del giorno, per condurre al pascolo gli animali a lei affidati.
Il protagonista, rimasto solo, si abbandona a una lucida e dolente meditazione sul «variar de le mondane cose» (v. 36) e sulle cause che conducono gli Stati alla rovina, intrecciando vicissitudine individuale e dramma storico-politico. Con il cap. vi riprende il filo della narrazione. La mandriana fa rientro al palazzo e mostra al protagonista il luogo in cui le bestie vivono e quello in cui esse vanno «a diportarsi», che il narratore paragona al «Mallevato», il settore delle Stinche (il carcere di Firenze) riservato al passeggio dei detenuti ai quali era concessa una pena più mite.
Sopra la porta della stanza adibita allo svago delle fiere sta un «simulacro»: esso raffigura, scolpito nel marmo, il trionfo di un poeta coronato d’alloro e issato sulla groppa di un elefante. Costui, avverte la guida, è il «grande abate di Gaeta» (v. 118), poeta e buffone della corte di Leone X. Il cap. vii mostra l’incontro dei due con una serie di animali, sotto le cui sembianze si celano, trasfigurati nella nuova condizione, personaggi importanti del tempo, che il protagonista è invitato a riconoscere. L’viii e ultimo capitolo, infine, è occupato per intero dal discorso di uno degli animali di Circe, un porco, che proclama con orgoglio la superiorità della condizione dei bruti su quella degli uomini e giustifica con ciò il suo rifiuto di recuperare lo stato originario. Su questo vibrante elogio della vita bestiale l’opera s’interrompe o per meglio dire si esaurisce: è evidente infatti che l’esito cui approda il discorso del «fangoso animale» toglie forza e necessità all’annunciata metamorfosi del protagonista, provocando, si può presumere, l’arresto del meccanismo narrativo.
Ridotto ai termini elementari, l’A. è dunque (o avrebbe dovuto essere) il resoconto del viaggio iniziatico che sotto forma di asino il protagonista intraprende per volontà dei fati, onde redimere sé stesso da una condizione di infelicità e di afflizione spirituale (non è chiaro quanto colpevoli). Evidente la doppia ascendenza dello schema narrativo, che incrocia il motivo della metamorfosi asinina, proveniente dalle Metamorfosi di Apuleio – di cui è nota la fortuna letteraria (→ Beroaldo, Filippo, il Vecchio) e iconografica tra XV e XVI secolo (M. Acocella, L’Asino d’oro nel Rinascimento. Dai volgarizzamenti alle raffigurazioni pittoriche, 2001) – con l’idea dantesca del viaggio salvifico.
Apuleio e Dante sono in effetti i due grandi modelli a partire dai quali M. imbastisce l’ordito della vicenda, che ha inizio appunto con lo smarrimento del protagonista in un luogo oscuro, erede della selva dantesca (donde i numerosi prelievi lessicali dal I dell’Inferno, frammisti qua e là a echi del Corbaccio:
Martelli 1990, p. 23). La duplicità dell’influsso si ripercuote sulla costruzione dei personaggi. Nel protagonista, prima di tutto, a metà tra Lucio e il viator della Commedia; ma anche, e con maggior estro, nella figura della donna, che al tratto nobile e severo della guida dantesca (ora Beatrice ora Virgilio) unisce quelli plebei e sensuali dell’ancella apuleiana Fotide.
Alla contaminazione dei modelli letterari consegue una certa varietà nelle scelte stilistiche. Il dato si avverte particolarmente nel capitolo iv, nel quale il graduale abbassamento del tono poetico, che dalle altezze di una reminiscenza dantesca («Alma discreta, / questo viaggio tuo, questo tuo stento / cantato sia da
istorico o poeta», vv. 16-18) scende al livello del sermo cotidianus:
e detto questo, una sua tovaglietta / apparecchiò su un certo desco al fuoco. / Poi trasse d’uno armario una cassetta, / dèntrovi pane, bicchieri e coltella, / un pollo, una insalata acconcia e netta, / e altre cose appartenenti a quella (vv. 26-31),
illumina stilisticamente la metamorfosi della donna da guida sapienziale a spigliata e intraprendente protagonista del duetto erotico conclusivo, ispirato all’avventura tra Lucio e la servetta Fotide narrata nel II delle Metamorfosi.
In termini generali, va osservato che la deformazione satirica di temi e figure della Commedia è un tratto peculiare dell’A., come ha mostrato Sasso. Riflesso in parte della linea comico-burlesca che percorre la poesia toscana del Quattrocento – si pensi alle parodie dantesche del Morgante –, tale deformazione dipende anche, più intrinsecamente, da una naturale (e ben attestata) reattività del pensiero machiavelliano al fondamento ideologico e religioso del poema dantesco, oggetto peraltro di profonda ammirazione sul piano artistico (→Dante). In questa prospettiva dunque, e non come puro e semplice rovesciamento comico, va letta la profanazione di alcuni momenti supremi del viaggio oltremondano: così è per esempio per la visione beatifica che occupa gli ultimi canti del Paradiso, il cui lessico, di matrice mistica e teologica, subisce nella ripresa machiavelliana una violenta torsione dal senso religioso e spirituale a quello sensuale e concreto, passando a denotare il picco di piacere raggiunto dai due giovani amanti al culmine del loro amplesso:
E pien di gesti e parole amorose, / rinvolto in quelle angeliche bellezze / che scordar mi facean l’umane cose, / intorno al cor sentii tante allegrezze / con tanto dolce, ch’io mi venni meno / gustando il fin di tutte le dolcezze, / tutto prostrato sopra il dolce seno (iv, vv. 136-42).
Accanto a quella di Dante e di Apuleio, si registra nell’A. la presenza di altri autori, classici e volgari (con preferenza per Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e Luigi Pulci). Tra le fonti classiche, spicca il dialogo di Plutarco Bruta animalia ratione uti, noto popolarmente come Grillo, dal nome del personaggio principale (che suppone il gr. grýzein, «grugnire»). L’episodio dell’incontro del protagonista con il porco, alla fine del cap. vii, e il discorso con il quale, nel capitolo seguente, egli argomenta la superiorità della condizione bestiale su quella umana e con ciò motiva il sua indisponibilità a tornare «alla forma antica», non è in effetti che una riscrittura, molto abbreviata, dell’opuscolo greco. L’esiguità dei contatti testuali diretti (puntualmente registrati nell’ed. di Giovanni Indelli del dialogo, Le bestie sono esseri razionali, 1995, pp. 120, 122, 128, 133-34) non consente di formulare ipotesi sul testo del quale M. si è servito; merita però d’essere segnalata la versione latina quattrocentesca tradita dal ms. 665 della Biblioteca Casanatense di Roma (cc. 56r-62v), sebbene nulla provi che essa sia di mano di Leonardo Bruni, come ritenne invece Oreste Tommasini (1911, p. 327, nota 3).
L’azione del dialogo plutarcheo si svolge sull’isola di Circe: in un breve scambio di battute iniziale Odisseo (il campione della razionalità) chiede alla maga di ridare forma umana ai compagni di lui mutati in fiere. La maga acconsente, a patto che l’eroe riesca a convincerli della superiorità della condizione umana su quella animale. A tal fine ella concede la parola a un greco trasformato in maiale, assegnandogli l’evocativo nome di Grillo. Con ragionamenti da «abile sofista», Grillo rovescia l’opinione comune circa la superiorità etica e razionale dell’uomo sulla bestia. Il fulcro dell’argomentazione, di carattere paradossale, sta infatti nel dimostrare che virtù tradizionalmente considerate esclusive dell’essere umano (senno, coraggio e temperanza) sono in verità possedute a un grado più alto e spontaneamente dai bruti, sicché più lieta e fortunata è la loro condizione: di qui il rifiuto, da parte del maiale, di recuperare la forma originaria.
Rispetto alla fonte, la riscrittura machiavelliana è assai più concisa e presenta alcune varianti non trascurabili, soprattutto nella presentazione degli argomenti (Sasso 1997, pp. 129 e segg.). La novità maggiore è costituita tuttavia dall’innesto, sulla fonte principale, di ampi lacerti dal capitolo i del libro VII della Naturalis historia di Plinio, che tratta il medesimo tema ma con toni più elegiaci, lamentando la naturale fragilità dell’uomo, afflitto da innumerevoli bisogni e fin dalla nascita votato al pianto («flens animal»). Argomenti che M. ha tradotti alla lettera ai vv. 121 e segg. Con questo colpo inferto al mito della supremazia dell’uomo sugli altri viventi, l’ultimo capitolo dell’A. sembra proiettare il poemetto in una dimensione ideologica venata di antiumanesimo; non del tutto prevedibilmente, deve aggiungersi, se si pensa che nel capitolo iii l’imbestiamento del protagonista è presentato piuttosto nei termini di una regressione, ancorché provvidenziale. D’altra parte, come già detto, l’A. si sottrae a un’interpretazione unitaria.
In generale, la tonalità di fondo dell’operetta si pone, per ammissione stessa dell’autore, sotto il segno di un’irritazione malinconica, tendente a risolversi, per sfogare sé stessa, in scatto aggressivo. Tale in effetti è l’impulso a «dir male», la deprecazione dei guasti del mondo, che nel capitolo proemiale M. indica come la cifra autentica del poema. Più esattamente, la vocazione maledica dell’opera è presentata come il riflesso della naturale (e dunque incoercibile) inclinazione del suo autore al rilievo caustico e alla parola risentita. L’illustrazione di questo punto, che riporta a uno dei nuclei del pensiero machiavelliano (l’impossibilità di mutar natura), è affidata a un apologo (una ‘novella’), il cui significato strutturale è analogo a quello della celebre novelletta delle papere, raccontata da Boccaccio nel proemio della IV giornata del Decameron (Anselmi, Fazion 1984, pp. 47-48). Comune alle due novelle è in effetti l’intento di assolvere l’autore da un’inclinazione che gli viene contestata come viziosa (l’eccessivo amore per le donne in Boccaccio, la maldicenza per M.), rivendicando la radice naturale di tale inclinazione (irresistibile e pertanto innocente).
Originale è tuttavia il modo in cui M. sviluppa e rielabora lo spunto boccacciano. Protagonista dell’apologo è un giovane affetto da una irrefrenabile smania di correre. Dopo aver tentato inutilmente vari rimedi, il padre lo mette nelle mani di un medico (cade qui la pungente battuta contro la «setta» dei medici, che oltre a rinnovare il tradizionale attacco a una casta professionale sovente presa di mira dagli scrittori, cela forse un significato politico). Per quanto banali, le cure prescritte sembrano avere il successo sperato. Il giovane è apparentemente guarito e il medico può così rendere «per sano al padre il suo figliolo» (v. 62), con la raccomandazione però di non lasciarlo mai uscire da solo per i quattro mesi successivi e, ove vedesse il giovane di nuovo inquieto, di richiamarlo al senso del dovere e dell’onore. Per circa un mese, vegliato dai fratelli, il giovane si mantiene «onesto» e «saggio», «di riverenza pieno e di timore» (v. 72). Finché un giorno, capitato per caso nella via de’ Martelli, all’incrocio con la via Larga, egli sente montare nuovamente dentro di sé, alla vista di quella strada «dritta e spaziosa», il desiderio della corsa. E rotto ogni indugio, si abbandona con foga e voluttà all’«antico piacere», non senza prima aver reso omaggio, con una battuta dal tono irriverente, alla vittoria definitiva della Natura sulla Morale (identificata con la legge di Cristo):
Non si poté questo giovin tenere, / vedendo quella via dritta e spaziosa, / di non tornar ne l’antico piacere; / e, posposta da parte ogni altra cosa, / di correr gli tornò la fantasia, / che mulinando mai non si riposa; / e giunto in su la testa de la via, / lasciò ire il mantello in terra, e disse: / – Qui non mi terrà Cristo; – e corse via (vv. 76-84).
E da quel momento in poi, così termina l’apologo, il giovane non smise più di correre, «tanto che ’l padre si perdè la spesa / e ’l medico lo studio che vi misse» (vv. 86-87). Il succo della storiella è chiaro, ed è dato da M. sotto forma di sentenza: «la mente nostra, sempre intesa / dietro al suo natural, non ci consente / contr’abito o natura sua difesa» (vv. 88-90), ossia: è vano sperare di resistere a un impulso naturale (o alle abitudini radicate in esso), contro il quale la ragione («la mente nostra») non può nulla. Morale per certi versi analoga a quella che dalla novelletta di Filippo Balducci aveva tratto il Boccaccio, commentando che a voler contrastare le leggi della natura, «troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano» (Decameron IV, introduzione, § 41). Appellandosi allo stesso principio, M. dichiara la sua impossibilità di astenersi, come si era illuso di poter fare, dall’esercizio della critica mordace e dalla polemica contro i guasti del mondo. Il tempo presente, non mostrando che miserie e scelleratezze, ha infatti risvegliato in lui, e con maggior furia, l’istinto alla maldicenza, nello stesso modo in cui la via irresistibilmente «dritta e spaziosa» aveva riacceso nel giovane della novella, apparentemente guarito, il desiderio della corsa. È svelata con ciò l’intenzione dell’operetta, che si presenta come la denuncia, acre e risentita, ma necessaria e incoercibile, di una condizione storica di decadenza («questo tempo dispettoso e tristo», v. 97). L’asino, al quale per quanto ci si sforzi di farlo desistere, non si può impedire di ragliare o di tirar calci, perché a ciò lo obbliga la sua natura, non è altro dunque che un doppio fantastico dell’autore:
E l’Asin nostro, che per tante scale / di questo nostro mondo ha mosso i passi, / per lo ingegno veder d’ogni mortale, / se bene in ogni luogo si osservassi / per le sue strade i suoi lunghi cammini, / non lo terrebbe il ciel che non ragghiassi (vv. 103-108).
In concreto, la vena ‘maledica’ dell’A. si esprime nei capp. vi e vii, ove la satira colpisce personaggi eminenti del tempo. L’unico esplicitamente nominato è il «grande abate di Gaeta», la cui effigie marmorea, che lo ritrae in comico trionfo sulla groppa di un elefante il giorno della sua laureatio poetica, troneggia sulla porta del «Mallevato» (la stanza adibita al diporto delle fiere) e da lì ammonisce contro la vanità umana. Si tratta di un versificatore e buffone di corte, il Baraballo, o Baraballi, che Leone X, che lo aveva caro, laureò poeta, per burla, il 27 settembre 1514 e fece sfilare tra il popolo issato su di un elefante; e così volle fosse immortalato in un tarsia lignea, opera forse di Giovanni Barile, poi sistemata sulla porta di uno dei suoi appartamenti (Inglese 1985, pp. 236-37).
Quanto invece al riconoscimento dei personaggi che, sotto sembianze di vari animali, il protagonista incontra nel cap. vii, non si va oltre impressioni e congetture (cfr. Inglese 1985, pp. 233-35). Pochissime le identificazioni affidabili: Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, che i più vogliono raffigurato nell’animale dai «delicati velli» (un ariete?), dei vv. 46 e sgg.; Piero Soderini, che par certo sia adombrato dal «cervio [...] che temeva forte» (v. 88), dato che un cervo era raffigurato nello stemma del suo casato; Luigi Guicciardini, alla cui identificazione con l’asino «mal disposto» dei vv. 70-72 orienta una tarda testimonianza di Giovan Battista Busini (cit. in Tommasini 1911, p. 329). Per il resto, si può soltanto aggiungere che i vv. 52-57, censurati dall’editore (non resta che un «Vidi...» in triplice anafora), alludevano con molta probabilità a potenti della curia romana, e forse allo stesso papa Leone X.
Più svincolata dalla contingenza mondana, e dunque meno riferibile al programma satirico, appare invece la meditazione sul «variar delle mondane cose» che impegna il personaggio principale per tutto il capitolo v, che ha carattere di una pausa ragionativa (ancora sul modello dantesco) all’interno della narrazione.
Movendo dalla considerazione della propria vicenda, il punto di osservazione del protagonista si dilata fino a contemplare, malinconicamente, le cause che conducono gli organismi politici alla dissoluzione.
Arieggiano qui, e in dimensione per così dire cameristica, temi e motivi dei Discorsi: l’ambizione, che spinge i potenti al rovinoso accrescimento del loro dominio (vv. 39-75, con il caso esemplare di Venezia), la necessità di buone leggi e di buoni ordini per contrastare gli assalti della Fortuna (vv. 6-78), l’idea che la vita degli Stati, come la vita degli uomini, è regolata da un ritmo perenne e inesorabile di ascesa e di declino, obbediente a una legge universale («quest’ordine così permette e vuole / chi ci governa, acciò che nulla stia / o possa star mai fermo sotto ’l sole», vv. 100-02), infine la stoltezza di chi ritiene che a reggere uno Stato basti la religione, pure utile come strumento di coesione sociale («ma non sia alcun di sì poco cervello, / che creda, se la sua casa ruina, / che Dio la salvi senz’altro puntello; / perché e’ morrà sotto quella ruina», vv. 124-27). Considerazioni che mostrano bene lo squilibrio, che a un certo punto sarà apparso insostenibile, tra l’esilità del mezzo espressivo – il poemetto satirico in terza rima – e la robustezza delle questioni strutturali affiorate in esso.
Come per altre opere machiavelliane, l’autografo dell’A. è andato perduto. L’unica fonte utile alla restituzione del testo è perciò la stampa fiorentina del 1549 (Bernardo Giunti), basata sull’autografo allora in possesso di Guido Machiavelli. Quanto al titolo, la princeps tramanda quello di Asino d’oro, per evidente suggestione del modello apuleiano, e con questo titolo l’operetta è stata edita nel 1920 da Luigi Foscolo Benedetto. Più probabile tuttavia che il titolo genuino fosse, semplicemente, Asino: così l’autore chiama infatti il poemetto nella citata lettera all’Alamanni del 1517; ciò ha indotto i più recenti studiosi ed editori del testo a privilegiare, tra le due forme concorrenti, quella più breve (con o senza articolo determinativo espresso).
Bibliografia: N. Machiavelli, L’Asino, a cura di A. Corsaro, in Id., Edizione nazionale delle Opere, III. Opere letterarie, 2° vol., Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, Roma 2013, pp. 129-93.
Per gli studi critici si vedano: U. De Maria, Intorno ad un poema satirico di Niccolò Machiavelli, Bologna 1899; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2° vol., Roma 1911, pp. 324-32; L.F. Benedetto, introduzione a N. Machiavelli, Opere satiriche, Torino 1920, pp. 20-29; D. Consoli, Echi danteschi nell’Asino del Machiavelli, «L’Alighieri», 1969, 2, pp. 12-23; G. Paparelli, Feritas, Humanitas, Divinitas. L’essenza umanistica del Rinascimento, Napoli 1973, pp. 184-87; G. Ferroni, Appunti sull’Asino, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, 2° vol., Roma 1975, pp. 313-45; G.M. Anselmi, P. Fazion, Machiavelli, l’Asino e le bestie, Bologna 1984; G. Inglese, Postille machiavelliane, «La cultura», 1985, 23, pp. 230-37; M. Martelli, Per un dittico machiavelliano, introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor, L’Asino, a cura di M. Tarantino, Roma 1990, pp. 7-42; F. Di Legami, La maschera della ragione. L’Asino di Niccolò Machiavelli, Caltanissetta-Roma 1996; M. Tarantino, L’Asino e la satira politica, in Niccolò Machiavelli. Politico storico e letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 131-36; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 39-152; P. Sabbatino, Nei luoghi di Circe. L’asino di Machiavelli e il Cantus Circaeus di Bruno, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 553-96; B. Kuhn, Circe und Fortuna: Machiavellis Asino, in Id., Mythos und Metapher: Metamorphosen des Kirke-Mythos in der Literatur der italienischen Renaissance, München 2003, pp. 354-419; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 143-52; A. Corsaro, Nota introduttiva a N. Machiavelli, L’Asino, in N. Machiavelli, Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, Roma 2013, pp. 131-38.