ASIA (IV, p. 839; App. I, p. 170; II, 1, p.274; III, 1, p. 150)
Il termine Asia e il suo contenuto attuale. - Negli anni più recenti, caratterizzati da una sempre maggiore differenziazione umana delle diverse parti costitutive del continente, nel campo delle scienze sociali il termine Asia è stato usato con significati tutt'altro che uniformi: è stato cioè utilizzato non più - come nelle scienze naturali - per indicare l'estensione complessiva del continente nei suoi confini fisici tradizionali, bensì soltanto determinate parti di esso, varie secondo i diversi autori o i diversi enti. Ormai tradizionale - sulla base dell'uso degli ultimi trent'anni - è divenuta l'esclusione dall'A. della porzione del continente appartenente all'URSS. Nelle statistiche compilate nei paesi del campo capitalistico, dall'A. vengono solitamente esclusi gli stati socialisti del continente. È questo il caso, per esempio, dell'Economic Commission for Asia and the Pacific, organismo dell'ONU, per il quale inoltre l'A. non comprende i paesi situati a O dell'Afghanistan. Anche la suddivisione del continente in grandi regioni economico-sociali-politiche non è uniforme nelle varie fonti. Il termine Asia ha finito insomma negli ultimi anni per indicare (nel campo delle scienze sociali) di preferenza quelle regioni e quei paesi di capitalismo periferico che si può giustamente ritenere siano rimasti per le loro caratteristiche umane i più tipicamente asiatici: l'A. meridionale (il subcontinente indiano) e l'A. di sud-est (va notato che l'A. orientale - o estremo-orientale - che un tempo presentava le medesime accentuate caratteristiche, se ne va oggi sempre più staccando: fatto ormai in gran parte compiuto per il Giappone, in corso per la Cina e gli altri paesi socialisti). A. meridionale e A. sudorientale sono ancor oggi regioni di grandi masse contadine, accalcate con densità grandissime nelle più o meno ampie zone adatte alla coltivazione dei cereali (in primo luogo il riso), ancora in buona parte attanagliate da strutture economico-sociali oppressive, dall'arretratezza tecnica, dalla fame, dalle malattie, dall'analfabetismo.
In questa sede - anche per il necessario collegamento con le informazioni precedenti - considereremo l'A. nei suoi confini fisici tradizionali, con l'esclusione peraltro della porzione appartenente all'URSS. Date tuttavia le grandi differenziazioni umane che il continente presenta, le informazioni generali relative all'A. nel suo complesso (intesa sempre senza la parte asiatica dell'URSS) - informazioni che le forti differenziazioni rendono un'"astrazione statistica" com'è stato scritto - saranno nei limití del possibile seguite da specificazioni relative a entità territoriali minori (stati o loro raggruppamenti).
Per quanto riguarda le differenziazioni del continente A., sembra indubbio che la realtà di base sia costituita dagli stati esistenti. Altrettanto indubbio sembra che l'elemento principale di differenziazione tra i diversi stati sia tuttora costituito dal modo di produzione. In base a tale criterio si distinguono nell'A. contemporanea tre principali campi, costituiti dagli stati che sono caratterizzati rispettivamente dal modo dì produzione socialista, da quello capitalista "centrale" e da quello capitalista "periferico".
Appartengono al primo campo la Cina, la Mongolia, la Corea del nord e il Vietnam. Si tratta di paesi che sono usciti dal campo del capitalismo periferico soltanto nel secondo dopoguerra (con l'eccezione della Mongolia, 1924). Soltanto uno di essi - la Corea del nord - è riuscito a trasformarsi in un paese industrializzato. I rimanenti, nonostante i notevoli sforzi compiuti, conservano ancora - sia pure a livelli e in forme notevolmente diversi - un certo numero di caratteristiche negative del capitalismo periferico, in primo luogo la tipica struttura economica sottosviluppata. Cercano di uscirne mediante la pianificazione socialista, ispirata al principio di "basarsi sulle proprie forze" e di avere come fondamento l'industrializzazione socialista (partendo cioè dall'industria pesante), strettamente collegata allo sviluppo agricolo. Accanto al campo socialista si possono collocare Cambogia e Laos (come probabile tendenza, dato che il loro abbandono del campo del capitalismo periferico è recentissimo, 1975).
Al settore capitalista continua ad appartenere il resto dell'A.: ma il capitalismo centrale ha ancor oggi due soli rappresentanti, ai due estremi del continente: il Giappone e Israele. Questi stati presentano le caratteristiche economiche dei paesi capitalisti sviluppati. Il grosso dei paesi asiatici continua dunque a essere costituito da paesi capitalisti periferici, caratterizzati - pur nell'enorme diversità delle singole situazioni - dagli elementi negativi tipici di tali paesi. Oggi solo esigui lembi d'A. costituiscono vere e proprie dipendenze coloniali: la colonia britannica di Hong-Kong (1034 km2) - una colonia, del resto, che ben si potrebbe definire 'neocoloniale' -, la provincia d'oltremare portoghese di Macao (16 km2), il protettorato britannico di Brunei (5765 km2). Il resto dei paesi in via di sviluppo ha riacquistato l'indipendenza politica (gli ultimi nel decennio 1960-70), ma le conseguenze del neocolonialismo condizionano in gran parte ancor oggi la vita economica di tali stati.
Caratteristica comune di pressoché tutti questi paesi è la struttura squilibrata dell'economia, con una prevalenza del settore primario o del settore terziario - cui segue rispettivamente un grosso settore terziario o primario - con una scarsa, e talora scarsissima, presenza di quello secondario. Tale situazione non è altro che la continuazione in forma diversa di quella del periodo coloniale, quando i paesi asiatici erano per la maggior parte soggetti, a vario titolo, alle potenze coloniali europee o agli SUA, e fungevano soprattutto da fornitori di materie prime agricole o minerarie, e da acquirenti di taluni prodotti manifatturati delle potenze dominatrici. Le possibilità di superare tale situazione - nel quadro politico-istituzionale attuale - non sono molte, dato che tali paesi continuano a far parte del sistema capitalistico mondiale, in funzione subordinata. Lo testimonia, fra l'altro, l'evoluzione che proprio la struttura economica di tali stati ha presentato nell'ultimo decennio.
Sono stati proposti vari raggruppamenti degli stati asiatici aventi caratteristiche abbastanza omogenee. Dei raggruppamenti elaborati dagli organismi internazionali, utilizziamo qui quello che sembra esprimere meglio le effettive diversità del continente:
1) paesi socialisti; 2) Cina (che viene considerata a parte, per le sue eccezionali dimensioni); 3) Giappone; 4) Israele; 5) A. sudoccidentale (Cipro, Turchia, stati arabi, Iran, Afghanistan); 6) A. meridionale (India, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka); 7) A. sudorientale (Birmania, Thailandia, Malaysia, Singapore, Indonesia, Filippine, con l'appendice di ciò che resta dell'A. estremo-orientale: Corea del sud e Hong Kong).
Per quanto riguarda il periodo di tempo cui si fa riferimento in questa sede, esso è costituito teoricamente dal quindicennio 1960-75; ma data la frequente difficoltà di avere a disposizione dati statistici per gli anni più recenti, ci si dovrà limitare il più delle volte al decennio 1960-70 (decennio del resto assai significativo per i paesi in via di sviluppo, in quanto proclamato dall'ONU "primo decennio di sviluppo").
Geografia fisica.
L'approfondimento della conoscenza scientifica dell'ambiente naturale dell'A. e delle sue risorse è continuato e si è arricchito nell'ultimo quindicennio grazie alla creazione di nuovi centri di osservazione, di moderni e meglio forniti istituti di ricerca, dove spesso hanno cominciato ad agire studiosi e ricercatori indigeni, nonché alla disponibilità (extraasiatica) di migliori strumenti tecnici (per es. rilevamento dati, osservazioni e fotografie dai satelliti artificiali).
Importante è stato anche il lavoro di alcuni enti di ricerca creati congiuntamente da più paesi, nonché di altri centri, emanazioni di organizzazioni internazionali: essi hanno effettuato ricerche e prodotto diversi studi, per progetti sia pure molte volte rimasti sulla carta (per es., gli studi per il progetto di utilizzazione complessa del Mekong). Molti degli elementi raccolti sono stati, in anni diversi, esposti sistematicamente negli atlanti nazionali che alcuni stati asiatici sono riusciti a darsi. Particolarmente intenso è stato il lavoro di conoscenza dell'ambiente naturale nei paesi socialisti - per la necessità di una pianificata utilizzazione delle risorse naturali. Esso si è finora estrinsecato in prospezioni geologiche di zone sempre più ampie del territorio nazionale; nell'avvio di censimenti il più possibile dettagliati dei suoli dei paesi stessi e nello studio ex-novo o completato o più approfondito delle regolarità e dei bilanci dei principali elementi naturali (per es., caratteristiche climatiche; regimi idrologici dei fiumi e deflusso idrico generale; cicli vegetativi delle principali piante e loro possibilità di acclimatazione in regioni diverse da quelle di diffusione attuale). L'URSS ha contribuito in misura cospicua allo studio delle condizioni naturali di numerosi paesi asiatici, socialisti o no.
Fra gli altri risultati, merita di essere ricordata la definitiva conferma delle teorie di N. I. Vavilov (elaborate già negli anni Trenta) che hanno stabilito nell'A. ben 4 (su 8) dei focolai mondiali di origine delle piante coltivate, tra cui quello più antico del globo (A. sudoccidentale). Per i paesi socialisti, summa delle conoscenze acquisite fino all'anno 1964 si può considerare l'eccellente Fiziko-geografičesckij atlas mira ("Atlante di geografia fisica del mondo") pubblicato nell'URSS. Molte informazioni, peraltro, non sono mai state pubblicate per motivi strategico-militari (così, per es., la Cina non pubblica dati assoluti dal 1960 e non consente più l'invio all'estero di carte geografiche a grande scala). Per questo motivo è, per es., difficile farsi un'idea precisa delle "frange pioniere" agricole che sembrano aver avuto, e avere, notevole importanza soprattutto in Cina.
Nei paesi in via di sviluppo gli unici elementi che sono stati veramente ben studiati risultano essere le principali risorse naturali sfruttate o sfruttabili dai paesi capitalisti avanzati o dai capitalisti indigeni.
Si è così stabilito, per es., che l'A. contiene il 60% delle riserve petrolifere mondiali (praticamente concentrate nell'A. sudoccidentale), il 10% delle riserve di tutti i combustibili solidi, il 36% dell'energia idraulica potenziale, il 20% delle riserve di legname. Nell'A. sudorientale mediante accurate prospezioni (anche sulla piattaforma continentale) si sta cercando di stabilire la consistenza delle riserve dei minerali di stagno; nelle zone desertiche la consistenza delle falde idriche. Le prospezioni condotte in molti paesi asiatici e nei mari circostanti hanno comportato il ritrovamento di numerosi, e talvolta cospicui, giacimenti di minerali diversi (India, Pakistan, Iran, Indonesia, Birmania, Malaysia, mar Rosso, Golfo Arabico). Particolarmente interessante il petrolio sottomarino scoperto nel Mar Cinese meridionale. Nulla di simile è stato fatto per le risorse agrarie, neppure in occasione di stimoli internazionali (come per es. i censimenti agricoli mondiali promossi dalla FAO nel 1960 e attorno al 1970). Ciò pregiudica, fra l'altro, in modo gravissimo la possibilità di stabilire scientificamente in che misura sia possibile un ulteriore allargamento delle aree agricole in Asia.
Per quanto riguarda le modificazioni spontanee di elementi naturali, è continuata la diminuzione del livello del mar Caspio. Negli ultimi anni, il suo livello è diminuito in media di 7 cm all'anno: il livello attuale oscilla attorno a −28,5 m. La baia-laguna di Kara-Bogaz-Gol, separata dal Caspio da un istmo intagliato da un passaggio, dal quale entrano in continuazione a cascata (1 m3/sec) le acque, si trova oggi 4,5 m più in basso del Caspio. Nelle isole Bonin (od Ogasawara) si è formata una nuova isola vulcanica (Nishino). Per quanto riguarda l'ipotesi - sostenuta da studiosi occidentali - del progressivo disseccamento dell'A. centrale, sembra che essa sia stata definitivamente scartata dagli studiosi sovietici.
Assai più ricco il quadro per quanto riguarda le modificazioni antropogene di elementi naturali. Le più cospicue sono probabilmente quelle relative a fiumi e laghi.
La costruzione di impianti idroelettrici ha dato origine a numerosi nuovi laghi (artificiali). Al primo posto è la Cina, dove si contavano (ancora nel 1966) un lago artificiale di oltre 900 km2, 3 di oltre 500, e una decina con un'area superiore a 200 km2. Tra i paesi in via di sviluppo, ricordiamo in Siria un lago artificiale di oltre 800 km2, nell'India uno di oltre 450 km2; nel Pakistan e nel Bangladesh uno ciascuno di oltre 250 km2; nell'Afghanistan uno di oltre 100; in Persia tre di oltre 50. Tra le grandi dighe va menzionata almeno quella di Tarbela, sull'Indo, 140 km a NE di Rawalpindi (Pakistan).
Cospicui, nei paesi socialisti, anche gl'interventi per le arginature e, più in generale, per le opere di miglioria dei corsi d'acqua fluviali. Quest'azione è stata particolarmente importante ed estesa in Cina e nel Vietnam settentr. In Cina il rifacimento e il miglioramento di decine di migliaia di chilometri di argini, iniziato dopo il 1949, è probabilmente continuato a un ritmo sostenuto. Nel Vietnam del Nord negli anni dell'aggressione statunitense (1964-1972) sono stati ricostruiti o riparati nel delta del Fiume Rosso centinaia di chilometri di argini. Grandi estensioni hanno raggiunto anche le zone rimboschite, in primo luogo in Cina, dove la loro superficie è estesa quanto la metà di quella di tutte le terre coltivate. Notevoli arginature di terreni costieri, allo scopo di difenderli dalle inondazioni delle acque marine, sono state realizzate nel Vietnam del nord e nel Bangladesh. In quest'ultimo paese lungo il fronte del delta del Gange sono stati costruiti circa 400 km di argini (alti 3-5 m), che hanno creato 92 polder e difendono oltre 1 milione di ettari di colture. Grandi estensioni hanno raggiunto le terre irrigue, pari ormai a un buon terzo delle terre coltivate. Ridotte in parecchi paesi, raggiungono in alcuni percentuali assai cospicue: Cina 88%, Giappone 56, Iraq 53, Iran 45, Pakistan e Bangladesh 42, Israele 38, India e Indonesia 27.
Per quanto riguarda, infine, i danni antropogeni recati a elementi dell'ambiente naturale, alcuni continuano da tempo immemorabile, altri si sono presentati o aggravati di recente, come conseguenza dello sviluppo delle forze produttive o di una loro più intensa applicazione. Tra i secondi si possono ricordare: il gravissimo inquinamento atmosferico e idrico delle maggiori zone urbane (industriali) del Giappone, e delle acque marine circostanti, che sembra essere il più acuto del mondo; l'inquinamento atmosferico nella zona del Golfo Arabico determinato dalla continua combustione del gas naturale che accompagna il petrolio ivi estratto; l'eccessiva salinità determinatasi in alcuni tipi di terreni sottoposti a irrigazione in diversi paesi, tra cui la Cina. Va aggiunto che nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo l'inquinamento non costituisce un problema in quanto viene puramente e semplicemente ignorato.
Le più gravi forme d'inquinamento che mai siano state realizzate volutamente dall'uomo sono peraltro quelle che si sono registrate nel Vietnam del sud durante gli anni dell'intervento statunitense. Vaste estensioni di foreste sono state bruciate con il napalm; zone ancora più estese di foreste e di terreni coltivati sono state private, sostanzialmente, di ogni forma di vita vegetale (e quindi animale) mediante un'abbondantissima diffusione -dagli aerei - dei cosiddetti "defoglianti", in realtà sostanze altamente tossiche per qualsiasi forma di vita. Un ulteriore danneggiamento apportato alla natura del vietnam del sud è costituito dai numerosissimi grandi crateri (si sono calcolati in circa 30 milioni, con una profondità di almeno 10 m) che i bombardamenti statunitensi hanno lasciato in gran parte delle zone abitate del paese. Troppo fondi per poter essere colmati, molti si sono trasformati in pozze d'acqua stagnante, dando luogo a una recrudescenza o a una ricomparsa della malaria.
Geografia della popolazione e delle sedi.
In A. vivono oggi, in base alla valutazione più recente (1972), oltre 2 miliardi di uomini. Essa continua a rimanere così il continente che contiene il maggior numero di abitanti, oltre la metà del totale mondiale (55% nel 1960, 56% nel 1970, 57% nel 1972). Fra il 1960 e il 1970 la popolazione asiatica è aumentata in media annualmente del 2,3% con un tasso d'incremento superiore a quello mondiale, che è stato del 2% (Europa: 0,8%). Da tale media complessiva si discosta in misura cospicua soltanto uno dei due paesi capitalisti sviluppati, il Giappone, con un tasso tipico della sua categoria (1,1%), mentre Israele presenta un tasso addirittura del 3,3% (dovuto peraltro prevalentemente all'immigrazione). Secondo stime attendibili, anche la Cina avrebbe raggiunto un tasso d'incremento tipico dei paesi sviluppati, cioè l'1-1,5%. I massimi d'incremento sono stati registrati, fra l'altro, nell'A. sudorientale e in quella meridionale, le regioni cioè nelle quali si concentra oltre metà della popolazione asiatica, con densità fra le maggiori del mondo, e una proporzione di popolazione rurale superiore al 75% (v. tab.1).
Il continuo e notevole aumento della popolazione ha comportato un notevole aumento della densità (già elevata) della popolazione stessa. Alcuni stati con oltre 20 milioni di ab. presentano le massime densità statali (per tale categoria) del mondo: Bangladesh 441, Corea del Sud 319, Giappone 280 (massimo extraasiatico: Germania occid. 244); alcune regioni presentano densità che sono impressionanti per delle zone rurali (nel distretto di Adiwerna, nella zona di risicoltura irrigua dell'isola di Giava, si toccano i 2400 ab. per km2). Ma più ancora che le densità grezze sono significative quelle relative al territorio coltivato. In pressoché tutti gli stati dell'A. esse hanno raggiunto valori notevolissimi, tanto più preoccupanti in quanto si tratta di paesi in cui larga parte della popolazione vive del lavoro della terra. Tali densità della popolazione asiatica appaiono forse nel modo più chiaro espresse sotto la forma della disponibilità di terra arabile pro-capite (v. tab. 2).
Gli elevati ritmi di crescita della popolazione - che continuano quelli dei decenni precedenti - continuano a essere dovuti a un'elevata natalità congiunta a una bassa mortalità. Si tratta cioè del regime demografico tipico dei paesi sottosviluppati. Tali cospicui aumenti di popolazione, avvenendo nelle condizioni del sottosviluppo, finiscono necessariamente per costituire un ulteriore elemento di difficoltà della vita economica e sociale. Per es., in India, la popolazione che si trova al di sotto del livello minimo vitale, benché sia scesa - in percentuale - dal 58% del 1957-58 al 48% del 1967-68, in valori assoluti è passata da 238 a 247 milioni di persone. Nelle condizioni del sottosviluppo, d'altro canto, è illusorio sperare di ridurre la crescita della popolazione unicamente mediante la diffusione dei metodi anticoncezionali. Proprio i maggiori stati asiatici hanno costituito negli ultimi anni esempi paradigmatici a questo proposito. Il Giappone è stato il primo paese del mondo a modificare in modo pianificato e radicale il proprio comportamento demografico: grazie alla legge eugenica del 1948 (liberalizzazione completa dell'aborto, diffusione degli anticoncezionali) il tasso di natalità si è dimezzato nel giro di poco più di dieci anni (1948: 34‰; 1960: 17‰). Va notato che la legge si rivolgeva a una popolazione nella quale era praticamente assente l'analfabetismo, e alla quale venivano offerte opportunità economiche sia in campo agricolo (riforma agraria del 1946) sia negli altri settori economici. Non meno cospicuo il caso della Cina, anche se meno noto, perché basato su stime non ufficiali (ma del tutto attendibili). In questi anni il tasso di natalità dev'essersi ridotto, dal probabile 40-45% dei decenni precedenti, al 20-25‰. Questo risultato è stato ottenuto non soltanto grazie a varie misure demografiche (tra cui quelle applicate in Giappone), ma anche all'eliminazione dell'analfabetismo, al miglioramento radicale dell'agricoltura, alla creazione di opportunità di lavoro non agricolo. Diverso il caso dell'India dove da ormai un trentennio - seguendo i consigli degli esperti statunitensi - si persegue una politica di limitazione delle nascite, con dispensari e consultori in ogni più remoto villaggio, peraltro non accompagnata da sostanziali mutamenti né in campo agricolo né nei restanti settori economici, né da una rigorosa lotta all'analfabetismo (1970: 73% di analfabeti nel paese). Il tasso di natalità - stimato superiore al 40‰ (1950 e 1960) - era ancora pari al 43‰ nel 1970.
Per quanto riguarda la popolazione urbana non va dimenticato che anch'essa continua a rimanere - come quella rurale - una delle conseguenze più gravi della dipendenza dal capitalismo centrale. Nei paesi sottosviluppati infatti la crescita urbana in generale è stata (ed è) determinata da un'immigrazione caotica di contadini che fuggivano (e fuggono) dalla misera situazione delle campagne. Questo spiega da un lato la percentuale relativamente elevata di popolazione urbana in paesi sostanzialmente agricoli, dall'altro la crescita di enormi agglomerati urbani (i "cancri" di P. George). L'A. in via di sviluppo infatti, pur presentando circa l'80% di popolazione rurale, annovera quasi la metà delle principali aree metropolitane del globo.
Nell'ultimo decennio la tendenza alla falsa urbanizzazione e al gigantismo è continuata: in quasi tutti i paesi in via di sviluppo la percentuale della popolazione urbana è aumentata a un ritmo superiore a quello della popolazione in generale (in complesso 3,5-4% contro poco più del 2); gli agglomerati urbani milionari si sono ancora ingranditi a un ritmo assai sostenuto, soprattutto le capitali: fra il 1961 e il 1971, per es., Calcutta è passata da circa 3 milioni a oltre 7, Bombay da 4 a 5,9, Seul da 2,4 a 5,5, Djakarta da circa 3 a 4,5, Delhi da 2,5 a 3,6, Karachi da 1,9 a 3,5, ecc. La tendenza è stata ovviamente all'aumento nei due paesi sviluppati. Tokyo è passata da 9,5 a 11,5 milioni di ab., raggiungendo le dimensioni di New York; sulla costa meridionale di Honshu le due grandi conurbazioni di Tokyo-Yokohama e di Osaka-Kobe-Kyoto hanno superato rispettivamente i 25 e i 15 milioni di ab., risultando la prima e la terza per popolazione delle aree metropolitane dell'intero globo.
Soltanto i paesi socialisti hanno affrontato alla radice il problema della crescita eccessiva della popolazione urbana, soprattutto migliorando le condizioni di lavoro e di vita nelle campagne, in modo da prevenire l'esodo verso i centri urbani; in secondo luogo cercando di evitare - mediante la pianificazione della localizzazione industriale - il più possibile l'ulteriore ingrandimento delle città maggiori. Né va infine dimenticata l'originale iniziativa delle "comuni" popolari - sorta in Cina a partire dal 1958 -, organismi creati nelle campagne mediante l'unione di un certo numero di cooperative, le quali si occupano in maniera unitaria, oltre che delle attività primarie, anche di quelle secondarie e terziarie, promuovendo attività industriali, commerciali, di trasporto, alle quali si dedicano membri delle comuni stesse. Questa sorta di tessuto cellulare di base va mutando sostanzialmente la struttura professionale della popolazione rurale.
L'A. rimane tuttora il maggior deposito di agricoltori del mondo. Nella struttura economica della popolazione dei dieci principali stati in via di sviluppo della regione l'occupazione nel settore primario rimane tuttora superiore al 50%; prevale nettamente l'agricoltura in senso stretto. Si tratta peraltro di un settore primario in genere piuttosto arretrato dal punto di vista tecnico e spesso molto arretrato da quello sociale: la scarsa produttività si riflette nella sua partecipazione percentuale alla formazione del reddito nazionale, sempre inferiore alla percentuale degli occupati nel settore. Anche per quanto riguarda i paesi socialisti rimane prevalente l'occupazione nel settore primario (mai inferiore al 40%). Totalmente diversa, infine, la situazione in Israele e Giappone: l'occupazione nel settore primario è ormai molto ridotta, mentre la sua partecipazione alla formazione del reddito è assai notevole. Il settore economico che, dopo l'agricoltura, occupa il maggior numero di persone in A. è quello terziario. Qui la situazione non sembra apparentemente molto diversa tra paesi di gruppi diversi, in quanto tutti presentano percentuali elevate (nei dieci principali paesi in via di sviluppo esse variano dal 15 al 33%). Ma la realtà è ben diversa: nei paesi in via di sviluppo, con un'industrializzazione scarsa o "periferica", l'occupazione abbondante nel terziario indica soltanto il lavoro sostanzialmente improduttivo di molti addetti al commercio minuto o ai servizi. Una certa esagerazione del settore terziario (rispetto allo sviluppo industriale) perdura anche nei paesi socialisti, con l'eccezione della Corea del nord. L'occupazione nel settore secondario è quasi sempre la meno cospicua nei paesi asiatici in via di sviluppo: le uniche eccezioni sono infatti Singapore (40%), Hong Kong e l'Iran (circa 30%). Dato che il settore secondario è stato quello in generale più dinamico nell'ultimo quindicennio, alcuni altri paesi hanno aumentato le percentuali degli occupati nel secondario verso il 20%: Malaysia occid., Corea del sud, Taiwan, Filippine. In tutti gli altri, si è al disotto. Non va dimenticato che in molti paesi buona parte della manodopera considerata industriale è in realtà costituita da artigiani, spesso di tipo tradizionale; che non di rado nel settore secondario predomina l'industria estrattiva. Anche in questo settore, alla situazione generale si contrappone quella dei due paesi sviluppati, con una cospicua occupazione industriale, che dà valore anche a quella del terziario. Per i paesi socialisti, l'occupazione nel secondario non è ancora elevata (tranne che per la Corea del Nord) nonostante gli sforzi d'industrializzazione. In tutti i paesi la partecipazione del settore secondario alla formazione del prodotto nazionale lordo è assai maggiore delle percentuali di occupati in esso.
Va infine accennato il problema della disoccupazione, che permane gravissimo nella maggior parte dei paesi asiatici in via di sviluppo. I disoccupati rappresentano in media, secondo le ottimistiche valutazioni ufficiali dei vari stati - dal 7 al 10% della forza-lavoro. A questa già cospicua massa vanno aggiunte altre decine di milioni di sottoccupati, particolarmente numerosi nel settore primario.
Per quanto riguarda le migrazioni, nell'ultimo quindicennio in A. hanno avuto importanza - come del resto in precedenza - soprattutto quelle interne. Le migrazioni internazionali sono state, come già in passato, poca cosa. In Israele l'immigrazione ebraica è continuata con discreta intensità, anche se, come in precedenza, con andamento assai diverso nei vari anni. La Turchia ha continuato a presentare un'emigrazione di lavoro abbastanza cospicua verso i paesi capitalisti sviluppati europei, in primo luogo la Rep. Fed. di Germania. Altre migrazioni di lavoro, ma assai meno cospicue, si sono dirette verso i paesi arabi produttori di petrolio, in primo luogo il Kuwait (forte la componente palestinese). Comune invece, si può dire, a tutti i paesi asiatici in via di sviluppo continua a essere il drenaggio di cervelli verso i centri di ricerca dei paesi sviluppati, in primo luogo gli SUA e la Gran Bretagna (quest'ultima soprattutto per l'India).
Assai notevoli risultano invece le migrazioni interne, che vanno nettamente distinte tra paesi socialisti e in via di sviluppo. Le prime sono pianificate, legate allo sviluppo di nuove attività economiche in zone che in precedenza ne erano prive; le seconde sono caotiche, determinate in genere dalla cattiva situazione in campo rurale, e dirette quindi dalle campagne verso le città.
Nei paesi socialisti gli spostamenti hanno continuato a essere sostanzialmente quelli degli specialisti, verso i nuovi centri industriali, soprattutto nelle zone meno sviluppate. In Cina questo spostamento si è effettuato e si effettua verso le regioni interne, in particolare quelle periferiche. A tale spostamento si sono aggiunti, dopo la rivoluzione culturale (dal 1966), cospicui spostamenti di personale qualificato dalle città verso le campagne, sia in forma permanente (medici, ingegneri, tecnici vari, funzionari, burocrati) che temporanea (studenti). Tale fenomeno, che avrebbe già interessato 15-20 milioni di persone, è per il momento unico al mondo. Verso le regioni periferiche, abitate in prevalenza da popolazioni diverse dalla han, hanno avuto luogo anche spostamenti forse notevoli di popolazione contadina han; ma non si hanno dati ufficiali in proposito.
Nei paesi in via di sviluppo il movimento migratorio ha avuto andamento dalle campagne verso le città, in particolare verso le capitali e le città maggiori. Casi di migrazioni imposte dalla violenza bellica si sono avuti in più zone. Nella penisola indocinese i bombardamenti statunitensi hanno determinato la fuga di milioni di persone dalle campagne verso le città: si è trattato, per tutti e tre gli stati, di circa un quarto della popolazione. Nel Vietnam del Nord gli spostamenti sono stati in senso inverso, dalle città intensamente bombardate verso le campagne meno colpite. Dei profughi palestinesi quelli insediati ad Amman sono stati costretti nel 1970, dopo un tentato massacro da parte dell'esercito giordano, ad abbandonare la città. Nel 1975 parecchie migliaia di Curdi iracheni si sono rifugiati in Iran e in Turchia in seguito all'offensiva militare degl'Iracheni.
Per quanto riguarda le condizioni della popolazione, l'A. continua a rimanere, in assoluto, il continente più povero del mondo. Un'idea schematica immediata della situazione la fornisce la tab. 3. Il primo e più generale indice della situazione è costituito dal reddito medio annuo pro-capite. Con la solita eccezione di Israele e Giappone la situazione si presenta negativa: il reddito della maggior parte di tali paesi risulta essere dalle 6 alle 20 volte inferiore a quello del Giappone, con punte di 35.
Anche il reddito dei paesi socialisti rimane tuttora piuttosto basso. Eccezioni costituiscono i paesi arabi produttori di petrolio, ma in essi il reddito medio è una finzione statistica.
Gli altri indici economico-sociali non fanno che confermare in dettaglio la generale situazione di arretratezza. Di più, non va dimenticato che i valori medi nascondono, nei paesi in via di sviluppo, la presenza di strati sociali estremamente ricchi e potenti, le cui condizioni di vita e le cui disponibilità economiche si discostano da quelle della maggioranza della popolazione in misura assai più notevole di quanto non avvenga per i paesi capitalisti sviluppati. Un indice particolarmente eloquente, oltre che fondamentale, della situazione economica generale della popolazione asiatica può essere considerato quello relativo alle disponibilità alimentari medie pro-capite. Dagli stessi dati ufficiali statali risulta senz'ombra di dubbio che la quasi totalità della popolazione dei paesi asiatici in via di sviluppo non ha tuttora di che mangiare a sufficienza (v. tab. 4).
Né la situazione sembra destinata a mutare in un prossimo futuro, se si considera l'andamento della produzione agricola alimentare, nell'ultimo decemnio, rispetto alla popolazione (v. tab. 5).
Condizioni economiche.
Se la struttura economico-sociale-politica degli stati ha grande importanza per la considerazione dei fenomeni demografici, altrettanta, anzi maggiore, essa ne ha in rapporto alle risorse naturali e alla loro utilizzazione. Anche qui, di conseguenza, si ritrova la tripartizione fondamentale precedente.
I due paesi capitalisti sviluppati, forniti delle più avanzate tecniche, sfruttano le proprie risorse nel più moderno tecnicamente dei modi, ma con scarse preoccupazioni di natura sociale: all'ottenimento dei profitti viene sacrificata - se necessario - non solo la giustizia sociale, ma anche l'ambiente geografico (inquinamenti giapponesi). Come tutti i paesi capitalisti sviluppati, dipendono largamente dal commercio internazionale: utilizzano quindi anche risorse naturali di altri paesi, in cambio dei propri prodotti tecnici (il Giappone importa il 100% della bauxite che utilizza, il 99% del petrolio, i 3/4 delle fonti di energia, il 60% del minerale di ferro, un quarto del carbone e del legname, il 20% dei prodotti alimentari, ecc.).
Quasi opposto è il quadro dei paesi socialisti. Essi cercano di promuovere l'utilizzazione la più razionale possibile delle proprie risorse, basandosi sulla pianificazione e sulla giustizia sociale. Le tecniche produttive, per tutti uniformemente basse all'inizio, vanno costantemente migliorando grazie all'industrializzazione.
Nei paesi in via di sviluppo si riscontra in genere il massimo d'irrazionalità e di spreco nell'utilizzazione delle proprie risorse. Ai difetti del capitalismo sviluppato si aggiungono qui le conseguenze della dominazione imperialista, di cui la più evidente e dannosa è il tuttora basso o bassissimo livello delle tecniche produttive in molti settori. Certe risorse naturali continuano a essere in prevalenza utilizzate per gli stati capitalisti sviluppati. L'intervento dello stato, spesso presente, nonostante l'apparenza delle pianificazioni più che a correggere le storture più dannose è diretto all'aumento dei profitti della borghesia indigena. Il commercio internazionale, imposto dalla struttura capitalistica periferica favorisce i paesi capitalisti sviluppati anche grazie al continuo peggioramento delle ragioni di scambio tra materie prime grezze (esportate), e prodotti industriali (importati).
Il settore primario. - Secondo la FAO, della superficie dell'A. soltanto il 17% sarebbe ancor oggi utilizzato per i seminativi e le colture permanenti. Un altro 18% sarebbe occupato da prati e pascoli permanenti; un 20% da foreste. Infine quasi la metà del continente (il 45%) sarebbe costituito da terre incolte o improduttive. Ma questi dati generali hanno un valore puramente indicativo. Nella realtà dei singoli stati asiatici le percentuali continuano a risultare assai diverse da uno stato all'altro: per es., il territorio utilizzato per i seminativi è pari a poco più del 10% della superficie del paese in Cina, e invece circa il 50% in India.
Negli ultimi anni, l'aumento della superficie dei seminativi è stato minore che in passato: si è passati dai circa 39 milioni di nuovi ettari del decennio 1938-48 e dai 40 del 1948-58, ai 24,2 del 1958-68. Ma anche qui le differenze sono state assai cospicue tra un paese e l'altro.
Le cifre complessive, dunque, in sé non dicono molto. Per avere un'idea più precisa della situazione dell'agricoltura è necessario rifarsi ad altri indici, in primo luogo la superficie di terreno coltivato che è, in media, a disposizione di ogni abitante all'interno di ciascuno stato (si veda la tab. 2). Si ricorderà ancora che nell'A. meridionale e in quella sudorientale la popolazione rurale ha a disposizione, procapite, una quantità di terreno agricolo che è di oltre 50 volte inferiore a quella dei paesi sviluppati; e la popolazione agricola ha a disposizione, pro-capite, una quantità di terra inferiore a quella di qualsiasi altra regione del globo.
Ma il significato anche di tali cifre può essere compreso appieno solo se si tiene presente che esse si riferiscono ad agricolture i cui livelli tecnici sono notevolmente diversi. Nel caso dei due paesi capitalisti sviluppati si tratta di un'agricoltura moderna, ricca di mezzi meccanici e chimici; i paesi socialisti, invece - tranne la Corea del Nord - risentono tuttora delle caratteristiche e delle conseguenze del sottosviluppo, con un'agricoltura, nonostante le vigorose spinte al miglioramento, ancora in gran parte basata sul lavoro manuale, con limitato uso di mezzi moderni; i paesi in via di sviluppo, infine, hanno un'agricoltura in prevalenza tecnicamente arretrata e quindi poco produttiva, che richiede grandi quantità di lavoro umano con scarso risultato. Diversi indici relativi all'agricoltura - dal consumo medio di fertilizzanti per ettaro, all'uso di sementi selezionate, alla disponibilità di mezzi meccanici, ecc. - mostrano in modo convincente queste diversità. Un indice riassuntivo del livello tecnico dell'agricoltura è dato dai rendimenti medi delle colture per ettaro. E in effetti, la loro osservazione per alcuni prodotti comuni ai diversi gruppi di paesi mostra come le differenze siano, e permangano, cospicue tra i tre gruppi di paesi (v. tab. 6).
È opportuno aggiungere, per un confronto, che per es. nei paesi in via di sviluppo il rendimento medio del riso (circa 20 q per ha) è tuttora di 2 volte inferiore a quello dell'Europa e dell'America Settentr.; quello del frumento (11 q per ha) è notevolmente inferiore sia a quello dell'Europa (oltre 25) e dell'America Settentr. (circa 20) sia a quello mondiale medio (circa 15); quello del cotone (2,2 q per ha) è ben lontano da quello dell'America Settentr. (oltre 6) e da quello mondiale medio (3,6).
L'arretratezza tecnica continua a essere accompagnata da rapporti di produzione agrari che in genere sono di ostacolo anziché di aiuto al miglioramento dell'attività agricola. Solo i paesi socialisti hanno risolto alla radice il problema, trasferendo la proprietà della terra allo stato e organizzando la produzione in aziende di stato o in fattorie collettive (con il perfezionamento delle "comuni" in Cina). Le radicali riforme agrarie che hanno cambiato la situazione delle campagne dei paesi socialisti hanno avuto luogo prima del 1960. Ma il perfezionamento delle forme create da alcune di esse è avvenuto dopo il 1960: così in Cina, per le dimensioni delle comuni (1962 e 1969), nel Vietnam del nord per quelle delle cooperative (1967 e 1969). I due paesi capitalisti sviluppati costituiscono casi particolari nell'ambito del sistema agrario capitalistico: Israele per le sue forme originali (per es., i kibbutzim), il Giappone per la riforma agraria (1946) imposta dalle autorità di occupazione statunitensi, la quale ha creato una pressoché universale e abbastanza omogenea piccola e media proprietà contadina coltivatrice. In tutti i paesi in via di sviluppo permangono invece da un lato una notevole sfasatura fra proprietari e utilizzatori (si confronti per un esempio, il caso dell'India; v. tab. 7), con la conseguente appropriazione da parte dei proprietari di una cospicua parte, spesso eccessiva, del frutto del lavoro dei contadini, nonché l'indispensabile presenza di un cospicuo numero di contadini senza terra; dall'altro, fenomeni di interventi usurari da parte degli stessi proprietari fondiari (o degli addetti al settore commerciale) nei confronti dei bisogni monetari delle grandi masse dei contadini, interventi che portano spesso, alla fine, alla perdita della terra da parte dei contadini. Tale fenomeno è particolarmente frequente nei paesi dell'A. meridionale e sudorientale. Non va dimenticato che, se il quadro delineato riguarda il maggior numero di agricoltori asiatici, esiste accanto a esso in molti paesi in via di sviluppo la realtà delle aziende più grandi e più produttive (tra cui sempre quelle che producono per il mercato estero), le quali sono spesso organizzate come le grandi aziende agricole dei paesi capitalisti sviluppati.
Agl'innumerevoli lati negativi dell'assetto tecnico e sociale dell'agricoltura dei paesi un via di sviluppo si è cercato di porre rimedio con misure in parte politiche (riforme agrarie), in parte tecniche (aumento della produttività agricola mediante irrigazioni, macchine, fertilizzanti, sementi selezionate, ecc.). Queste misure, che si sono venute intensificando nell'ultimo quindicennio, hanno avuto risultati diversi: in genere scarsi per le riforme agrarie, più consistenti - ma limitati in genere ai settori già sviluppati dell'agricoltura - per le misure tecniche.
Riforme agrarie - tendenti in genere soltanto alla riduzione delle proprietà maggiori - sono state realizzate in Indonesia, Iran, Iraq, Nepal, Yemen democratico, Siria, India, Filippine, Vietnam del Sud. Le uniche che sembrano aver avuto reale afficacia sono state quelle realizzate in due paesi di orientamento antimperialista, lo Yemen democratico e la Siria, nonché quella realizzata nell'Iran. Tutte hanno dato luogo alla creazione di una vasta rete di cooperative. Va ricordato che in Indonesia, dopo il colpo di stato del 1965, si è registrata addirittura una controriforma agraria, con la restituzione ai vecchi proprietari di molte terre già espropriate.
Più notevoli e più diffusi i risultati dei miglioramenti tecnici in campo agricolo, di cui ci limiteremo a ricordare quelli che vanno sotto il nome di "rivoluzione verde". Il punto di partenza è stata la diffusione di nuove varietà (ibridi) di cereali - soprattutto riso e frumento - ad alto rendimento. I paesi di principale diffusione sono stati l'India e le Filippine, seguiti da Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Indonesia. Queste varietà, dai rendimenti senza confronto maggiori delle varietà tradizionali, esigono irrigazione, uso di fertilizzanti, meccanizzazione dei lavori agricoli. Se la loro introduzione ha quindi comportato una serie di miglioramenti in tutti questi campi, proprio l'ampiezza di tali miglioramenti indispensabili - cioè dei loro costi - ne ha nello stesso tempo limitato l'applicazione alle sole aziende al di sopra di una certa dimensione medio-alta. La "rivoluzione verde" dunque non solo non ha interessato la grande massa delle aziende agricole dei paesi in via di sviluppo dell'A., ma ha anche determinato un peggioramento della situazione degli affittuari e dei braccianti. È stato calcolato che essa interessa attualmente il 10-15% delle superfici a cereali dei paesi asiatici in via di sviluppo.
Per quanto riguarda le fondamentali fra le singole produzioni agricole, non hanno presentato - in generale - variazioni notevoli nell'ultimo quindicennio anche quando le percentuali sul totale mondiale risultano mutate. Di gran lunga prevalenti continuano a essere le coltivazioni di cereali (che occupano oltre 3/4 della superficie coltivata); tra le quali domina il riso, seguito a distanza dal frumento. L'A. continua a essere il continente del riso, del quale dà il 90% del totale mondiale. Esso costituisce tuttora la base dell'alimentazione rurale. Il frumento è al secondo posto tra le produzioni alimentari, costituendo circa 1/5 del totale mondiale e fungendo soprattutto da alimento per le zone urbane. Importanti sono ancora miglio e sorgo (1/3 del totale mondiale), e in minor misura mais, orzo e manioca. Tuttavia alcuni paesi in via di sviluppo non sono autosufficienti dal punto di vista alimentare e importano soprattutto frumento dai paesi sviluppati, in primo luogo gli SUA. Al primo posto è stata per lungo tempo l'India. Altre produzioni agricole derivano invece dalla divisione capitalistica internazionale del lavoro, ed essendo dunque prodotte per i paesi sviluppati vengono esportate in misura maggiore o minore. La più importante dal punto di vista strategico è senz'altro quella del caucciù (90% del totale mondiale), sempre concentrata nell'A. di sudest. Seguono la juta (95%), diverse oleaginose (tra cui la copra, circa 85%, le arachidi, la colza e il sesamo attorno al 50%, l'olio di palma oltre 1/3, la soia oltre 1/4), il the (85%). Ancora importanti le produzioni di noci di cocco (80%), di cannella, di pepe (80%), di canfora. Altri prodotti agricoli di cui l'A. ha una cospicua produzione: datteri (50%), tabacco e canna da zucchero (sul 40%), cotone da seme e cotone da fibra (fra il 35 e il 40%). L'allevamento infine dà circa il 90% della seta grezza, e annovera circa la metà del patrimonio caprino,1/3 di quello suino del globo e 1/4 di quello bovino; la pesca,1/3 del pescato mondiale. Parecchi i primati produttivi degli stati asiatici. Cina: primo posto nel mondo per cereali, tabacco, olio di tung, patrimonio suino; secondo per soia, arachidi, seta grezza, patrimonio caprino; terzo per cotone, the, juta, patrimoni0 ovino. India: primo posto per canna da zucchero, juta, arachidi, the, patrimonio bovino e caprino; secondo per canapa e banane; terzo per il lino. Giappone: primo per seta grezza e pescato. Malaysia: primo per caucciù e olio di palma. Indonesia: secondo per caucciù e manioca, terzo per olio di palma. Bangladesh: secondo per la juta.
Il settore secondario. - Si è già accennato come una delle conseguenze più gravi dell'imposta divisione capitalistica internazionale del lavoro sia il fatto che ancor oggi il settore secondario - considerato l'elemento trainante dello sviluppo economico - rappresenti il settore meno sviluppato per la maggior parte dei paesi asiatici. Dei paesi in via di sviluppo, uno solo - l'Iran - è riuscito a vedere la prevalenza, nella formazione del reddito nazionale, del settore secondario dopo il 1960; e solo in pochissimi casi tale settore figura al secondo posto per importanza (Singapore, Hong Kong, Corea del Sud, Thailandia), nonostante il recente sensibile aumento dell'attività industriale in alcuni paesi. Solo i due paesi capitalisti sviluppati si possono considerare industrializzati in senso moderno: presentano sviluppati i settori tradizionali di base (siderurgia, metallurgia, chimica di base, ecc.) e cominciano a sviluppare quelli che stanno divenendo i nuovi settori trainanti dell'industria (elettrotecnica ed elettronica, chimica fine, metalli leggeri, leghe speciali, energia atomica, ecc.). Tra i paesi socialisti, solo la Corea del Nord sembra aver raggiunto, nell'ultimo quindicennio, un'industrializzazione completa di tipo tradizionale. La Cina, pur in presenza di notevolissimi sforzi, risentirebbe ancora del bassissimo livello di partenza; peraltro è certo che essa produce oggi l'intera gamma dei prodotti industriali moderni. Pur in assenza di dati, ne sembrano conferma gli avvenuti lanci di due satelliti artificiali nel 1970 e 1971 e lo scoppio delle bombe atomiche nel 1964 e 1967.
Per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, la crescita industriale più o meno marcata dell'ultimo quindicennio non ha portato mai a industrializzazioni organiche. Anche oggi ci si trova così di fronte o a impianti estrattivi e di prima lavorazione di minerali estratti nel paese (paesi arabi, Indonesia, Malaysia occid.) o a industrie leggere (tessili, alimentari, prodotti di plastica e metallici di uso corrente, ecc.), cui spesso negli ultimi anni si sono aggiunte talune industrie pesanti (siderurgia, chimica di base), per iniziative o statale o privata o mista (Iran, India, Pakistan). Particolare la recente industrializzazione leggera di taluni paesi (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore) ad opera dei capitali di paesi sviluppati (SUA, Gran Bretagna, Giappone), verso i cui mercati ciò è reso possibile dal minor costo della manodopera di questi paesi. La recente crescita industriale dei paesi in via di sviluppo è legata al cambiamento che si va verificando nel settore industriale dei paesi capitalisti sviluppati: rispondendo così alle necessità della nuova divisione capitalistica del lavoro industriale, essa continua, il carattere periferico dell'economia dei paesi stessi.
Il prodotto minerario estratto in maggior quantità continua a essere il minerale di stagno (60% della produzione mondiale), nell'A. di sudest, quasi completamente esportato. Ad esso segue il petrolio (oltre 1/3), per la gran parte estratto nell'A. sudoccidentale e anch'esso in grandissima parte esportato allo stato grezzo (per la maggior parte verso l'Europa occidentale, in minor misura verso il Giappone). Notevoli ancora le produzioni di minerale di tungsteno e di magnesite (oltre 1/3 entrambi), nonché quelle di minerale di cromo e di minerale di antimonio (oltre 1/4). Anche la produzione di carbone - utilizzato per i mercati interni - è pari a circa 1/4 del totale mondiale. Non molti i primati produttivi. Cina: primo posto nel mondo per il tungsteno, secondo per l'antimonio, terzo per il carbone; Malaysia: primo posto per lo stagno; Corea del Nord: primo posto per la magnesite; Iran: terzo posto per il petrolio; Turchia: terzo posto per il cromo.
Dei prodotti dell'industria, soltanto per due l'A. ha una cospicua produzione alla quale partecipano più stati: lo stagno (60% del totale mondiale, gli stessi paesi produttori del minerale) e i filati di cotone (1/3, Cina, India, Giappone). Per numerosi altri, una produzione cospicua coincide con quella di un unico stato. Se si eccettua la carne di maiale (Cina, 1/4 del totale mondiale) si tratta sempre e solo del Giappone, divenuto ormai la terza potenza industriale del globo dopo SUA e URSS: costruzioni navali (primo posto nel mondo, quasi metà del totale mondiale), radio e televisori (primo posto,1/3 e 1/4), autoveicoli commerciali (secondo posto, circa 30%); e ancora cemento (primo), prodotti diversi derivanti dalla raffinazione del petrolio (dal primo al terzo, con una capacità di raffinazione degl'impianti al secondo posto nel mondo), autovetture (secondo), carta (secondo), zinco (secondo), ghisa (terzo), acciaio (terzo), alluminio (terzo), rame (terzo), polpa di legno chimica (terzo), filati di lana (terzo), energia prodotta (terzo), coke metallurgico (quarto), piombo (quarto), carta da giornale (quarto).
Il settore terziario. - Come si è già detto, il settore terziario ha un reale valore economico solo per i due paesi sviluppati, e in parte per i paesi socialisti, in quanto corrisponde a un settore secondario bene o piuttosto bene sviluppato. Tra i paesi in via di sviluppo - che presentano fette più o meno larghe di terziario in sostanza improduttive - fanno eccezione unicamente Hong Kong e Singapore, tradizionalmente orientati verso i servizi relativi al commercio internazionale (negli ultimi anni, inoltre, Singapore è divenuto il maggior centro finanziario dell'Asia).
Fra quanto attiene al settore terziario meritano particolare attenzione l'ambito dei trasporti e delle comunicazioni, e quello del commercio con l'estero.
La diversa consistenza dei trasporti e delle comunicazioni nei vari paesi non è in genere che il riflesso delle differenze di sviluppo economico esistenti tra i paesi stessi e del loro grado di dipendenza dall'estero. Ma grande importanza hanno le scelte politiche relative, in specie per quanto riguarda gl'interventi attuali e quelli futuri. Si noterà che, per es., in A. le costruzioni ferroviarie sono state preferite a quelle stradali negli stati in cui vi è qualche interesse di pianificazione. Né vanno sottovalutati, ancora, gl'interessi strategico-militari: è il caso, per un esempio, della "grande strada asiatica" e delle strade di attraversamento del Himalaya.
Né va dimenticato, infine, che le grandi infrastrutture nei paesi in via di sviluppo vengono in genere realizzate da grandi società dei paesi capitalisti sviluppati, spesso strettamente legate ai monopoli del petrolio, del cemento e dell'acciaio.
Particolare sviluppo hanno avuto le ferrovie in Cina e Giappone.
Per la Cina non sono note le cifre assolute, ma da varie fonti risulta che il poderoso sforzo di completare l'accessibilità ferroviaria delle principali regioni interne è continuato (da ricordare fra l'altro il ponte sullo Yangtze a Nanchino, 1600 m). In Giappone si è ampliata la rete delle ferrovie veloci, sulla quale corrono i treni più veloci del mondo (oltre 160 kmh di media). Si è realizzata fra l'altro una galleria lunga 16 km (la terza per lunghezza del mondo) tra Tokyo e Osaka. Sono in costruzione due grandiose gallerie ferroviarie sottomarine: una di 36 km tra Hokkaido e Honshu, e una di 18,5 km tra Honshu e Kyushu. Altre notevoli realizzazioni ferroviarie si sono avute nell'A. sudoccidentale: linee Latakia-Aleppo-Dayr-az-Zawr-al Qamishli in Siria; collegamento della rete israeliana con la linea del Sinai a Gaza; collegamento della rete turca con quella iraniana; ricostruzione completa della ferrovia del Hejaz da Ma'an a Medina. Anche l'India ha visto la posa di parecchie centinaia di km di nuove linee. Nello Yemen è in costruzione la ferrovia da Hodeida a Taiz. Dalla fine del 1967 si effettua il trasporto di container da Londra al Giappone, via Transiberiana. Infine, i paesi socialisti asiatici e l'URSS hanno deciso di riaprire (1973) i collegamenti ferroviari tra le loro capitali.
Il settore che ha visto le maggiori costruzioni è stato peraltro dovunque quello stradale. Oggi si può andare, su strade moderne, da Istanbul a Saigon (e a Pyongyang). Il tracciato migliore nei paesi in via di sviluppo, la cosiddetta "grande strada asiatica" dall'Iran all'Indonesia risponde ai requisiti fissati sul 95% del suo percorso.
In Turchia un ponte stradale di 1074 m di luce, a 64 m dal pelo dell'acqua, dal 1973 unisce le due sponde del Bosforo appena a N di Istanbul. Nell'Arabia Saudita oltre 4000 km di nuove strade (tra cui quella di 1600 km dal mar Rosso al Golfo Arabico) collegano le oasi principali; lunghe strade moderne sono state costruite anche nello Yemen, nello Yemen democratico e nell'Oman. In Afghanistan, una carrozzabile unisce Kabul all'URSS attraversando il Hindu Kush a 4000 m d'altezza con una galleria di 2,5 km. Il Himalaya, che fin verso gli anni Sessanta aveva visto solo mulattiere o carovaniere, è stato attraversato da ben cinque carrozzabili: tra Katmandu (Nepal) e Lhasa; tra Gangtok (Sikkim) e Lhasa (due passi di 4328 e 4632 m); tra Gilgit (Pakistan, collegata per carrozzabile a Rawalpindi) e il Sinkiang (passo Mintaka 4755 m); e due strade all'interno dell'India: tra Srinagar e Leh (alta valle dell'Indo) attraverso un passo di 3529 m; e tra Manali e Leh (quest'ultima utilizza quattro passi alti fra i 4800 e i 5400 m). A Hong Kong una galleria sottomarina ha collegato l'isola di victoria a Kowloon. Un ponte stradale sospeso di 1086 m ha collegato le isole di Honshu e di Kyushu.
Per quanto riguarda i trasporti marittimi - come per l'innanzi, appannaggio del Giappone e degli stati sviluppati extrasiatici - si nota un ulteriore aumento dei traffici in quelli che già in precedenza erano i massimi porti (Singapore, Hong Kong, Kobe, Tokyo-Yokohama), i quali sono divenuti nell'ultimo quindicennio anche i massimi centri del traffico dei containers in A. (particolarmente attrezzato a questo proposito Hong Kong).
Tra i nuovi porti: Ashdod (Israele), Umm-Qasr (Iraq), Paradeep (Orissa, India), Sattahip (Thailandia), Newport (presso Saigon, Vietnam del sud). Numerosi i nuovi attracchi petroliferi speciali nel Golfo Arabico, tra cui quello gigante sull'isola Kharg (Iran), e le quattro "isole del mare" dell'Arabia Saudita. Il canale di Suez è rimasto chiuso, in seguito all'occupazione israeliana, dal 1967 al 1975. Alla fine del 1971 Indonesia e Malaysia hanno dichiarato di non considerare più lo Stretto di Malacca acque internazionali; di vietare il passaggio alle petroliere di oltre 200.000 t.s.l.; di subordinare il passaggio di navi militari alla concessione di un prermesso.
Anche il traffico aereo ha avuto notevole incremento, pur se non di rado le compagnie di bandiera degli stati in via di sviluppo hanno un significato di presenza politica più che economica. Numerosi, tra l'altro, i nuovi aeroporti internazionali (Dubai, Kuala Lumpur, Dacca, Islamabad, Bali [Indonesia], Colombo, Jidda, Tokyo, Muscat). I collegamenti del Giappone con l'Europa si sono negli ultimi anni arricchiti - dopo la rotta polare - della rotta siberiana (Tokyo-Irkutsk-Mosca-Copenaghen).
Infine, tra il 1965 e il 1967, è stato deposto il cavo telefonico sottomarino SEACOM - Singapore-Jesselton-Hong Kong-Guam-Madang (Nuova Guinea)-Cairns (Australia) - di oltre 13.000 km, il quale a Cairns si collega con il COMPAC, che va da Sydney a Vancouver.
Il commercio estero. - Anche questo settore costituisce un riflesso fedele delle vicende politiche passate, delle scelte politiche attuali e del grado di sviluppo tecnico degli stati. Pure qui dunque si distinguono tre tipi fondamentali.
Il commercio estero degli stati socialisti è sempre subordinato alle esigenze dello sviluppo interno. Continuano a prevalere in esso - con l'eccezione della Corea del Nord - le esportazioni di materie prime agricole e minerarie e le importazioni di prodotti manifatturati. Questo vale anche per la Cina, che solo per 1/3 del suo totale esporta prodotti manifatturati (soprattutto tessili). La Corea del Nord esporta invece prevalentemente prodotti industriali. Va notato l'importante cambiamento avvenuto dopo il 1960 nella direzione di una parte del commercio estero cinese: diminuito fortemente l'interscambio con l'URSS, è aumentato quello con i paesi capitalisti sviluppati (tra cui in misura sempre crescente il Giappone), e i paesi in via di sviluppo. La Repubblica popolare mongola, da sempre, ha rapporti commerciali prevalentemente con l'URSS; di preferenza con l'URSS e gli altri paesi socialisti europei commercia la Corea del Nord, mentre prevalentemente con la Cina commercia il Vietnam. I due paesi capitalisti sviluppati hanno - com'è usuale nella loro categoria - un commercio estero molto sviluppato che si svolge in prevalenza con altri paesi sviluppati, in primo luogo gli SUA. Ma il Giappone è venuto realizzando un ricco interscambio anche con i paesi dell'A. di sudest. Comuni le caratteristiche generali del commercio estero dell'enorme maggioranza dei paesi in via di sviluppo: netta prevalenza di materie prime grezze (minerarie o agricole) nelle esportazioni, netta prevalenza di prodotti manifatturati nelle importazioni. In parecchi paesi continuano a predominare uno solo, o pochissimi, prodotti di esportazione (diretti, per lo più, verso i paesi sviluppati, di preferenza verso l'ex-madrepatria): petrolio (per la maggior parte dei paesi arabi e l'Iran); caucciù e stagno (Malaysia occid.); noci di cocco e zucchero (Filippine); riso e teak (Birmania); thé, noci di cocco e caucciù (Ceylon); riso, caucciù, stagno e teak (Thailandia). E, in quasi tutti, netta prevalenza delle importazioni sulle esportazioni, cioè saldi negativi. Peraltro nella struttura dell'interscambio si sono registrate, nell'ultimo quindicennio, alcune modificazioni generali: nelle esportazioni la percentuale delle materie prime tradizionali (per es., cotone, minerale di ferro, prodotti alimentari, bevande) è diminuita a vantaggio del petrolio; nelle importazioni la percentuale dei beni di consumo è diminuita a vantaggio delle attrezzature e dei macchinari, e per alcuni paesi è diventata importante l'importazione di prodotti alimentari. Taluni paesi sono divenuti esportatori di prodotti manifatturati dell'industria leggera, soprattutto tessile (India, Pakistan, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong), diretti anche verso i paesi sviluppati (tipico il caso della Corea del Sud). Tuttavia queste modificazioni non sono che il riflesso dell'incipiente nuova divisione internazionale capitalista del lavoro industriale, come si è accennato in precedenza. Una conferma è data dalla permanenza della precedente direzione (coloniale) che l'interscambio in gran parte presenta: verso le ex-metropoli europee e gli SUA, cui si è aggiunto il Giappone (che prevalentemente importa petrolio arabo e indonesiano, e altre materie prime dall'A. di sudest, verso cui esporta prodotti manifatturati). Limitato continua a rimanere l'interscambio fra i paesi in via di sviluppo stessi, in primo luogo per l'analogia della struttura economica e del livello di sviluppo.
Geografia politica.
L'A. è stata, nell'ultimo quindicennio, l'epicentro dei più importanti avvenimenti di politica internazionale: il suo quadro geografico-politico è risultato sensibilmente modificato.
Agl'inizi degli anni Sessanta la situazione geografico-politica si poteva così riassumere. La Repubblica popolare cinese costituiva l'elemento più importante del campo socialista, ancora non travagliato da dissidi acuti; nel Vietnam del Sud era appena iniziata la lotta armata contro il regime sostenuto dagli SUA. Dei due stati sviluppati, Israele rappresentava l'avamposto del capitalismo centrale nell'A. sudoccidentale, già allora grossa fornitrice di petrolio sia all'Occidente capitalista sia al Giappone; il Giappone, che per volontà statunitense aveva ormai ricostituito la sua potente struttura economica soprattutto in seguito alla guerra di Corea, era in pieno sviluppo, favorito anche dall'assenza (o quasi) di spese militari. Esso ospitava un gran numero di forze armate statunitensi, dislocate in innumerevoli basi. Nella restante A., oltre ai paesi in via di sviluppo indipendenti (parecchi dei quali ridivenuti tali nel decennio precedente) vi erano ancora alcune colonie e protettorati inglesi, oltre "ai brandelli" coloniali attualmente ancora esistenti. Dei paesi in via di sviluppo, parecchi - dislocati lungo tutto l'orlo del mondo socialista asiatico - erano legati da trattati militari agli SUA (si veda la tab. 8), e ospitavano di conseguenza basi militari statunitensi.
La volontà britannica di abbandonare le sue posizioni militari a E di Suez fa sì che giungano all'indipendenza gli ultimi importanti territori dipendenti dalla Gran Bretagna in A., nella penisola araba (petrolio) e nell'A. sudorientale (caucciù). Inizia il Kuwait nel 1961; seguono Sarawak e Sabah (già North Borneo) nonché Singapore nel 1963, unendosi alla Malesia (inglese Malaya), già indipendente dal 1957, per formare il nuovo stato denominato Malaysia (Singapore si staccherà poi costituendosi in stato autonomo nel 1965); è poi la volta delle isole Maldive nel 1965; segue nel 1967 quella che era la colonia e protettorato di Aden (attualmente Yemen democratico), l'unica a raggiungere l'indipendenza dopo anni di lotta armata ad Aden; infine nel 1971 divengono formalmente indipendenti Qatar, Bahrein, e il Trucial Oman (o Costa dei Pirati), che diviene l'Unione degli emirati arabi. Oltre agli accordi militari che la Gran Bretagna stringe con tutte le ex-colonie (tranne lo Yemen democratico) - tra cui l'uso dell'isola di Gan nelle Maldive fino al 1986 e il patto ANZUK (1971) in cui entrano anche Malaysia e Singapore - altri avvenimenti bilanciano, nelle due zone interessate, queste indipendenze. Nel 1965 viene stabilita la nuova colonia inglese "Territori britannici dell'Oceano Indiano", che comprende fra l'altro l'isola Diego Garcia dell'arcipelago delle Chagos (oltre 2000 km a NE dell'isola Maurizio), la quale è destinata a divenire la principale base militare anglo-statunitense nell'Oceano Indiano. Nello stesso 1965 con un colpo di stato militare, seguito dal massacro di circa un milione di comunisti e simpatizzanti di sinistra, l'Indonesia passa dalla posizione di non-allineamento a una strettamente filo-occidentale. Nel 1967 Israele, che dalla metà degli anni Sessanta vede crescere un movimento armato dei profughi palestinesi, con una guerra "lampo preventiva" (cosiddetta "dei sei giorni") occupa un piccolo lembo di Siria (Golan), tutta la Cisgiordania e la città vecchia di Gerusalemme (quest'ultima formalmente annessa), la striscia di Gaza e tutto il Sinai, fino alla sponda orientale del canale di Suez (di questi territori, solo una piccola striscia lungo il canale di Suez è stata restituita nel 1974, in seguito alla cosiddetta "guerra del kippur" scatenata dai paesi arabi; ma da cuscinetto fungono esperti missilistici statunitensi). L'Iran, saldamente filoccidentale, diviene rapidamente negli anni Sessanta la maggior potenza militare del Medio Oriente. Ne è dimostrazione tangibile ed emblematica, nel 1971, l'occupazione delle isolette Tunb, nello stretto di Ormuz, già appartenenti a uno dei membri degli Emirati arabi uniti (Ras al-Khaimah) e della vicina isola di Abu Musa, dopo un accordo per l'amministrazione congiunta con un altro membro (Sharjah). Ancora, nel 1974 la filooccidentale Turchia occupa il 40% della neutralista Cipro, dopo un colpo di stato d'ispirazione greca. Infine, nel 1975 l'Indonesia invade militarmente l'ex-provincia d'oltremare portoghese di Timor (14.925 km2), poche settimane dopo che forze indipendentiste locali di sinistra avevano proclamato l'indipendenza del territorio.
Un insuccesso pieno si rivela invece l'intervento armato statunitense (e di altri paesi) nel Vietnam del Sud a sostegno del regime filoccidentale. Nonostante la larghezza di mezzi bellici gli SUA si risolvono, nel 1973, a cessare l'intervento. Due anni dopo, nel 1975, il vecchio regime filoccidentale crolla in pochi giorni (analogamente a quelli di Cambogia e di Laos, coinvolti dagli SUA nel conflitto).
Gli SUA cercano di migliorare i rapporti con il Giappone - che sta cominciando ad allacciare rapporti economici con la Cina e con l'URSS - restituendo dapprima (1968) le isole Bonin (o Ogasawara), poi (1972) le Ryu Kyu amministrate dagli SUA.
Nel subcontinente indiano, l'India che - in funzione anticinese - si è sempre più avvicinata all'URSS favorisce, con un intervento armato, la secessione dal Pakistan (avvicinatosi alla Cina in funzione antindiana) della sua regione orientale, che si proclama Stato (1971) con il nome di Bangladesh. Nel 1972 il Pakistan dichiara ufficialmente di uscire dalla SEATO. Nel 1975, sempre in funzione anticinese, l'India occupa militarmente e annette il piccolo stato del Sikkim nella zona himalayana (già suo protettorato).
Confini: trattati e controversie. - Piccole modificazioni di tracciato si sono registrate lungo i confini della Cina, che ha provveduto con una serie di trattati a delimitare i suoi confini in precedenza consuetudinari (trattato cino-birmano 1960; cino-nepalese 1961; cino-mongolo 1962 e 1964; cino-afghano 1963; cino-pakistano 1963). Piccole modificazioni sono state pure apportate al confine tradizionale tra Giordania e Arabia Saudita dal trattato stipulato nel 1965 (la Giordania ha allungato il suo tratto di costa da 7 a 28 km). La zona neutrale esistente tra Kuwait e Arabia Saudita è stata divisa amministrativamente tra i due stati con un trattato del 1964. Gravi frizioni si sono avute lungo il confine cino-indiano, confine consuetudinario che l'India si rifiuta di definire mediante un trattato: gli scontri armati sono stati particolarmente gravi, oltre che nel 1959, nel 1962. Altri gravi scontri si sono registrati nel 1965 lungo il confine tra India e Pakistan occid. (soprattutto a causa del contestato Kashmir). Nel 1967, quando colonia e protettorato di Aden sono divenuti indipendenti, la Gran Bretagna ha trasferito le isole Kuria Muria al sultanato di Muscat e Oman. Nel 1968 un tribunale internazionale di Ginevra ha assegnato i 9/10 del territorio conteso nel Rann of Kutch all'India, e il resto al Pakistan. Nel 1969 gravi scontri si sono registrati lungo il confine russo-cinese sul fiume Ussuri (Estremo Oriente). La Repubblica popolare Cinese (come del resto Taiwan) ha sempre considerato facenti parte del suo territorio anche le isole Tiaoyu (giapp.: Senkaku) - occupate dal Giappone con Taiwan nel 1895, quindi passate all'amministrazione statunitense e nel 1972 restituite al Giappone con le Ryu Kyu - nonché i gruppi insulari del mar Cinese meridionale, isole Pratas, Paracelso, Spratly e scogli South Luconia (cinese: Tsiengmu). Ha perciò protestato quando le Tiaoyu sono state consegnate al Giappone (1972), e quando il Vietnam del Sud ha dichiarato la propria sovranità sulle Spratly (1973). Nel 1974 truppe cinesi hanno preso possesso delle Paracelso. vedi tav. f. t.
Accordi internazionali. - Per completare il quadro geografico-politico è necessario tener conto degli accordi di cooperazione economica interstatali. Gl'investimenti stranieri mancano del tutto nei paesi socialisti, dove si riscontrano soltanto eventuali aiuti gratuiti (cioè doni) da parte di altri paesi socialisti (è il caso soprattutto del Vietnam del nord e della Mongolia), o prestiti a basso interesse a lunga scadenza, o collaborazione tecnica (per es., fino al 1960 specialisti sovietici in Cina; fino al 1964 specialisti cinesi in Mongolia; dopo il 1965 specialisti cinesi per diversi paesi del Terzo Mondo). Gl'investimenti stranieri sono invece cospicui - specialmente da parte delle società multinazionali - in parecchi paesi asiatici capitalistici, sia in quelli sviluppati, sia soprattutto in quelli sottosviluppati.
Basterà ricordare l'estrazione del petrolio nell'A. sudoccidentale e in Indonesia, in gran parte opera di società europee e statunitensi; l'estrazione e la raffinazione dello stagno nella Malaysia occidentale, controllate per il 40% da società inglesi; la produzione del caucciù nello stesso paese (60%); l'industrializzazione recente della Corea del Sud, di Singapore, di Hong Kong, quasi interamente opera di capitali stranieri; le 35.000 società operanti fuori del Giappone cui partecipa capitale giapponese.
Per quanto riguarda le intese economiche interstatali (subregionali) in A. - le cui iniziative sono state numerose nell'ultimo quindicennio - quelle che sembrano essere le più importanti sono la Regional cooperation for development, che dal 1964 raggruppa Iran, Pakistan e Turchia, e l'Association of South-East Asia Nations (ASEAN), che dal 1967 raggruppa Indonesia, Malaysia, Singapore, Thailandia e Filippine. Si può dire in generale che tali raggruppamenti sono serviti ben poco alla dichiarata espansione degli scambi tra i paesi stessi in via di sviluppo, espansione attualmente difficile, in linea generale, soprattutto per l'analogia delle strutture economiche e delle produzioni: tant'è vero che l'interscambio reciproco dei paesi asiatici in via di sviluppo (paesi arabi esclusi) è diminuito percentualmente, rispetto al totale del loro interscambio, ben della metà tra il 1950 e il 1972. Le intese economiche servono soprattutto da un lato a favorire l'interscambio tra i paesi in via di sviluppo e gli stati capitalisti sviluppati che, in forma aperta o velata, ne sono stati i promotori (in primo luogo SUA, Gran Bretagna e Giappone); in secondo luogo, a rafforzare i blocchi militari già esistenti (rispettivamente, CENTO e SEATO) o a prepararne di nuovi, favorendo intanto la penetrazione dei capitali dei paesi capitalisti sviluppati. A questa stessa logica obbediscono anche gli organismi internazionali asiatici dove i paesi capitalisti sviluppati hanno il predominio, dato che sono i principali finanziatori. La percentuale dei crediti concessi da questi organismi ai paesi in via di sviluppo è tanto più alta quanto maggiore è la loro fedeltà agl'ideali capitalistici. Per es., la Development Asiatic Bank, creata (1963) per iniziativa dell'ECAFE, conta come membri 36 stati, dei quali però 14 sono paesi sviluppati dell'Europa occidentale e dell'America Settentrionale: e di questi agli SUA e al Giappone, che sono i maggiori azionisti, spetta il 34% dei voti, contro il 35% di tutti i paesi asiatici in via di sviluppo. Dei crediti concessi dalla banca sotto forma di aiuto finanziario a tutto il 1971 circa il 40% era stato concesso agli stati più filoccidentali (Vietnam del Sud, Taiwan, Corea del Sud). E un altro 20% era stato concesso a Singapore a Malaysia, paesi fra l'altro il cui reddito pro-capite è inferiore solo a quello giapponese (ma anch'essi sicuramente filoccidentali). Caso diverso, ma solo in parte, quello dell'India, che da alcuni anni va concedendo doni, crediti e assistenza tecnica (per il momento soprattutto nei campi dell'artigianato e dell'industria leggera, ma con offerte anche nel campo dell'industria pesante) ad altri paesi asiatici in via di sviluppo. Ma la prevalenza della sua azione nei paesi del subcontinente indiano (Bangladesh, Nepal, Śri Lanka) lascia intendere che lo scopo finale dell'operazione è quello di rendere possibile un ampliamento delle esportazioni di prodotti indiani.
Bibl.: Le fonti statitistiche essenziali per lo studio della situazione geografico-economica dell'A. rimangono le pubblicazioni dell'ONU e dei suoi enti specializzati. Si segnalano in particolare dell'ONU lo Statistical Yearbook, il Demographic Yearbook, l'Yearbook of national Accounts Statistics, l'Yearbook of International trade Statistics, della FAO, il Production Yearbook, il Trade Yearbook e La situation mondiale de l'alimentation et de l'agriculture. Fondamentali le pubblicazioni curate dall'ECAP [già ECAFE] di Bangkok, in primo luogo il trimestrale Economic bulletin for Asia and the Pacific [già Economic bulletin for Asia and the Far East], con una annuale Survey. Non si sono peraltro trascurati gli apporti di singoli studiosi e di altri enti. Per i paesi socialisti si sono utilizzate prevalentemente le fonti statistiche ufficiali dei singoli paesi e del Comecon (principalmente lo Statističeskij ežegodnik stran-členov SEV [= Annuario statistico dei paesi membri del SEV o Comecon]), e - talvolta - attendibili studi di esperti e di organizzazioni del mondo occidentale. Per i paesi socialisti un ricchissimo repertorio di informazioni, ben raccolte dalle fonti più varie e sistemate con cura, costituisce il volume Il portolano del mondo economico (paesi socialisti), Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana, Milano 1972. Elaborazioni d'insieme per l'A. e le sue principali regioni sono in L. Dudley Stamp, Asia. A regional and economic geography, Londra, e in East, Spate, Fisher, The changing map of Asia. A political geography, Londra 1974 (ristampa della 5ª ediz. 1971). Nonostante il titolo, il poderoso studio di G. Myrdal, Asian Drama, An Inquiry into the Poverty of Nations, rigaurda soltanto l'A. meridionale e sudorientale (in trad. it., Saggio sulla povertà di undici paesi asiatici, 3 voll., Milano 1971). Utili elementi e informazioni è dato riscontrare anche in numerose opere dedicate al terzo mondo in generale e nelle geografie regionali (in primo luogo la collezione Magellan, diretta da P. George, in corso di traduzione anche in italiano). Su argomenti specifici qui accennati si possono trovare puntuali ricerche, oltre che sulle riviste geografiche straniere, sulle riviste Tiers Monde (Parigi), Terzo Mondo (Milano), China Quarterly (Londra), Population (Parigi), Narody Azii i Afriki ("Popoli dell'Asia e dell'Africa", Leningrado), Mirovaja ekonomika i meždunaroduye atnošenija ("Economia mondiale e rapporti internazionali", Mosca). Per l'aggiornamento dei dati relativi alla geografia politica utilissime le pubblicazioni annuali Statesman's Yearbook (Londra) e Meždunaroduyi ežegadnik (Annuario internazionale, Mosca). Per le informazioni geografiche correnti, oltre alle rubriche delle riviste geografiche, comodi prontuari sono le riviste Cartactual (bimestrale, Budapest), e Geographical Digest (annuale, Londra).
Lingue. - A differenza di quanto si è verificato per l'Africa, il venir meno dei vari imperi coloniali non ha portato fondamentali cambiamenti dell'assetto sociolinguistico degli stati asiatici, perché modesta era stata nel complesso la diffusione effettiva delle lingue europee, al di fuori della cerchia dell'amministrazione e in genere delle élites culturali. Diverso era il caso del portoghese: a Timor, Goa e negli altri possedimenti asiatici la penetrazione, antica e profonda, aveva dato luogo alla nascita di lingue creole; tuttavia la modesta estensione di questi territori rende quasi trascurabile la presenza del portoghese in Asia.
Nello sviluppo linguistico recente del continente asiatico cercheremo d'individuare, tra i molti, quattro gruppi di problemi specifici: 1) costituzione o scelta di una lingua nazionale; 2) sua standardizzazione; 3) alfabetizzazione, riforma ortografica, ecc.; 4) sviluppo delle lingue minoritarie. Questi quattro punti verranno esemplificati con dati tratti da varie situazioni asiatiche (sulle quali si cercheranno notizie più dettagliate sotto i singoli esponenti) in modo da mettere in luce certe tendenze comuni a tutto il continente.
1) Per molti stati asiatici il problema della scelta di una lingua ufficiale non si è mai posto. Una tradizione spesso, anche se non sempre, plurisecolare aveva stabilito una lingua ufficiale e quindi anche nelle ex-colonie è questa la lingua tornata ad essere lingua ufficiale, anche dove nel paese sono parlate più lingue. Così se è ovvio, per es., che il persiano sia la lingua ufficiale dell'Iran, ovvio è altrettanto che il vietnamita lo sia ora del Vietnam, il laotiano del Laos, il siamese del Siam ecc. Ma non in tutti gli stati la scelta era così precostituita. In India la questione della lingua nazionale era in discussione già prima dell'indipendenza (a Sri-lanka si è posta solo dopo ed è stato preferito il singalese al tamil). La Lega dei mussulmani indiani sosteneva l'urdu, mentre molte personalità del Congresso nazionale indiano (tra cui Gandhi, Tilak, Rajagopalachari) sostenevano lo hindi, che non era, si noti, la loro lingua materna, come unica lingua ufficiale e nazionale. Nel 1925 Gandhi riuscì a far pronunciare per lo hindi (nella sua forma più comunemente comprensibile di hindi-hindustani, o semplicemente hindustani) il Congresso nazionale. Lo hindi non è la lingua maggioritaria dell'India, giacché è parlato dal 30,37% della popolazione (censimento del 1962) rispetto allo 8,57 del telugu, al 7,71 del bengali, al 7,57 del marathi ecc. Tuttavia i parlanti delle altre numerose lingue indiane (la costituzione indiana ne riconosceva 14 come regional languages, e cioè assamese, bengali, gujarati, hindi, kannada, kashmiri, malayalam, marathi, oriya, panjabi, sanscrito [sic], tamil, telugu, urdu, cui si è aggiunto più recentemente il sindhi) non potevano offrire come alternativa effettiva che il ritorno all'inglese, almeno come seconda lingua ufficiale (di fatto l'inglese è parlato solo da un'élite che rappresenta il 2% della popolazione, ma ha il pregio di non appartenere ad alcun gruppo etnico e di essere quindi politicamente neutro).
La diffusione dello hindi era appoggiata anche da organismi volontari, come il Nagari Pracharani Sabha (attivo fin dal 1893) e da singoli stati, come l'Uttar e il Madhya Pradesh, il Rajasthan, il Bihar, lo Haryana. Tuttavia, benché la costituzione prevedesse la completa sostituzione dell'inglese entro quindici anni dall'entrata in vigore (e quindi dopo il 1965), lo hindi non ha fatto molti progressi e continua a trovare forti ostilità da parte dei gruppi di altra lingua materna.
In Pakistan prima dell'indipendenza si pensava che l'urdu avrebbe potuto diventare senza difficoltà la lingua nazionale. In realtà esso era parlato solo dal 7,2% della popolazione, ed era quindi la terza lingua, dopo il bengali (54,6%) e il panjabi (28,4%), anche a prescindere dal fatto che esso era la lingua dei mussulmani (e dunque solo di una parte dei Pakistani). Già nel 1952 cominciarono violente agitazioni a Dacca in favore del bengali, e così, nel 1956, la costituzione dovette riconoscere urdu e bengali come le due lingue ufficiali del Pakistan. Il nuovo stato del Bangladesh, nato dalla secessione del Bengala orientale, è oggi uno stato linguisticamente omogeneo, di lingua bengali.
Un altro stato che pur non essendo linguisticamente omogeneo (conta infatti oltre 200 gruppi etnici) si è pronunciato a favore di una nuova lingua nazionale è l'Indonesia. Sottrattasi agli Olandesi, l'Indonesia ha adottato, come risultato di un movimento iniziato nel 1918 dai membri indonesiani del Volksraad olandese, quale lingua ufficiale e nazionale la bahasa indonesia, una forma di malese, nel 1948 (si ricorderà che dal 1967 il malese è la lingua ufficiale della Malaysia).
2) Al problema della standardizzazione non sfugge invece nessuna lingua asiatica, se per standardizzazione s'intende non solo l'eliminazione delle oscillazioni e delle variazioni e la costituzione di un'unica varietà standard di riferimento, ma l'adeguamento della lingua alle sempre maggiori esigenze di comunicazione internazionale.
Il processo di standardizzazione non può essere affidato al caso, e quindi in tutti gli stati sono al lavoro commissioni che vigilano sullo sviluppo della lingua nazionale, accettando parole nuove e rifiutandone altre, creando con i mezzi della lingua stessa o accettando parole straniere. In India per es., è stato costituito nel 1950 un Board of scientific terminology, poi sostituito dalla Standing commission for scientific and technical terminology, che doveva elaborare un corpus di 350.000 nuove parole (attualmente solo una parte del lavoro è stata compiuta). In Cina la standardizzazione è stata affrontata ufficialmente nel 1956, e ha portato alla definizione di quella che è detta variamente putōnghuà, "lingua comune" o guóyu, "lingua nazionale", e cioè una varietà di cinese settentrionale (che è già la lingua materna di quasi metà dei Cinesi) con la fonetica di Pechino. L'impulso dato all'alfabetizzazione e alla stampa favorisce automaticamente l'immissione dei nuovi termini, che vengono tutti ricreati in cinese, senza far ricorso a prestiti da altre lingue. In Indonesia invece vengono preparate liste di vocaboli (istilah) e dizionari tecnici (kamus istilah); inoltre sono numerose le riviste dedicate esclusivamente ai problemi del malese e dell'indonesiano (tra le altre Medan Bahasa, Pembina Bahasa in Indonesia; Dewan Bahasa, Bahasa in Malaysia; alcune tra queste hanno sospeso le pubblicazioni).
3) Forse per quasi tutte le lingue esiste almeno un movimento di riforma ortografica (l'ultima riforma in ordine di tempo è quella dell'indonesiano). L'esempio più significativo è quello del cinese.
L'idea di riformare il sistema di scrittura cinese risale al 1892 (con Lu Kan-chang); nel 1913 venne proposto un sistema fonetico a base cinese, ma semplificato; a questo seguì il sistema latinizzato del linguista Yuan Ren Chao, verso gli anni 20, e poi, verso gli anni 30 un altro sistema anch'esso a base latina (il Latinxuta sin wenzi, ("nuova ortografia romanizzata") nato originariamente in A. sovietica per i circa 100.000 cinesi dell'URSS. Quest'ultimo sistema venne appoggiato dai comunisti cinesi e importato nelle zone sotto controllo comunista. Si ricorderà che alla latinizzazione della scrittura veniva attribuita grande importanza ideologica, in quanto mezzo di liberazione dal tradizionale ed elitario sistema ideografico. Abbandonato durante la seconda guerra mondiale e ripreso dopo il 1949, il movimento per la latinizzazione ha portato alla creazione della grafia detta pīn-yīn, interamente a base latina. Approvato ufficialmente nel 1958, ma già in uso precedentemente per scopi ausiliari (trasmissioni telegrafiche, catalogazione delle biblioteche ecc.) il pīn-yīn non è ancora stato adottato estesamente in sostituzione degl'ideogrammi, anche se la sua sostituzione era stata fissata per il settembre 1975. Più fortuna ha invece avuto un'altra riforma ortografica, e cioè quella per la semplificazione grafica (cioè la riduzione dei tratti superflui) dei caratteri cinesi. Iniziata nel 1935 su un campione di 354 caratteri, essa è proseguita in varie riprese, fino a raggiungere nel 1956 i 3000 caratteri di uso più comune.
4) La nostra conoscenza della situazione etnolinguistica asiatica era ben modesta fino all'ultima guerra. Tolte le grandi comunità e le lingue dotate di scrittura, ben poco si sapeva delle migliaia di gruppi etnici, inaccessibili all'osservatore europeo. Accanto al problema del rilevamento obiettivo, condotto con criteri scientifici, delle caratteristiche di questi gruppi, esiste il problema ben più grave del conferimento di status a queste lingue minoritarie e della loro alfabetizzazione. Non molti paesi hanno un piano nazionale in questo senso, il più delle volte per motivi di supremazia del gruppo dominante, anche se è ovvio che un programma esteso non può che essere condotto su scala nazionale e da ricercatori locali ed esperti. Fa eccezione la Cina che fin dal 1951 ha intrapreso un programma di rilevamento e di alfabetizzazione delle oltre 40 lingue parlate sul suo territorio (mongolo, uiguro, cazaco, miao, tibetano, ecc.), parallelo al rilevamento di tutti i dialetti cinesi. A partire dagli anni Sessanta hanno cominciato ad apparire in Iran pubblicazioni (dizionari e grammatiche) sull'azeri dell'Azerbaijan, del tutto assenti nei decenni precedenti. Accanto a questa attività più specificamente politica c'è l'aspetto dello studio scientifico delle proprie lingue. Compatibilmente con le risorse disponibili, gli ultimi decenni hanno visto il sorgere di studi linguistici di tipo scientifico, anche non applicato, non solo in quei paesi che avevano una lunga tradizione in questo campo, come il Giappone, ma anche negli altri (Mongolia, Vietnam, ecc.).
Bibl.: Sui problemi generali vedi J. A. Fishman, C. A. Ferguson, J. Das Gupta, Language problems of developing nations, New York 1968. Per l'India, Pakistan e Ceylon: J. Das Gupta, Official language problems and policies in South Asia, in Current trends in linguistics, V. Linguistics in South Asia, l'Aia 1969, pp. 578-96; B. B. Kachru, English in South Asia, ivi pp. 627-78. Per l'Indonesia: I. Hilgers-Hesse, Indonesisch, Colonia 1956; S. Takdir Alisjahbana, Indonesian language and literature, New Haven Conn. 1962, pp. 1-22; id., Some planning processes in the development of the Indonesian/Malay language, in Can language be planned?, a cura di J. Rubin e B. Jernudd, Honolulu 1971. Per la Cina, J. De-Francis, Language and script refory, in Current trends in linguistics, II. Linguistics languages, ivi, pp. 151-76; S. Egerod, Dialectology, ivi, pp. 91-129; P. Kratochvil, The Chinese language today, Londra 1968, pp. 13-22. La più recente opera d'insieme sui problemi linguistici dell'Asia è Imperialismi, identità nazionali e politiche linguistiche, a cura di R. Corsetti, Roma 1976, di cui si vedano i contributi di A. Bausani, U. Marazzi, R. Raza, A. V. Rossi, L. Santa Maria (con bibliografia aggiornata).