ASIA MINORE o Anatolia
ASIA MINORE o Anatolia (A. T., 88-89).
Sommario. - I. Storia dell'esplorazione (p. 904); Morfologia e geologia (p. 906); Clima (p. 907); Flora (p. 909); Fauna (p. 912); Regioni naturali (p. 912); Popolazione (p. 912); Antropologia (p. 916). - II. Storia prima del periodo greco (p. 917); Lingue antiche (p. 918); L'età greca (p. 920); L'età romana (p. 921); L'età medievale (p. 931); L'Asia Minore nella politica europea (p. 936).
Nel testo si è adottata per i toponimi la nuova grafia ufficiale turca del 1928, sostituendo tuttavia, per chiarezza, all'i senza punto (ı) il segno ï.
L'Asia Minore ('Ασία ἡ ἐλάττων, ἡ μικρά dei primi secoli dell'era volgare) o Anatolia (nome che si comincia a incontrare nel sec. X), è la grande penisola che dall'Asia anteriore si protende fra il Mar Nero e il Mar di Levante verso occidente, dove l'Egeo e gli Stretti la separano dalla penisola balcanica. Il suo confine orientale può esser segnato da una linea che unisca il golfo di Alessandretta (Iskenderūn) alla baia di Giresun sul Mar Nero, seguendo le falde occidentali dell'Amano (Almadaǧ) e risalendo fin oltre Egine il corso dell'Eufrate, così da lasciare ad E. l'altipiano armeno. Entro questi confini, l'Asia Minore ha una lunghezza di quasi 1200 km, una larghezza massima di 680 e minima di 480 km., una superficie di circa 500.000 kmq. Confini poco diversi assegna alla penisola il Banse (v. bibl.), il quale li pone alquanto ad occidente del corso dell'Eufrate e vi comprende invece la zona costiera pontica più occidentale; quindi anche l'area ne risulta lievemente aumentata (525.000 kmq.).
Politicamente, all'infuori delle isole appartenenti alla Grecia e all'Italia, l'Asia Minore fa parte del territorio della Repubblica turca del quale costituisce circa i ⅔ dell'area.
Storia dell'esplorazione. - Per buona parte l'esplorazione moderna di questa regione può dirsi il nuovo scoprimento di terre che furono già parte del mondo classico greco e romano, ma la cui civiltà ebbe a subire un oscuramento totale se non addirittura la completa rovina dopo il sec. XI per l'avvento dei Turchi. Onde il gran numero di spedizioni con intento archeologico e storico anziché propriamente geografico. La vicinanza all'Europa favorì non pochi viaggi occasionali e relazioni puramente pittoriche e descrittive: tanto più che la posizione geografica della penisola ne fa un paese di transito, sia per i visitatori di Terra Santa per la via di terra, sia per molti tra i viaggiatori che si recano in Mesopotamia, in Persia e oltre, o ne ritornano. Nella seconda metà del sec. XIX finalmente le esplorazioni divennero mezzo ad estendere le influenze politiche ed economiche (soprattutto da parte della Germania) in tutto il vasto territorio della Turchia asiatica.
Nei primi secoli dell'oppressione turchesca rari sono in verità i viaggiatori europei che attraversino la regione, ché commercianti e missionarî diretti verso l'Asia interna evitano l'Anatolia e mettono capo piuttosto ai porti dell'Armenia e della Cilicia. Così che appena è da citare, per notizie sull'Asia Minore, un breve capitolo di Marco Polo, partito per l'interno da Aias (Laiazzo, nel Golfo di Alessandretta) alla fine del 1271. Fu invece non brevemente in Asia Minore (fra il 1396 e il 1402) e ne descrisse con note ingenue le principali città Johann Schiltberger, bavarese, fatto prigioniero dal sultano Bāyazīel, poi trascinato per lunghi anni al seguito di Tamerlano. E anche dette ottima relazione dell'Asia Minore il cronista francese Bertrandon de la Brocquière (1432-33), reduce dalla Terra Santa a Costantinopoli per Adana, Konya (Conia) e Brussa (dove trovò buon numero di Genovesi). Dalla costa di Caramania poi (a mezzodì dell'Anatolia) s'internò arditamente, diretto in Persia a cercar nemici alla potenza ottomana, il veneziano Josafat Barbaro nella sua memoranda ambasceria del 1471-1474.
Lo stato di ostilità così frequente fra il dominio ottomano e le potenze cristiane impedisce quasi ogni viaggio europeo nei secoli XVI e XVII. Ma nella seconda metà del sec. XVIII, tralasciando visitatori di minore importanza, abbiamo la prima spedizione archeologica inglese in Lidia e in Frigia diretta da R. Chandler. Col sec. XIX si iniziano vere spedizioni geografiche. Nel 1800 il colonnello W. M. Leake percorre una considerevole porzione della penisola da NO. a SE., visitando luoghi classici in Licia e in Misia, e traccia poi una carta della regione, che è la migliore dell'epoca. L'anno dopo, E. Daniel Clarke esplora la Troade, indi la costa di Caramania (Panfilia e Cilicia); e molte informazioni geografiche e archeologiche raccoglie J. J. Morier in due traversate dell'Asia Minore (1808, 1816), recandosi dalla Persia a Costantinopoli. Nel 1813 e 1814 J. Macdonald Kinneir compie una serie di viaggi lungo la parte settentrionale della penisola e attraverso ad essa da NE. a SO. e da SE. a NO. La Troade, visitata già anche da J. F. Le Chevalier, viene illustrata nei suoi aspetti storici e attuali da da P. Barker Webb (1819), il quale, fra l'altro, identifica l'antico Scamandro.
Il colonnello Chesney, nel suo studio delle vie di comunicazione marittime e fluviali con l'India, percorre anche l'Asia Minore nel 1830, viaggio preliminare della sua famosa spedizione all'Eufrate. Hanno importanza per l'archeologia e per la geografia antica della penisola i varî viaggi che vi fece, tra il 1837 e il 1844, sir Charles Fellows, principalmente nella mal nota Licia; tali viaggi gli diedero occasione di modificare in molti particolari le carte esistenti. Dati per la topografia e la geologia raccolse anche W. F. Ainsworth, prima nella regione montuosa a N. e a NO. di Angora, poi in una traversata dal Bosforo alla frontiera persiana (1839-40) per vie dirette in territorî poco conosciuti. A questo stesso periodo appartengono anche i viaggi per tutto il Levante mediterraneo di B. Poujoulat.
Sono appena da menzionare la traversata dell'Asia Minore da NO. a SE. di E. L. Osbaldeston Mitford in un viaggio all'India per via di terra, le visite fattevi nel 1846 e nel 1858 dal grande viaggiatore africano dott. Barth, la dimora a Smirne negli anni seguenti al 1850 e le escursioni ornitologiche di Orazio Antinori.
Più importanti per l'estensione e la profondità degli studî compiuti furono la spedizione francese diretta da I. Hommaire de Hell, nel 1846-48, nella Turchia asiatica; i quattro viaggi di Teodoro Kotschy dal 1836 al '67 nella penisola e nella vicina Cipro; i sette viaggi condotti in tutte le parti della penisola e nell'Armenia tra il 1847 e il 1850, e poi ancora nel '53 e nel '58, dal naturalista russo Paolo Čihačev (Tchihatchef), con ricca messe di osservazioni geologiche e botaniche, esposte negli otto volumi della sua Asie Mineure (Parigi 1852-69), e la spedizione inglese del 1879 di Tozer e Crowder, i quali traversarono un'area considerevole dell'Asia Minore settentrionale ed esplorarono il lago di Vān. L'istituzione di un consolato britannico in Asia Minore nel 1879 diede occasione a sir Charles Wilson e ai suoi ufficiali di raccogliere molto materiale geografico in circa tre anni di lavoro; fu così compiuto un rilevamento del Tauro dai monti della Licia alla frontiera persiana, dell'Antitauro, della pianura di Cilicia, di parte della Paflagonia, ecc.
Anche le investigazioni storico-archeologiche diedero spesso occasione a lavori geografici. Così la miglior relazione sulla geologia della Troade del sud è di J. S. Diller, che faceva parte di una missione archeologica americana ad Assos. Contributi geografici portarono anche gli studî archeologici condotti in Frigia, in Cilicia e nel Tauro da W. M. Ramsay nel 1883 e negli anni seguenti; e abbondanti osservazioni di primaria importanza, raccolte con raro discernimento e competenza, riportò D. G. Hogarth dai suoi numerosi viaggi in Levante, dal 1887 al 1902.
Soltanto in parte toccano l'Asia Minore i viaggi del capitano F. R. Maunsell, che, avendo profittato del proprio servizio ufficiale nel 1892 e negli anni successivi per compiere una serie di viaggi nel Kurdistān, costrusse poi una carta della Turchia asiatica orientale, in buona parte su dati raccolti da lui stesso. Anche il colonnello P. H. Massy, ufficiale consolare, esplorò per sette anni, fra il 1896 e il 1903, oltre alla regione attorno a Erzerūm e al lago di Vān, anche la contrada di Adana, il Tauro e l'Antitauro.
Fra il 1897 e il 1901 si recò tre volte in Asia Minore lord Percy (Warkworth), visitando l'Anatolia, l'Armenia, e il prolungamento orientale del Tauro e dell'Antitauro, fin presso alla frontiera persiana. Le sue relazioni sono principalmente interessanti per quanto riguarda le condizioni politiche del paese e le razze che vi si contendono il predomino.
Ma, assai più che per le altre nazioni europee, l'Asia Minore fu, durante il sec. XIX, un campo speciale di investigazione per i Tedeschi. Col 1845 uscì in luce la prima carta nuovamente elaborata comprendente l'intera regione (in 6 fogli) per opera di Heinrich Kiepert, che aveva visitato la penisola nel 1840-41 e la visitò poi ancora nel 1870, nell'87 e nell'88; ancor più preziosa la sua carta alla scala 1:250.000 in 17 fogli dell'Asia Minore occidentale, comparsa nel 1892, fondata, oltre che sull'esperienza di lui, su tutti i dati migliori minutamente vagliati. Al Kiepert è anche dovuta la prima carta della Troade, la quale servì di base a quella geologica del Philippson modificante la precedente dello Tchihatchef. Le maggiori aggiunte di esploratori tedeschi alla conoscenza geografica dell'Asia Minore sono quelle dovute al maggiore von Diest, il quale nei suoi viaggi (1886-1896), condotti soprattutto a partire dalla ferrovia anatolica fra Kocaeli (Izmid) e Angora, completò la carta al 500.000 di un'area considerevole del NO. della penisola. Seguono, tra gli altri, E. Naumann, che traversò la penisola nel 1890 e 1894, R. Oberhummer e H. Zimmerer, che esplorarono e rilevarono per i primi (1896) la porzione del fiume Kïzïlïrmak a S. di KïrŞehir nell'Anatolia centrale. Poi il dott. R. Leonhard in tre viaggi (1899-1903) percorse distretti poco conosciuti nelle provincie settentrionali, raccogliendo note sulla geologia, morfologia, topografia e sulle popolazione salendo anche la vetta più alta dell'Aladaǧ. Menzioniamo ancora l'esplorazione archeologica sistematica promossa dall'Accademia di Vienna negli anni 1891-95, un rilevamento geologico dei distretti montuosi a SE. compiuto nel 1901 dall'austriaco F. Schaffer, la spedizione di A. Penther ed E. Zederbauer nel 1902 all'Ercasdaǧ (Ergias, Argeo; la più alta vetta della penisola, 3830) nell'Anatolia orientale, i viaggi di Alfredo Philippson nelle provincie occidentali (1902-1904) che diedero come frutto la costruzione d'una carta topografica e d'una geologica alla scala 1:300.000, la spedizione di H. Grothe (1906-07) che esplorò particolarmente l'Antitauro traendone copiose osservazioni. Parecchie esplorazioni tedesche sarebbero ancora da menzionare, promosse anche da una società costituita nel 1902 in Berlino per l'esplorazione scientifica della regione (Deutsche Gesellschaft für die wissenschaftliche Erforschung Anatoliens), con propositi soprattutto di scavi archeologici.
Poco prima del Grothe, nel 1904 e nel 1906, il tenente di vascello L. Vannutelli, sotto gli auspici della Società geografica italiana, viaggiò a lungo attraverso i vilāyet settentrionali dell'Anatolia, e poi nella sua parte occidentale e meridionale e in Mesopotamia, per studiare i problemi economici, sociali e politici di quelle regioni; e ne scrisse due relazioni largamente documentate. Sono da menzionare gli studî archeologici di sir W. M. Ramsay e di miss Gertrude Bell, e l'altra spedizione, di poco posteriore, pure con intenti archeologici, condotta nel 1909 da Angora a Ereǧlï da R. Campbell Thomson, che rilevò l'itinerario col sestante e la bussola. Così anche W. Leaf trasse occasione da un'escursione archeologica nella Troade per correggere le carte del Kiepert e del Philippson. Di uguale carattere: l'ultima spedizione promossa dall'Istituto archeologico di Vienna nel 1926, diretta dai professori Keil e Theuer, per scavi e ricerche ad Efeso; i viaggi in Anatolia di E. Nowack nel 1926-27 per conto del governo turco, e l'importante spedizione scientifica diretta dal polacco L. Sawïcki nel 1927 in Bitinia, Cappadocia, Antitauro, Licaonia e Frigia.
Si accenna qui soltanto, come durante la guerra europea sia stata rilevata la carta di una larga zona del Kurdistān centrale a O. e a N. di Süleymanye, in base a rilievi fatti eseguire nel 1918 dall'ufficio trigonometrico indiano (maggiore Mason). Mentre però tanto rimane da completare nella topografia dei complicati sistemi montuosi del Kurdistān, nell'Asia minore manca tuttora un'esplorazione sistematica delle alture della Licia, di molte ramificazioni del Tauro, dei massicci isolati della Frigia centrale e della Cappadocia. Del resto in tutta la Turchia asiatica, lontano dai porti principali e dalle linee ferroviarie, rimane da fare molto lavoro esplorativo e cartografico; è almeno da sperare che la nuova prossima costruzione di una diffusa rete di ferrovie avvii a sollecito compimento il rilevamento delle parti più importanti del paese.
Morfologia e geologia. - Nell'insieme l'Anatolia è un grande altipiano ad altezza media di 1000 m., strettamente connesso all'altipiano armeno e in parte fiancheggiato com'esso, a N. e a S., da rilievi marginali cadenti ripidi verso l'esterno: a N. i Monti Eusini o Pontici occidentali, non molto elevati (fino a 2370 m. con l'Aladaǧ), paralleli alla costa del Mar Nero, e le cui giogaie interne si prolungano fino a S. del Mar di Marmara; a S. la catena del Tauro ed il Tauro di Licia: quello alto 3000 m. (e fin 3560 col Bulǧardaǧ) e prolungato ad oriente nell'Antitauro, questo in forma di concavo altipiano orlato verso mare da una chiostra elevantesi a 3200 m. Fra il Tauro ed il Tauro di Licia s'incurva il golfo di Adalia, che ha una breve piana costiera; un'altra pianura assai più estesa è quella di Cilicia sul golfo di Adana; nel resto le coste meridionali sono alte e continue, come le settentrionali.
Contrastano con esse le numerose articolazioni e la ricca frangiatura insulare della costa occidentale, le cui profonde insenature, con le valli che ad esse fan capo, improntano di sé tutta la parte occidentale dell'Asia Minore, press'a poco fino al meridiano di Costantinopoli: abbiamo qui una regione marginale assai ampia, che può chiamarsi regione egea, smembrata in catene montuose, colline e pianure di svariatissima altezza, estensione e direzione. Per rendersene conto è necessario tener presente che il Mar Egeo è il risultato di sprofondamenti e abbassamenti regionali avvenuti in tempi assai recenti; Asia Minore e Grecia sono fra loro strettamente legate, e della configurazione e natura della Grecia partecipa la zona anatolica occidentale. Le insenature della costa sono valli sommerse, come lo sono l'Ellesponto e il Bosforo, profondi al massimo 120 m.; in dipendenza stretta della costa sono le isole, quasi tutte legate ad essa dall'isobata di 100 m. Valli e golfi rappresentano spesso fosse e bacini tettonici, che si succedono da N. a S. in serie aventi direzione EO.: maggiore fra tutti il complesso bacino del Mar di Marmara, profondo 1400 m.; via via più a S. le fosse dei fiumi Bakïrçay (Caico), Gedizçay (Ermo), Kükük Menderes (Caistro), Büyük Menderes (Meandro), dei golfi di Coo e di Simi, e del canale di Rodi. Il rilievo è particolarmente vario e disordinato per la diversa direzione di tali affossamenti rispetto alle pieghe, prevalentemente meridiane.
Il grande altipiano anatolico, diviso in varî scomparti da rilievi montuosi isolati o in catene, non scende in nessun punto sotto gli 800 m. di altitudine. In parte, oltre 100.000 kmq., è una regione chiusa, in parte è drenato da fiumi notevoli, come il YeŞil (Iris), il Kïzïl (Alis) e il Sakarya (Sangario) verso il Mar Nero, il Seyhun (Saro) e il Cayhun (Giaihun) (Piramo) verso il Mar di Levante. Vi si distinguono una zona orientale, circuita dall'Alis e che il grande vulcano Argeo separa dall'Antitauro; una zona centrale, più delle altre arida e a carattere steppico, formata dall'accidentato altipiano di Galazia o di Angora (800-1400 m.) e dal chiuso tavolato di Licaonia (800-1200 m.), dove estesissime e sottili lame d'acqua, come il Tuzçölü, a 940 m. (v.), e l'AkŞehirgöl, nel quale termina il corso dell'Agarçay, si mutano d'estate in saline crostose; una zona occidentale, che dalla lunga giogaia dell'Olimpo Misico (2550 m.), ancora riferibile alle catene marginali, si lega mediante l'altipiano frigio, sparso di rilievi montuosi isolati, alle propaggini occidentali del Tauro e alla Pisidia ricca di conche lacustri (in parte carsiche), fra cui si annoverano il Kïrïligöl (1150 metri s. m., 680 kmq., profondità m. 9) e l'Egherdir-Göl (870 metri s. m.) d'acqua dolce, il Bundurgöl (920 m. s. m.) salmastro, l'Acigöl (840 m. s. m.) salato amaro. D'acqua dolce sono i laghi, che, tra i colli verdeggianti, si succedono nelle conche della Piccola Frigia (Manyasgöl, Abuliondgöl) e della Bitinia (L. di Nicea o Iznikgöl).
Le condizioni generali del rilievo si riflettono nell'aspetto delle valli e dei corsi d'acqua. I fiumi che sboccano nella regione egea settentrionale, come quelli che dal Tauro scendono alle coste meridionali (Köprilsu, Göksu), hanno, nonostante le forti piene primaverili, importanza soltanto nell'ultimo tratto del loro corso. I fiumi maggiori scorrono pigri e poco profondi, alterando appena l'uniformità delle distese pianeggianti, sul tavolato neogenico interno, e si fanno poi rapidi e spumeggianti attraversando, in anguste valli "giovani" di erosione, le catene settentrionali (Sakarya, Zïzïl, YeŞil): perciò le loro valli rappresentano uno scarso aiuto per le comunicazioni fra il mare e l'altipiano. Soltanto i fiumi del SE. e del SO, con le loro ampie e fertili vallate, consentono di risalire agevolmente sino al tavolato interno e hanno in ogni tempo offerto vie preferite di accesso.
La serie dei terreni costituenti l'Asia Minore comprende: 1. scisti cristallini e calcari marmorei, con graniti e altre rocce eruttive, che formano il grande massiccio cario-lidio e compaiono più o meno estesi in tutte le regioni dell'Anatolia, tranne la Licia e la Pisidia; 2. terreni paleozoici, dal Silurico al Permico, anch'essi presenti un po' dappertutto, tranne che a NE. e nella Licia e Pisidia, e formanti una serie prevalentemente calcarea con intercalazioni scistose e arenacee; 3. terreni mesozoici, trasgressivi sui precedenti, sviluppati con grande potenza nelle catene marginali, nella zona orientale dell'altipiano e nella Galazia, con caratteri analoghi a quelli del Mesozoico alpino e prevalenza assoluta di masse calcaree chiare; 4. terreni eocenici, calcarei e marnoso-arenacei, generalmente presenti là dove compaiono i mesozoici; 5. terreni neogenici, nettamente discordanti dai precedenti, potenti fino a 800 m., con prevalenza di marne e arenarie chiare, in parte marini (Miocene della Cilicia), in parte lagunari (serie gessifera e salifera delle zone orientali e settentrionali, serie sarmatica della Troade), ma per la massima parte d'acqua dolce e diffusissimi su tutto l'altipiano, con intercalazioni lignitifere; 6. terreni quaternarî, fra cui notevoli i depositi di terra rossa, i travertini, le alluvioni, le morene rarissime (Olimpo Misico, Argeo); 7. rocce ofiolitiche, in parte mesozoiche, in parte eoceniche (dioriti, diabasi, gabbri, peridotiti, alfiboliti, ecc.), quasi sempre serpentinizzate, estese soprattutto nelle zone settentrionali e occidentali dell'altipiano, nella regione egea, nel Tauro; 8. rocce neovulcaniche di ogni tipo (ma in prevalenza andesiti), molto largamente diffuse così sull'altipiano come nella regione egea, effuse durante tutto il Neogene ed una parte del Quaternario, e formanti colate orizzontali, estesi banchi tufacei, montagne vulcaniche semplici o complesse. Massima tra queste è il gigantesco Argeo (Ercasdag, Ergias, 3830 m.), vulcano a recinto con diametro medio di 40 km. e altezza relativa di 2700 m., con forme ormai fortemente intaccate dall'erosione: cima culminante della regione, e unica che ospiti anche oggi un ghiacciaio, la cui fronte è a 3100 m.
Si è accennato alla trasgressione mesozoica; essa subentrò a un forte corrugamento seguito da erosione subaerea. Generale ed intenso fu pure il corrugamento terziario, che si può datare dall'Oligocene e che interessò tutte le plaghe della regione, tranne le zolle pontiche, il Tauro Armeno e il massiccio cario-lidio. Le catene così formate ed emerse furono in parte scavate dall'erosione, talché i sedimenti neogenici si deposero sopra una specie di penepiano. Il grande lago pliocenico si estendeva fino alla Tracia, attraverso l'Egeide non ancora sprofondata. Soltanto alla fine del Pliocene e nel Quaternario antico ebbero luogo i grandi sollevamenti e abbassamenti, varî da punto a punto, dai quali derivarono l'attuale distribuzione delle terre e del mare e le attuali condizioni del rilievo. Postumo di così recenti attività endogene è la elevata sismicità della regione, massime nelle sue parti occidentali.
L'Asia Minore conta minerali svariati e molte miniere, ma in generale senza particolare ricchezza di giacimenti. Fra i minerali metalliferi sono importanti quelli di piombo e di zinco, talora anche cupriferi, connessi con rocce eruttive terziarie, e di argento (Misia, Tauro di Cilicia); ha pure importanza la cromite contenuta nelle serpentine dell'Anatolia occidentale. Fra i minerali non metallici sono speciali alla regione lo smeriglio (in masse lenticolari nei calcari marmorei del massiccio cario-lidio), la pandermite (borato di calcio idrato), contenuta nei gessi di Panderma sul Mar di Marmara, e la schiuma di mare (silicato di magnesio idrato), che abbonda nella breccia serpentina di EskiŞehir nella Frigia settentrionale; notevole è anche la produzione di carbon fossile a Eraclea (Ereǧli) sul Mar Nero, di ligniti (che hanno però un troppo alto tenore di zolfo), di salgemma, di pietra saponaria. Ricco di marmi assai pregiati nell'antichità è il massiccio cario-lidio.
Clima. - Nell'Asia Minore si possono distinguere tre zone climatiche: 1. la zona costiera occidentale e meridionale; 2. la zona costiera del Mar Nero; 3. la regione interna.
La regione occidentale della penisola e il versante esterno delle catene montuose che orlano a S. l'altipiano, sono caratteriz2ate da estati calde, serene e scarse di precipitazioni e da inverni temperati e piovosi, proprî delle regioni di clima mediterraneo. La vicinanza del mare e la disposizione e la direzione delle montagne fanno sentire la loro influenza nelle varie località, sia mitigando un po' i calori delle limpide giornate estive, sia fermando d'inverno le miti e umide correnti atmosferiche del S. e dell'O. foriere di abbondanti precipitazioni, mentre d'estate predominano i venti del nord che giungono dall'interno secchi e caldi. Le medie annue aumentano gradatamente da 16°, sul litorale N. dell'Egeo, a quasi 20° (Adana: 19°9) sulla costa meridionale. L'escursione annua è dovunque assai accentuata, ed è pure forte l'escursione diurna. A Smirne, p. es., essa è in media di 12°, maggiore nei mesi estivi (luglio 13°4), minore negli invernali (9°7 in febbraio). La media escursione mensile di Smirne è di 21°, essendo più accentuata d'inverno che d'estate. Il gennaio e il febbraio infatti hanno come valori estremi −1°8 e 19°7; il luglio e l'agosto invece 17°4 e 37°. La temperatura media del gennaio è 7°6, quella del luglio 26°8. La massima temperatura osservata fu 41°7, la minima −10°. Si contano in media annualmente 13,7 giorni di gelo e 17,7 giorni burrascosi. La media annua delle precipitazioni è di 650 mm., distribuita in 69 giorni. Il mese più ricco di precipitazioni è il dicembre con 131 mm., seguito dal gennaio con 110 mm. e dal novembre con 91 mm.; i mesi più scarsi sono l'agosto con 2 mm. e il luglio con 3 mm. Vi cade talvolta anche la neve, ma copre per poco tempo il terreno. Degni di menzione sono i forti improvvisi abbassamenti di temperatura che si notano abbastanza di frequente in primavera, come in tutto il Mediterraneo orientale.
L'escursione annua è più accentuata a Brussa (gennaio 4°, luglio 26°5). A Tarso, nella zona costiera meridionale, il mese più freddo (gennaio) ha una media di 10°, e il mese più caldo (luglio) di 28°8. Gli estremi annuali sono −0°5 e 45°. La quantità media annua delle precipitazioni, distribuite in 49,6 giorni, è di poco inferiore a quella di Smirne (610 mm.). Anche qui il mese più piovoso è il dicembre 1104 mm.) e il più secco l'agosto (4 mm.).
Costituisce una regione climatica particolare tutta la zona costiera del Mar Nero, caratterizzata da abbondanti precipitazioni, distribuite in tutte le stagioni dell'anno, con estati non molto calde, ma afose e umide, e con inverni crudi, umidi e nevosi. La quantità di pioggia diminuisce procedendo dalle coste orientali del Mar Nero a quelle del Mar di Marmara, dove troviamo la zona di transito fra le regioni climatiche pontica e mediterranea. Le temperature medie annue oscillano di poco intorno ai 14°. Su tutta la zona prevalgono tanto d'estate quanto d'inverno i venti marini del N. carichi di umidità, che perdono incontrando l'alta fascia dei monti Eusini. Trebisonda è la città tipica del clima umido e temperato della zona costiera settentrionale. L'escursione media diurna è di soli 7°; l'oscillazione media mensile è di 17° in autunno e in inverno, di 21° in primavera, di 15° in estate. La media del mese più caldo, l'agosto, è di 23°3, quella del mese più freddo, il gennaio, di 6°3. Gli estremi assoluti raggiunti in 10 anni di osservazioni furono −5°8 e 36°5. L'umidità atmosferica è rilevante durante tutto l'anno, maggiore d'estate (72%), minore d'inverno (68%). Talvolta nei mesi invernali spira, ma per poco, un vento secco e caldo di SO. Le precipitazioni raggiungono gli 875 mm. annui e sono distribuite in 128 giorni, più abbondanti nel dicembre (124 mm.) e nel novemhre (106 mm.), più scarse nel luglio (44 m .). Mentre a Batum, in Georgia, la differenza fra la media del mese più caldo (23°2) e quella del più freddo (6°1) è minore, e la quantità delle precipitazioni annue notevolmente maggiore che a Trebisonda, a Samsun invece, più ad occidente, la quantità di precipitazioni annue è già ridotta a 727 mm. distribuite su 82 giorni, essendo il mese più piovoso il novembre con 102 mm., e il più scarso di pioggia il luglio con 18 mm. Ancora minore è la quantità di precipitazioni a Sinope, ove la temperatura media annuale è di 14° (inverno 7°1; primavera 11°6; estate 21°2; autunno 16°1).
La regione interna è dominata da un clima continentale, che si va accentuando da occidente verso oriente, caratterizzato da forti escursioni termiche sia diurne sia annuali e da scarse precipitazioni, e sente gli effetti dell'altitudine. Gli inverni sono assai freddi e nevosi, le estati limpide e secche; durante il giorno la forte insolazione fa alzare notevolmente il termometro, ma le notti, in seguito alla rapida irradiazione dovuta alla secca trasparenza atmosferica, sono fresche, per cui le medie di temperatura risultano non molto alte. La quantità di precipitazioni annue è scarsa, l'estate è secca e generalmente è la primavera la stagione più piovosa. All'inizio dell'estate sono frequenti i temporali e le grandinate. Andando dal centro verso SE. alle piogge autunnali e primaverili subentrano a poco a poco le invernali. Nella zona centrale della Licaonia secondo la carta pluviometrica del Ricci cadrebbero annualmente meno di 200 mm. di pioggia. La diminuzione delle precipitazioni dalla costa settentrionale all'interno è quasi repentina. Infatti già a Merzifon, a 80 km. appena a SO. di Samsun, le precipitazioni annue raggiungono solo 420 mm., mentre ad Angora esse sono ridotte a 233 mm., a Eskiṣehir a 245 mm. e a Konya a 180 mm. I mesi più secchi sono il luglio, l'agosto e il settembre: il più piovoso il maggio.
Per la temperatura, Merzifon, a 750 m. sul mare, ha una media annuale di 10°3 (gennaio −1°4, luglio 19°9). Gli estremi assoluti di molti anni d'osservazione furono −22°2 e 33°. Cesarea, a 1070 m. d'altitudine, ha una media annuale di 12°6 e gli estremi assoluti raggiunti in due anni d'osservazione furono −18° e 29°9.
Nei luoghi più occidentali dell'altipiano le medie annue stanno fra 9° e 10°, quelle del gennaio fra 0° e −4°, quelle del luglio intorno a 20°. L'alta montagna periferica ha naturalmente temperature assai più basse, e il ricoprimento nevoso vi permane per varî mesi. Le carte delle isoterme (con le temperature ridotte al livello del mare) e la tabella alla pagina precedente completano il quadro delle attuali conoscenze sul clima dell'Asia Minore, basate su un numero assai limitato di stazioni e, per molte di queste, su un periodo assai breve di osservazioni.
Flora. - La vegetazione dell'Asia Minore è molto ricca di specie e ben provvista di endemismi, molto varia nella sua composizione, dai rododendri del Ponto dal fogliame verde-scuro e dalle vivide corolle ai frutici spinosi della steppa, dal cedro e dalle querce dei Tauri al platano d'oriente che costeggia i torrenti, dalla macchia mediterranea alle oasi culturali che possono trovarsi in piena steppa dove è possibile l'irrigazione. Vegetazione interessante anche perché in essa l'uomo primitivo ha trovato numerosi soggetti che sottopose a coltura e trasportò nelle sue emigrazioni in occidente e nell'Asia centrale. Vi si può anzitutto distinguere una zona pontica o colchica (proseguimento di quella che orla il litorale caucasico e che verso ovest si spinge sin verso il promontorio di Sinope), caratterizzata da un esuberante e potente rigoglio dovuto ad accentuata piovosità che permette un largo sviluppo alle formazioni forestali formate dal castagno, dal faggio, che scende a debole quota sul mare, dal Diospyros lotus, dalla Staphylea pinnata, Zelkowa crenata, Pterocarya fraxinifolia, ecc. Attorno ai tronchi degli alberi salgono e si intrecciano alcune liane, e tra queste è la vite, coltivata, ma anche affatto spontanea, tanto che molti botanici ritengono la regione del Ponto, come pure l'Armenia e il sud del Caucaso, la patria originaria da cui l'uomo avrebbe tratto i primi ceppi e alcune delle razze che doveva poi diffondere in Europa e in parecchi settori del resto dell'Asia. Ma non manca la boscaglia, che comprende arbusti tra cui i più espressivi sono i rododendri del Ponto (Rhododendron ponticum e Rh. flavum), il lauroceraso, il bossolo (Buxus) che qualche volta costituisce un consorzio a sé o forma il sottobosco di boschi di carpino, querce; e in qualche settore più riparato dai venti refrigeranti, meno piovoso e a pendio soleggiato e arido, si annida qualche colonia di sempreverdi di origine mediterranea (la macchia mediterranea) e boschetti formati da pini da pignoli. Le zone più elevate dei Monti Pontici sono coperte da bosco misto costituito da un faggio molto simile al nostro (Fagus orientalis), da due conifere (Abies nordmanniana e Picea orientalis), con sporadicamente dissemi nati il Taxus baccata ed il Pinus silvestris. Vi si trovano pure i due rododendri sopra ricordati, cui si aggiunge un terzo, il Rhododendron caucasicum; questo ed il flavum, rimpicciolendo con l'altitudine, invadono i pascoli a fisionomia quasi alpina smaltati di una ricca flora.
Questa impronta caucasica, col diminuire della piovosità e con l'abbassarsi della temperatura, viene a cessare tra Sinope e il Bosforo, e quando le condizioni di temperatura ridivengono favorevoli (ma con un'estate secca e bruciata, come lungo le coste occidentali e più ancora nelle meridionali della penisola) i boschi di pino di Aleppo e di leccio, la macchia mediterranea in cui si infiltrano tipi steppici, la coltura dell'olivo e quella della palma dattilifera (che però non conduce a maturità i suoi frutti) dànno al paesaggio una fisionomia mediterranea. A questa zona più o meno estesa in profondità e in altitudine si intercala o succede la steppa negli altipiani o, dove le condizioni udometriche sono propizie, il bosco. Potente condensatrice di vapori è la vasta catena del Tauro che, nel versante mediterraneo, è forse la zona più boscosa e più ricca di querce, alcune delle quali endemiche, e fra 1200 e 1300 m. ospita i più belli ed estesi boschi del Cedrus Libani (ridotto nel Libano a poche centinaia di individui) dai tronchi maestosi che raggiungono 30-40 m. d'altezza, una circonferenza di 11 m. e 2000-3000 anni di età: ad essi si uniscono un abete speciale (Abies cilicica), due ginepri arborei (Juniperus excelsa e J. foetidissima), ecc. Altra essenza importante dei monti della Licia e della Caria è l'albero dello storace liquido (Liquidambar orientale).
Quanto non è occupato dalla foresta, che l'uomo si è incaricato qua di distruggere, altrove di rarefare, è dominio della steppa: in questa prevalgono le graminacee, parecchie piante bulbose dai fiori appariscenti, e, dove il suolo è salato, rappresentanti della famiglia delle Chenopodiacee ed altre piante atte a resistere alla salsedine. Ricordiamo, tra le piante più caratteristiche delle steppe montane, gli Astragalus della sezione Tragacantha: curiose leguminose formanti piccoli cespugli a forma di cuscinetto, nei quali gli assi delle vecchie foglie che hanno perduto le foglioline irrigidiscono e spinificano, costituendo attorno ai germogli centrali, che sono fogliosi e portano fiori e frutti, una fitta corona di spine. Ma fra le piante spinose di cui le steppe di montagna sono ben provviste si possono citare parecchie specie di Acantholimon dalle foglie rigide e pungenti, di Alhagi di cui una delle specie più diffuse è l'A. camelorum mangiato dai cammelli nonostante le sue spine, di Cousinia, un genere di Composite molto diffuso nei paesi dell'Asia Anteriore. Fra le Crittogame ricordiamo, quantunque non esclusivo dell'Anatolia, il lichene della manna (Lecanora esculenta) che, strappato dal vento, può essere sollevato e quindi calare dall'alto. Relativamente limitata è la flora alpina, cui dànno contributo alcuni generi proprî delle alte steppe.
Vastissima è l'area coperta dai varî tipi di steppa che l'uomo, diboscando, e così peggiorando il clima, ha contribuito ad estendere, favorendo la diffusione del nomadismo nemico dell'agricoltura, mentre questa in passato dovette raggiungere un grado di floridezza adeguato alle civiltà che essa alimentava e di cui era l'esponente. Ma anche ora in piena steppa non mancano oasi colturali, rese possibili dall'irrigazione e dalla giacitura dei terreni.
Le colture dell'Anatolia sono press'a poco quelle dei paesi mediterranei e ciò si deve al fatto che l'uomo ha trovato colà soggetti di grande valore i cui semi ha poi trasportati nelle sue migrazioni verso questi paesi: anzitutto il frumento (il Triticum monococcum è stato rinvenuto spontaneo nell'Asia Minore, e il Triticum vulgare in Mesopotamia), poi la fava, e il pisello, la vite, cui sopra si è accennato, il ciliegio (spontaneo nei monti di Giresun donde fu trasportato a Roma ai tempi di Lucullo), il susino, il mandorlo, il castagno, il melograno (che però estende la sua area distributiva sino nella Balcania), il fico, il pistacchio, l'olivo, il carrubo, il papavero da oppio che è una coltura irrigua. Ma è qui da avvertire che alcuni di questi soggetti si trovavano già in Europa allo stato selvaggio, e l'uomo primitivo, emigrando, ha trasportato le razze già migliorate in territorî nei quali il suo contemporaneo non aveva ancora saputo sfruttare le risorse del paese.
Fauna. - La fauna dell'Asia Minore è fondamentalmente uguale a quella di tutti i paesi circummediterranei e soprattutto a quella dell'Europa meridionale. Tra le famiglie che fanno difetto in Europa e che l'Asia Minore possiede in comune con altre regioni asiatiche o con l'Africa, notiamo tra i mammiferi le iene, rappresentate dalla Hyaena striata che vive nella metà meridionale dell'Anatolia, e fra i rettili i Boidae, che però si riscontrano anche a occidente e a settentrione del Caspio.
Il cervo è abbastanza comune nell'Asia Minore: il daino si rinviene soprattutto nel Tauro; il capriolo ha una diffusione alquanto maggiore; più caratteristici sono la capra del Benzoar (Capra aegagrus), che abita specialmente il Tauro; la pecora dell'Armenia (Ovis Gmelini), che assomiglia ai mufloni; l'Equus hemionus onager od onagro, esteso anche in Siria, Palestina, Arabia ed anche nell'Asia meridionale fino all'India. Tra i carnivori, oltre la iena già ricordata, bisogna menzionare lo sciacallo (Canis aureus), l'Herpestes ichneumon e l'orso.
In tutta la regione esistono fagiani; altri uccelli degni di essere ricordati sono il canapino levantino (Hypolais olivetorum), la Lusciniola melanopogon, la ghiandaia dal capo nero (Garrulus Krynicki). Rettili notevoli sono lo Pseudopus apus, la lucertola spinosa (Stellio vulgaris) e l'Amphibaena cinerea.
Regioni naturali. - Il contrasto più netto di ambiente che si noti nell'Anatolia è fra l'alto tavolato interno, pianeggiante e uniforme, povero di alberi, a clima eccessivo, e le parti periferiche della penisola, dal clima più mite e dal rilievo molto vario, talora assai aspro e coronato da un ancor ricco rivestimento boschivo. L'ambiente propriamente mediterraneo, per il clima e la vegetazione, è presto arrestato dalle montagne, e poco si estende nell'interno: fuori che nel sud-ovest (Caria) e nel sud-est (Cilicia piana), si presenta come una cimosa costiera di 10-20 km., e sulle coste settentrionali manca a tratti del tutto. Oltre la striscia costiera l'andamento delle catene montuose divide la zona periferica in tante regioni assai ben distinte, facenti centro a una valle o gruppo di valli, talora con disagevoli comunicazioni reciproche, di modo che fin dall'antichità vennero a costituire paesi distinti spesso anche politicamente, e in mancanza di nomi collettivi moderni, le vecchie designazioni classiche sono ancora usate dai geografi.
Delle regioni periferiche, l'Anatolia settentrionale comprende il Ponto orientale (odierni vilāyet di Trebisonda e Samsun) e la collinosa Paflagonia (vilāyet di Sinope e Kastamonu). Le succede, ad oriente, intorno al Mar di Marmara, una zona transizionale fra il Ponto e l'Egeo, comprendente la verde Bitinia, le conche della Piccola Frigia e la Troade. La regione egea o Anatolia occidentale presenta, dal N. al S., la Misia (Bālīkesir, Aiwāliq), la Lidia (Magnesia, Smirne) e la Caria (Aidin e parte O. del vilāyet di Adalia). Nell'Anatolia meridionale le diverse sezioni del sistema taurico costituiscono varie regioni di aspro rilievo intorno alle due, pianeggianti, che si affacciano ad ampie rientranze della costa: e cioè la Licia, la Pisidia, l'Isauria e la Cilicia montuosa intorno alla Panfilia (conca costiera di Adalia); la Cilicia montuosa, l'Antitauria e la giogaia dell'Amano intorno alla Cilicia piana (Conca di Adana). Meno netta è la separazione fra i paesi dell'Anatolia interna, e determinata piuttosto da fenomeni di gravitazione economica verso determinati centri, che non dal rilievo. La Frigia (EskiŞehir, Afyon Karahisār, Denizli) si distingue per la prossimità della zona egea, l'arida Licaonia (Konya) e la più fresca Galazia (Angora) occupano il centro della penisola, la Cappadocia, dentro e intorno alla grande ansa del Kïzilirmak (KïrŞheir, Cesarea, Yōzgat), introduce all'Armenia ed agli altipiani asiatici più orientali (v. alle voci delle antiche denominazioni e dei moderni vilāyet).
Popolazione. - Circa 10 milioni di abitanti popolano oggi la penisola. Questa, ponte naturale fra l'Asia e l'Europa, ha subito a molte riprese un rinnovamento più o meno esteso della sua popolazione con invasioni di popoli e di culture dall'Oriente e dall'Occidente; e non solo nell'antichità classica, ma già in periodi molto più remoti, le sue genti erano notevolmente mescolate. Dopo la grande guerra mondiale, l'espulsione e l'annientamento degli Armeni e lo scambio degli allogeni con la Grecia hanno praticamente eliminato il contrasto maggiore e più antico fra musulmani e cristiani, fra Turchi e Greci, col quale ultimo nome si designavano spesso tutti quelli che non avevano adottata la religione islamica. Essi costituivano una specie di bordura etnica litoranea, nel dominio dell'ambiente mediterraneo, e formavano, con gli Armeni, un elemento importante della popolazione di tutte le maggiori città. All'infuori di esigui gruppi, la popolazione appartiene perciò ora all'unica nazionalità dominante che dava a sé stessa il nome di Osmanli ed è più generalmente nota con quello di Turchi, ora assunto a denominazione ufficiale. Ma se con ciò si è accentuato il carattere orientale, asiatico, della penisola, l'intensa e rapida occidentalizzazione di costumi che la popolazione musulmana va subendo in questi giorni ci fa assistere ancora a quel giuoco alternato di flussi e riflussi etnici che è caratteristico dei paesi di transizione e di confine.
Nella stessa popolazione musulmana bisogna tuttavia distinguere due elementi. Vi è la grande massa della popolazione stabile e sedentaria, nella campagna e nei centri, nella quale è impossibile distinguere quanta parte abbia l'antica gente anatolica divenuta musulmana sotto la pressione degl'invasori turchi, e quanta i discendenti delle tribù venute al seguito dei Turchi selgiuchidi e ottomani. L'analisi dei suoi caratteri fisici mostrerà in ogni modo che essa è di composizione assai eterogenea. Vi è poi un secondo gruppo che comprende un certo numero di tribù nomadi o seminomadi e alcune "caste" o sette religiose che si tengono comunque distinte dal resto della popolazione.
Il gruppo principale dei nomadi, che esercitano la pastorizia e vivono ancora in villaggi di tende, è costituito dai Juruki o Gocebè, termini assai vaghi e privi di valore etnico, perché significano appunto "nomadi". Si incontrano in tutta l'Anatolia meridionale e occidentale, dalla piana di Adana sino alla Misia e nella Paflagonia fino a S. di Kastamonu: nell'estate si spostano verso la zona dei pascoli freschi. su per le regioni montuose, d'inverno si raccolgono in villaggi improvvisati (qishlah), che tendono però a trasformarsi in sedi fisse, nelle regioni più basse. Sono organizzati per tribù, con a capo un bey o sheikh, suddivise in gruppi minori. In religione, piuttosto che eretici sembrano primitivi: al loro modo di vita si deve l'assenza di moschee, la condizione relativamente elevata della donna (che non ha mai portato il velo), la pratica dell'ospitalità. Residui animistici sono costituiti dalla venerazione di certi alberi o sorgenti o montagne. A parte tali sopravvivenze, comuni negli strati meno civili d'ogni popolazione, la maggioranza almeno dei Juruki sono sunniti, come gli Osmanli. Le loro donne tessono tappeti pregiati. Il loro numero complessivo, assai difficile a computarsi in base alle scarse informazioni esistenti, dovrebbe aggirarsi intorno alle 200.000 anime.
Un'altra importante tribù o sezione della popolazione nomade è designata col nome di Turcomanni. Sono pastori transumanti e allevano anche, unici nella penisola, il cammello a due gobbe. Un vecchio calcolo pubblicato dal Niebuhr (Voyage en Arabie, 1774) li dava distribuiti, con oltre 50.000 tende, nei distretti di Ayntab, Cesarea, Angora, Sïvas. Alcuni gruppi arrivano fino all'Olimpo misico. Altri forti gruppi sono localizzati nella Siria settentrionale e nel Kurdistān. All'infuori di questi elementi che si distinguono, in sostanza, soltanto per il loro genere di vita, esistono i gruppi eretici o eterodossi che seguono più o meno da presso la fede sciita e portano ancora, presso i Turchi, l'appellativo di KïzïlbaŞ ("teste rosse"; v. ahl-i haqq, kïzïlbaŞ), dato in origine, nella Persia, ai seguaci di tale dottrina che avevano adottato un copricapo rosso. Nell'Anatolia occidentale, poco numerosi, sono rappresentati da piccole comunità semi-nomadi delle valli del Gedizçai e del Meandro. Villaggi di KïzïlbaŞ, sono stati pure segnalati presso il M. Ida e nei dintorni di Afyon Karahisar. Il loro maggior nucleo è però nei distretti di Angora, Sïvas, Diyarbekir e Harput, nei quali pare raggiungano un milione di anime.
Un gruppo particolare di KïzïlbaŞ è costituito dai Takhtagī, classe o casta di boscaioli, senza sedi fisse, e viventi perciò in tende, disseminati nelle montagne della Cilicia e della Licia. Sono infine da menzionare i Bektāshī (v.), il solo ordine di dervisci (monaci) che in Turchia professi apertamente la fede sciita. La stessa seguono in parte i Kurdi (v.), i quali perciò da qualche viaggiatore sono stati confusi con i KïzïlbaŞ: pastori transumanti o agricoltori, i Kurdi parlano un linguaggio iranico e si distinguono quindi assai bene dai Turchi sedentarî o nomadi, sunniti o sciiti. Il loro abitato è del resto in massima parte fuori della penisola, nell'Armenia e nel Kurdistān (v.), penetrando essi soltanto con alcuni gruppi nei distretti più orientali di essa.
Gli elementi propriamente stranieri della popolazione sono molteplici, ma poco numerosi: Circassi, Albanesi, Rumelioti, Levantini, Zingari (30.000 sec. F. von Luschan: fabbri, cavallari, panierai) insieme con i residui, di entità ignota, di Armeni e di Greci, i quali ultimi sono rimasti, in ogni modo, nelle isole passate all'Italia e alla Grecia. Un gruppo più importante è quello degli Ebrei, rifluiti in gran parte nella penisola dalla Spagna e dalla Russia, e formanti nei centri urbani un integramento quasi necessario alla popolazione turca, che ha mediocri attitudini agli affari.
Questa, e specialmente la massa rurale, è descritta con colori vantaggiosi, in confronto allo svariato musaico delle altre nazionalità o confessioni: onesta, sobria, cortese, laboriosa. La fonte principale di sussistenza è l'agricoltura, soprattutto la cerealicoltura, e la coltivazione del gelso, del tabacco e dell'oppio, mentre nelle regioni periferiche hanno grande sviluppo anche gli alberi da frutta e nel sud il riso e il cotone (Adana). Il bestiame (pecora, capra d'Angora, bue, bufalo, cavallo, asino) non è molto abbondante, costituendo piuttosto, come si è veduto, l'occupazione dei gruppi pastorali nomadi. Questi usano la tenda di stoffa distesa su pali, di tipo arabo. La casa della popolazione stabile presenta tipi diversi: nell'Anatolia interna, povera di legname, è a terrazza, a volte con porticato anteriore, e costruita di pietre o anche di argilla, per lo più a un solo piano. Nelle regioni periferiche prevale il tetto a due spioventi con ricoprimento di tegole e l'usuale stile mediterraneo, mentre nella regione più boscosa del nord-ovest e del nord, sino alla Paflagonia, s'incontra anche la casa di legno a due piani con tetto a padiglione, e il piano superiore sporgente sul pianterreno e sorretto da pilastri agli angoli. In ogni caso, anche nelle dimore più umili, gli ambienti sono almeno due, l'ḥarem per le donne e il selāmlik per gli uomini. Dove la casa ha due piani, il terreno è in generale adibito alle stalle e ai magazzini: nelle città, e nelle famiglie borghesi, il terreno è occupato dagli uomini, il piano superiore dall'harem. Fuori che nel nord, dove le stanze hanno camini aperti che servono anche a cucinare, il riscaldamento è fatto solo con bracieri.
L'alimentazione è a base di vegetali e latticinî: cereali, frutta, meloni, cipolle, cacio pecorino. Raramente si mangia un po' di carne di pecora o pollame. Le bevande comuni sono latte, tè, caffè, birra di miglio (buza). Nelle città si fa largo consumo di dolciumi a base di frutta.
ll costume tradizionale osmanli, in via di scomparire, se non è già scomparso del tutto, si compone di larghe brache chiuse sopra la caviglia, calze, pantofole, una camicia di cotone o di seta, una corta sottoveste imbottita alla quale si sovrappone spesso un'altra giacca pure senza maniche; il tutto completato da un largo soprabito e, in passato, dal turbante, sostituito poi dal fez e ora dal berretto europeo. Il costume delle donne differisce più che altro nelle stoffe adoperate e nella maggior varietà di ricami e colori. Fuori di casa esso era coperto da un ampio scialle-mantello scuro (feregiè) coprente la testa e tutta la persona: il volto al disotto degli occhi era celato dal velo. La vita familiare e sociale è regolata dalle norme comuni alle popolazioni musulmane, essendo gli Osmanli in generale buoni osservanti dei precetti della Sunna. Quanto la trasformazione culturale che è in atto possa penetrare nella vita e nei costumi tradizionali sarà mostrato dal prossimo avvenire. Essa ha agito per ora, più che altro, sulle forme esteriori (costume, scrittura) e sembra diretta a rinnovare soprattutto l'ambiente economico e a migliorare la produzione (v. turchia).
Antropologia. - La popolazione anatolica presenta, quale che sia la sua origine o la religione, e con rare eccezioni, un tipo fisico generale, a primo aspetto assai uniforme: fattezze europee, colorito bianco-brunetto, statura media o alquanto superiore alla media. Tra i nomadi Juruki e Turcomanni è stato segnalato qualche volta un tipo centro-asiatico a lieve tinta mongoloide (occhi obliqui, faccia larga e un po' appiattita), giunto probabilmente con le prime invasioni turche da oltre il Caspio. Deviazioni dal tipo dominante si notano anche nella presenza occasionale d'individui biondi, che non sono però da attribuirsi a miscele recenti con i "Franchi", per usare la vecchia parola, o con occidentali (Luschan, Buxton), giacché compaiono con particolare frequenza in taluni distretti interni e fra i Kurdi dell'alta Mesopotamia. Infine vi sono i discendenti degli schiavi negri, assai più numerosi di quanto si possa credere, avendosi in qualche regione un tipo negro o negroide all'incirca su ogni 200 individui.
A parte questi elementi somatici particolari, il problema razziale dell'Anatolia è assai complicato e oscuro. Mancano per ora resti umani preistorici o antichi e le nostre conoscenze si basano su alcune poche osservazioni fatte sulla popolazione attuale. È risultato dalle misure antropologiche eseguite che questa è razzialmente molto mista e che, con scarse eccezioni, i suoi aggruppamenti sociali o etnici sono del tutto indipendenti dal tipo fisico. Le eccezioni sono date specialmente dai gruppi "eretici", endogami, misurati dal Luschan nella Licia: Takhtāgī e Bektāshī. Questi presentavano, con rara costanza, il tipo brachicefalico "armenoide": testa cortissima e alta, capelli neri e lisci, occhi scuri, forte pelosità, naso stretto aquilino. Il Luschan concluse che la razza armenoide, alla quale appartenevano tali gruppi isolati e puri, avesse costituito la popolazione primitiva della penisola. Il resto della popolazione però appare molto misto e risultante soprattutto da una miscela di armenoidi e di dolicocefali mediterranei. Un'opinione affatto diversa è stata sostenuta da altri autori, il più recente dei quali è il Hasluck, che considerano gli armenoidi come immigrati in epoca relativamente recente. Alla luce delle scoperte fatte nelle regioni vicine occorre tuttavia adottare una conclusione intermedia. Sembra cioè probabile che la popolazione dell'Asia Minore alla fine del paleolitico fosse costituita da genti a cranio lungo, di tipo mediterraneo oppure meridionale. Poi vennero i brachicefali, in epoca difficile a precisare. Nella Mesopotamia però essi cominciano ad apparire già nel 3000 a. C. ed erano certamente penetrati nell'isola di Cipro verso la metà della locale età del bronzo, mentre in Egitto, secondo Elliot Smith, compaiono all'inizio dell'epoca dinastica. È possibile dunque che i gruppi di puri brachicefali esaminati dal Luschan, invece che residui degli abitanti primitivi, siano i discendenti di successive ma assai antiche invasioni, raccoltisi forse e conservati in un relativo isolamento nelle zone montuose, in precedenza poco o punto popolate, della penisola.
Le osservazioni del Luschan mostrano che la variabilità, per ogni carattere, aumenta dai gruppi isolati alla popolazione turca comune, e da questa a quella greca che ancora occupava molte località costiere.
È interessante notare tuttavia che Turchi e Greci della Licia appaiono composti degli stessi elementi, con una leggiera prevalenza di armenoidi nei primi e di dolicocefali (mediterranei) nei secondi. Ugualmente mista è la popolazione (greca) di Cipro, mentre a Rodi e specialmente nel Dodecanneso la percentuale dei brachicefali diviene molto minore. Le variazioni di composizione, quali sono rivelate dall'indice cefalico, sembrano piuttosto geografiche che etniche: nella Licia infatti anche la popolazione turca è, nella zona costiera, in prevalenza di tipo mediterraneo, e lo stesso carattere presentano alcuni gruppi di nomadi Juruki.
La composizione dei Greci della Licia, che indica la presenza di due tipi estremi di indice cefalico con scarsa rappresentanza degli intermedî, ha dato origine, essendo fenomeno inusuale, a molte discussioni, ma queste non hanno qui grande interesse, dacché la popolazione greca ha abbandonato il territorio politicamente turco.
Osservazioni più recenti sui Turchi si devono al Hauschild che non riferisce però il numero degl'individui osservati. Importante è la sua constatazione, che in alcune parti della penisola vi sono notevoli percentuali di biondi: sino al 39% nel vilāyet di Kastamonu, 24% in quello di Smirne, 12% nei distretti orientali. Il biondismo è associato però alle forme larghe del cranio. L'indice cefalico presenterebbe un massimo nel vilāyet di Kastamonu (87,1), per diminuire tanto ad E. quanto ad O.; il valore medio di tale indice per i Turchi viene dato in 84,3.
Molto scarsi sono i rilievi fatti sugli altri caratteri, che sono riassunti nella tabella seguente insieme con alcuni dati che servono di confronto, sull'isola di Cipro:
È da notare infine che gli Ebrei dell'Asia Minore si mostrano pure assai misti per l'indice cefalico (due serie riportate dal Hauschild hanno per media 78,1 e 82,8), mentre il naso è assai stretto (60,9 e 59,7). I componenti razziali della popolazione anatolica sono dunque assai numerosi, pur avendosi una generale predominanza del tipo armenoide e un'assai larga disseminazione di mediterranei. Ma le informazioni finora raccolte sono insufficienti a dare più che questa sommaria indicazione.
Bibl.: Per la storia dell'esplorazione fra le relazioni dei singoli esploratori si ricordano qui talune di quelle meno facili da ritrovare. Delle più remote, Hans Schiltberger, Reisebuch, ed. da V. Langmantel, in Bibl. des Liter. Vereins in Stuttgart, Tubinga 1885 (trad. di J. Buchan in Hakluyt Soc., Londra 1878); B. de la Brocquière, edito da Legrand d'Aussy, nei Mémoires de l'Institut de France, V. Delle più recenti: H. Barth, Wanderungen durch die Küstenländer des Mittelmeeres, Berlino 1849; P. von Tschihatscheff, Reisen in Kleinasien u. Armenien, 1847-63, in Petermann's Mitteilungen, supplemento 20; Ch. Wilson, Notes on the Physical and Historical Geography of Asia Minor (journeys in 1879-82), in Proc. Royal Geogr. Soc., n. s., VI (1884), p. 305; J. S. Diller, in Report on the Investigations at Assos, in Papers of the Archeol. Inst. of America, I (1882); II (1898); W. M. Ramsay, Cilicia, Tarsus and the Great Taurus Pass, in Geogr. Journ., XXII (1903), p. 357, e The Historical Geography of Asia Minor, in Roy. Geogr. Soc. Suppl. Papers, IV (1890); e The Cities and Bishoprics of Phrygia, voll. 2, Oxford 1895; D. G. Hogarth, A wandering Scolar in the Levant, Londra 1896 (2ª ediz.); e The Nearer East, Londra 1902; F. R. Maunsell, Kurdistan, in Geogr. Journ., III (1894), p. 81, e Central Kurdistan, ivi XVIII (1901), p. 121; P. H. H. Massy, Exploration in Asiatic Turkey, 1896-1903, in Geogr. Journ., XXVI (1905), p. 272; W. Judeich, in Sitzungsber. Berlin. Akad. d. Wiss., 1889 e 1898; A. Philippson, in Geogr. Zeitschrift, 1902, fasc. 3; W. von Diest e M. Anton, Neue Forschungen in N. W. Kleinasien, in Petermann's Mitt., supplemento 116 (1895) e 125 (1899); R. Oberhummer, Bericht über eine Reise in Syrien u. Kleinasien, in Petermann's Mitt., XLIII (1897); R. Leonhard, in Jahrb. f. Miner., Geol. u. Paleont., Supplem., XVI, Stoccarda 1902, e Paphlagonia, Berlino 1915; F. Schaffer, neue Geologische Studien in S. O. Kleinasien, in Sitzb. Ak. Wiss., CX, i (1901), p. 388; e in Mitt. Geogr. Ges., XLVI, Vienna 1903, pp. 12, 71; A. Penther, in Abh. Wiener Geogr. Ges., 1905, n. 1; H. Grotte, Meine Vorderasien-Expedition, 1906-07, voll. 3, Lipsia 1911-12; L. Vannutelli, In Anatolia, pubbl. della Soc. Geogr. Ital., Roma 1905, e Anatolia Meridionale e Mesopotamia, Roma 1907; W. M. Ramsay e G. Bell, The Thousand and One Churches, Londra 1909; A. Philippson, Reisen und Forschungen im westl. Kleinasien, in Petermann's Mitt. supplementi CLXVII e CLXXII, 1910-11; R. Campbell Thomson, A Journey from Angora to Eregli by Kaisarie, in Geogr. Jour., XXXVI, 1911; W. Leaf, Notes on the Troad, in Geogr. Journ., XL, 1912, p. 25; Kenneth Mason, Central Kurdistan, in Geogr. Journ., LIV, 1919, p. 329, e nei Records of the Survey of India, XX, The War Record (1914-22); Dehra Dun, 1925; E. Novack, in Zeitschr. d. Ges. f. Erdk. 1928, n. 1-2; 7-8; 9-10; 1929, n. 1-2; L. Sawicki, Scientific Results of the voyages of the Orbis, Cracovia 1928.
Per la geologia e morfologia, oltre le opere generali sull'Asia, v. Tchihatcheff, Asie Mineure, Parigi 1866-69; F. Frech, Geologie Kleinasiens, in Zeits. der deuts. Geologischen Gesellsch., LXVIII (1916); A. Philippson, Reisen und Forschungen im westlichen Kleinasiens, in Peterm. Mitt., supplementi nn. 167, 172, 177, 180, 183, Gotha 1910-15; id., Kleinasien, in Handbücher der regionalen Geologie, n. 22, 1918; Frey, Das Hochland von Anatolien, in Mitt. d. geograph. Gesellsch., Monaco 1925.
Per il clima: W. Köppen, Die Klimate der Erde, Berlino 1923, pp. 238-240; E. Ricci, Atlante degli elementi metereologici dell'Anatolia, Roma (Comando Supremo del R. Esercito Italiano) 1918-19.
Per la geografia storica, opere descrittive: Vivien de Saint Martin, Description de l'Asie Mineure, Parigi 1845; W. M. Ramsay, The historical Geography of Asia Minor, 12ª ed., Londra 1911; V. Cuinet, La Turquie d'Asie, Parigi 1890-94; E. Leonhard, Paphlagonia, Berlino 1915; L. Vannutelli, Nella Turchia asiatica, Roma 1907; id., Anatolia meridionale e Mesopotamia, Roma 1911; E. Banse, Die Türkei, Brunswick 1919; C. Manetti, Anatolia meridionale, Roma 1920; id., Anatolia, Firenze 1921.
Per l'etnologia e antropologia: F. von Luschan, Die tachtadschy und andere Überreste der alten Bevölkerung Lykiens, in Arch. f. Anthrop., XIX, 1890; idem, The early Inhabitants of Western Asia, in Journal of the Anthrop. Inst,. XLI, Londra 1911; F. W. Hasluck, Heterodox Tribes of Asia Minor, in Journal of the Anthrop. Inst., LI, 1921; M. W. Hauschild, Die Kleinasiatischen Völker und ihre Beziehungen zu den Juden, in Zeitschr. f. Ethnol., LII-LIII (1921); L. H. D. Buxton, The Peoples of Asia, Londra 1925; V. Giuffrida-Ruggeri, Prime linee di un'antropologia sistematica dell'Asia, in Arch. per l'Antrop., XLVII (1917), Firenze 1919.
È da consultare inoltre, per la bibliografia, R. Paribeni e P. Romanelli, Studi e ricerche archeologiche nell'Anatolia meridionale, Roma 1914.
Carte: Kiepert, Karte von Kleinasien (24 fogli, 1 : 400.000), Berlino 1914; Istituto Geogr. Mil. Ital., Carta corografica dell'Asia Minore (1 : 500.000), 1921. V. anche la bibl. alla voce turchia.
Storia prima del periodo greco. - Dare una descrizione esatta delle condizioni etniche dell'Asia Minore prima della sua colonizzazione da parte dei Greci e anche per il periodo storico in cui avvenne la colonizzazione ionica è difficilissimo, specialmente per la mancanza assoluta di notizie su alcuni periodi e per la scarsità dei risultati degli scavi riguardo alla preistoria e alla protostoria della penisola. Anche per il periodo greco l'etnografia micrasiatica è ancora in molti punti incerta, per la gran quantità di popoli che dai tempi più antichi abitarono la penisola, o soltanto vi passarono, e per la diversità delle lingue che parlarono, delle quali solo poche hanno lasciato documenti atti a rischiararci sul loro carattere e sulla loro pertinenza. Questa diversità e quantità di popoli, razze e lingue, sì caratteristica di tutta la storia dell'Asia Minore, è la conseguenza diretta della posizione geografica della penisola, ponte obbligato di passaggio tra l'Oriente e l'Occidente, tra l'Asia e l'Europa. Da questa derivò pure la mancanza di unità politica e culturale tra i suoi popoli, i quali hanno sempre dimostrato di essere sotto questo riguardo piuttosto ricettivi che attivi.
Qualche notizia sulle antiche nazioni dell'Asia Minore dobbiamo alle iscrizioni assire e a passi di scrittori greci. Le tavolette con iscrizioni in caratteri cuneiformi trovate recentemente a Kül Tepe, nel centro della penisola, a 16 km. a NE. di Cesarea, nell'antica Cappadocia, hanno gettato qualche luce sulla storia più antica di almeno una parte dell'Asia Minore.
La collina di Kül Tepe (in turco "Collina della cenere") sembra racchiudere le rovine dell'antica città di Kanis (o Ganis), che fu per qualche tempo la capitale o la città più importante di una vasta colonia commerciale assira, stabilitasi a scopo di traffico carovaniero nel territorio di un principe o di uno stato anatolico ancora sconosciuto. Le tavolette risalgono al III millennio a. C. Si può affermare quindi che una parte dell'Asia Minore stava nel III e II millennio sotto l'influsso assiro. Le tavole cominciano dai tempi di Ibi-Sin della III dinastia di Ur (2212-2187), ma i commercianti assiri si devono essere stabiliti nel paese già alquanto prima, forse al principio del III millennio. La capitale della colonia assira era Kaniš, accanto alla quale troviamo altre città, come Burušḫaddum, Zalpa, Waḫšusana, Durḫumit, Šamuḫa e Kuššara, la quale ultima fu più tardi la prima capitale degli Hittiti. La civiltà della colonia era quella paleo-assira. Gli dei principali erano, come ad Aššur, Aššur (o Aššir) e Ištar. Si contava a settimane di cinque giorni, denominate secondo un eponimo. Vigeva il sistema decimale. Le singole città o comunità erano chiamate kārum "posto". Gl'indigeni del paese, nel cui territorio gli Assiri si erano stanziati, erano probabilmente i Proto-Ḫatti, che sembra fossero la più antica popolazione che ora si conosca dell'Asia Minore e della Siria. Quelli abitanti nelle colonie assire facevano uso tra loro della scrittura e della lingua assira. Questo è quanto possiamo apprendere dalle tavolette di Kül Tepe sul periodo paleo-assiro dell'Asia Minore.
Le tavole con iscrizioni in caratteri cuneiformi trovate nel villaggio anatolico di Boǧazköy a 145 km. a oriente di Angora, dove si trovano le rovine della seconda capitale degli Hittiti Ḫattušaš e del santuario centrale, nazionale, dedicato al loro dio supremo Tešup, ci rischiarano invece sulle condizioni etniche e linguistiche della penisola nel II millennio a. C. Alcune notizie possiamo ricavare anche dalle lettere di Tell el-‛Amārnah. Dal 1600 in poi tutta l'Asia Minore fu sotto il dominio degli Hittiti o Ḫatti, come si chiamavano essi stessi. Nell'impero dei Ḫatti bisogna distinguere la popolazione dominante da quelle sottomesse, le quali parlavano lingue diverse ed erano diverse anche di razza. La razza dominante, che chiamiamo Hittiti (qualche hittitologo ha voluto chiamare gli Hittiti e la loro lingua col nome, non del tutto giustificato, di Canisi e canisio; v. sotto: Lingue autiche) parlava l'hittito, che è una lingua indo-europea; la popolazione indigena parlava invece un'altra lingua, anaria, il ḫattio. L'apogeo della loro potenza gli Hittiti raggiunsero in Asia Minore nei secoli XIV e XIII. Essi si servivano per le loro scritture dei caratteri cuneiformi che erano allora in uso in Babilonia, ma scrivevano le loro iscrizioni monumentali con geroglifici o segni pittografici nazionali, diversi da quelli egiziani. Le iscrizioni geroglifiche hittite non sono state ancora decifrate. Le tavolette di Boǧazköy ci hanno rivelato che gli Hittiti dell'Asia Minore scrivevano anche in accado. Inoltre si sono trovate nello stesso luogo tavole in sumero, che s'insegnava nelle scuole quale lingua morta ed erudita. La lingua accada si usava nella corrispondenza diplomatica e nei trattati internazionali, quantunque l'accado di questa specie di scritture fosse piuttosto barbaro. In quel torno di tempo si deve aver parlato in Asia Minore, ma anche in Siria e persino in Palestina, da parte di una schiatta di conquistatori che fanno sentire un po' dappertutto nell'Asia Anteriore la loro azione, un dialetto indiano: in un trattato internazionale trovato a Boǧazköy s'invocano gli dei indiani Mitra, Varuna, Indra e i Nasatya; in un manuale di corse di cavalli, compilato da un certo Kikkuli di Mitanni, ricorrono termini tecnici della corsa con carri, in indiano, e varî principi della Siria portano allora nomi di carattere spiccatamente indiano, come sarebbero Suwardāta e Artatama. Qualcuno (Forrer) chiama questo popolo che parlava indiano Proto-indiani o Manda. Per la storia politica degli Hittiti si veda Hittiti.
Se le tavole di Boǧazköy ci dànno un po' di luce sulle condizioni linguistiche ed anche etniche della penisola nel II millennio a. C., le iscrizioni del millennio seguente e gli scrittori greci non ce ne dànno più per il periodo immediatamente anteriore e contemporaneo alla colonizzazione greca. Non sappiamo nulla, per es., delle lingue dei Pisidî, dei Licaoni, dei Cappadoci, dei Paflagoni.
Riguardo alle popolazioni abitanti nella penisola nei secoli anteriori e contemporanei alla colonizzazione ionica, sappiamo che nelle montagne pontiche abitavano i Calibi, maestri nella metallurgia. Nelle montagne nord-orientali dell'Asia Minore abitavano i Mosci, chiamati dagli Assiri Muški e Muškayē. A sud-ovest erano stanziati i Tibareni che arrivavano fino al Tauro. Nell'altipiano centrale sono stanziati i Cappadoci (Katpatuka) fino all'Halys e i Cataoni tra questo fiume e il Tauro. Nel centro del Tauro micrasiatico siedono i Pisidî, gl'Isauri, i Licaoni e i Solimi, a sud-est i Cilici, chiamati dagli Assiri Khilakku, sulla costa i Pamfili. I Cappadoci furono chiamati dai Greci anche Siri, probabilmente per lontana reminiscenza delle antiche colonie assire di quel paese. Il centro della penisola è abitato dai Frigi, razza di contadini, immigrati probabilmente dalla Tracia. Agli stessi appartengono anche i Mariandini e i Paflagoni sulla costa del Mar Nero. Nelle montagne della Frigia nord-occidentale stanno i Misî. La loro lingua tramezza tra il lidio e il frigio. A S. dei Misî troviamo i Lidî con la capitale Sardi. A S. di questi i Carî, apprezzati soldati mercenarî, nella valle del Meandro e sulle coste e isole dell'Egeo. I Lici abitavano sulla striscia di costa di Milyas. Questa era all'incirca la costituzione etnica della penisola nel primo millennio, durante lo stanziamento dei Greci nell'Asia Minore occidentale.
Bibl.: B. Landsberger, Assyrische Handelskolonien in Kleinasien, aus dem dritten Jahrtausend, in Der Alte Orient, XXIV, iv, Lipsia 1925; E. Forrer, Ausbeute aus den Boghazköi-Inschriften, in Mitt. der Deutschen Orient-Gesellschaft, n. 61 (1921), pp. 22-28; Fr. Hrozný, Über die Völker und Sprachen des alten Chattilandes, Lipsia 1920; A. Götze, Kleinasien zur Hethiterzeit, Heidelberg 1924; Ed. Meyer, Die Volksstämme Kleinasiens, das erste Aufreten der Indogermaninen in der Geschichte u. die Probleme ihrer Ausbreitung, in Sitz. der Preuss. Ak. Wiss., 1925, p. 244-260; J. Sundwall, Die einheimischen Namen der Lykier nebst einem Verzeichnis kleinasiatischer Eigennamen, Lipsia 1913; E. Littmann, Sardis. Pubblications of the American Society for the Excavation of Sardis, VI, i, Leida 1916; E. Meyer, Geschichte des Altertums, I, Stoccarda 1884, pp. 292-310; W. Ramsay, Anatolian Studies, Manchester 1923, pp. 139-150.
Lingue antiche. - Le nostre fonti per le lingue antiche sono di genere molto diverso, e per la maggior parte ci sono state rese man mano accessibili solo in epoca recente. Le fonti classiche, all'infuori di alcune parole, ci dànno molto poco. Al contrario le iscrizioni greche dell'Asia Minore ci fanno conoscere una gran quantità di nomi proprî indigeni (di persona e di luogo) linguisticamente notevoli. Un grande chiarimento hanno dato le iscrizioni che i popoli antichi dell'Asia Minore ci hanno lasciate nelle loro lingue e che ci sono state rivelate da viaggi e scavi compiuti dal primo quarto del secolo XIX in poi. I popoli dei paesi costieri, Lici, Carî, Lidî e Frigi, avevano assunto la scrittura greca solo parzialmente modificandola secondo le necessità delle loro lingue. Dapprima si scopersero iscrizioni licie e frigie; le prime risalgono fino al sec. V a. C., le seconde presentano un gruppo più antico, del sec. VI-V a. C., e uno più recente, del II-III d. C. Dei Carî abbiamo soltanto poche brevi iscrizioni. Le iscrizioni lidie ci sono note in certa copia solo dal 1916, grazie agli scavi degli Americani a Sardi. La loro epoca è approssimativamente determinata dal nome di Alessandro il Grande che vi si legge.
Notizie anche maggiori dobbiamo all'uso delle iscrizioni cuneiformi che i popoli più orientali dell'Asia Minore ebbero dalla Mesopotamia. L'archivio egiziano di Tell el-‛Amārnah, contenente la corrispondenza tra principi dell'Asia Anteriore e i faraoni, ci ha dato fra l'altro un ampio documento nella lingua del paese di Mitanni (che si trovava nella Mesopotamia settentrionale, nell'alta valle dell'Eufrate e del Tigri, ad E. di quella che poi si chiamerà Cappadocia), e i primi saggi della lingua hittita. Anche i Ḫaldi, la popolazione più antica della regione montuosa a N. del paese di Mitanni (quella che sarà poi l'Armenia), ci hanno lasciato un certo numero d'iscrizioni cuneiformi del sec. VII a. C., che ci dànno un'idea del ḫaldio. Ma d'importanza capitale per la nostra conoscenza delle lingue dell'Asia Minore sono stati gli scavi organizzati nel 1907 da Hugo Winckler per incarico della Deutsche Orient-Gesellschaft a Boǧazköy, l'antica Ḫattušaš, che fu capitale degli Hittiti, in Cappadocia ad oriente di Angora: ivi apparve in luce l'archivio dei re hittiti, con centinaia di tavolette di argilla, le cui iscrizioni, in caratteri cuneiformi, per la parte di gran lunga più notevole sono stese nella lingua dominante del regno degli Hittiti. Nel 1915 F. Hrozný giunse alla decifrazione di queste iscrizioni e alla prova che il fondamento grammaticale della lingua hittita, la sua flessione, è indoeuropeo. Sulle stesse tavolette sono citate anche altre lingue dell'Asia Minore che erano parlate nel regno hittita o nelle sue vicinanze, e se ne riferiscono frasi. Da questo si è provato che la lingua luvia è strettamente connessa con quella hittita. La lingua che è designata come ḫattia è certamente quella della popolazione primitiva del paese dei Ḫatti o Hittiti, e si chiama perciò protoḫattia. Quelli che parlavano la lingua che noi chiamiamo hittita (la tradizione non ci riferisce alcun nome) erano originariamente Indoeuropei migrati in Asia Minore, che avevano sottomesso la popolazione antica del paese dei Ḫatti, s'erano probabilmente fusi in parte con essa e ne avevano subito influenze linguistiche, ricevendo nel loro lessico moltissimi termini. Innumerevoli sono i vocaboli non indoeuropei della lingua ufficiale hittita, mentre la flessione è indoeuropea.
La quarta lingua autoctona che troviamo nell'archivio di Boǧazköy è il ḫurrio, identico al mitannico che conosciamo dalle tavolette di Tell el-‛Amārnah. Infatti il paese di Mitanni era una parte del regno dei Ḫurri e questi erano i vicini orientali degli Hittiti. Di una quinta lingua, il balaio o palaio, si trova soltanto il nome: E. Forrer l'identifica con un idioma ignoto, di cui ci resta solo una frase.
Oltre alla scrittura cuneiforme, nel regno hittita del secondo millennio a. C. si usava anche un'altra scrittura, composta di simboli figurati simili ai geroglifici egiziani. Questa scrittura non è stata ancora decifrata, e perciò la lingua in cui sono scritte queste iscrizioni geroglifiche hittite non ci è nota.
Stratificazione delle lingue. - Se, partendo da ciò che queste fonti ci rivelano, tentiamo di ricostruire un quadro complessivo delle lingue della penisola nell'antichità e della loro storia, il più antico strato risulta non indoeuropeo né semitico; e vi appartengono il protoḫattio, il mitannico e il ḫurrio.
Il protoḫattio - cioè la lingua della popolazione primitiva del paese dei Ḫatti o Hittiti, il quale comprendeva l'interno dell'Asia Minore (poi Cappadocia) - non è ancora sufficientemente studiato; i testi di questa lingua trovati a Boǧazköy non sono ancora decifrati. Sappiamo però che si tratta d'una lingua completamente diversa dalla lingua ufficiale dello stato hittita, non indoeuropea e prefissiva. Si riconoscono un prefisso di plurale le-, e prefissi in funzione d'articolo o di dimostrativo davanti a nomi (a-, i-, wa-).
Il mitannico (v. mitanni: Lingua) ci è documentato da una lettera piuttosto ampia del re di Mitanni Tušratta al faraone Amenofi III, trovata a Tell el-‛Amārnah. Il nominativo singolare in -s, l'accusativo in -n ricordano fortemente l'indoeuropeo, ma in complesso la lingua ha un'impronta non indoeuropea nei suffissi di tutta la flessione verbale, nel genitivo nominale in -wa e nel dativo in -ta, nei pronomi personali, nel lessico.
Il popolo che parlava la lingua ḫaldia, i Ḫaldi, risiedeva nei monti di Urarṭu prima degli Armeni indoeuropei, ma, secondo la congettura di C. Lehmann-Haupt, vi sarebbe immigrato nel IX sec. circa a. C. da regioni più occidentali dell'Asia Minore. Intorno al ḫaldi si potrà dare un giudizio solo quando sarà pubblicato il corpus delle iscrizioni ḫaldie che il Lehmann-Haupt sta preparando. Esso presenta alcune coincidenze col mitannico: p. es. il nominativo in -s, alcune parole come ipri "re", il nome del dio dei fenomeni atmosferici Teisbas = mitann. Tesupas. Malgrado il carattere non indoeuropeo della lingua, i nomi dei re ḫaldi Erimenas, Argistis, Menuas suonano indoeuropei; così anche Rusas, ma non Lutipris (da luti "donna" e ipri "signore").
Al problema se questo strato non indoeuropeo dell'Asia Minore vada connesso a un'altra famiglia linguistica si è dato ultimamente una risposta in questo senso, che il mitannico ed altre lingue dell'Asia Minore, particolarmente l'elamico (v. elam), sarebbero connesse con le lingue caucasiche. Hanno condotto a questa conclusione certe coincidenze fra queste lingue nella struttura della frase, p. es. nella ripetizione del suffisso del nome reggente nel nome che ne dipende, cioè nel genitivo. Il Marr ha allargato questa teoria con l'ipotesi che un gruppo linguistico connesso col caucasico, ch'egli chiama jafetidico, sia stato diffuso dall'Asia Anteriore per tutta quanta l'Europa meridionale fino alla Spagna, dove il basco rappresenterebbe ancor oggi questa famiglia. Non molto diversa è la posizione che il Trombetti assegna al caucasico nella sua teoria intorno alla primitiva unità linguistica mediterranea. Queste congetture non sono senza fondamento, ma non ancora interamente assodate. Le lingue caucasiche (v.) si distinguono nettamente in due gruppi, settentrionale e meridionale, ma è ancora incerto se e come siano connessi. Ora il protoḫattio, che aveva sede nel cuore dell'Asia Minore, mostra nei suoi prefissi dimostrativi un contatto con il caucasico settentrionale ed è diverso dal mitannico. Lo strato non indoeuropeo sembra dunque che non sia stato unitario.
A questa più antica popolazione della penisola si sovrapposero in diverse epoche elementi indoeuropei per mezzo di ripetute invasioni di stirpi indoeuropee. La prima ondata, che il Kretschmer propose di chiamare protoindogermanisch ("protoindoeuropea"), si riversò sopra l'Asia Minore e sopra la penisola balcanica molto tempo prima di quella grande espansione di Indoeuropei, che al principio del secondo millennio a. C. portò in Grecia gli Elleni. Questa prima invasione non condusse a una vera e propria indoeuropeizzazione delle stirpi preesistenti, ma diede loro alcuni caratteri linguistici indoeuropei.
La lingua lidia, per quanto ne sappiamo, fa in complesso l'impressione di non essere indoeuropea, ma parecchie particolarità ricordano fortemente l'indoeuropeo: così il nominativo in -is accanto a un altro in -id; il relativo e indefinito pis, il neutro pid, che corrisponde (se la p- iniziale è stata letta correttamente) all'osco pis, pid = lat. quis; per la particella affissa -k cfr. il lat. que; la negazione è ni.
Della lingua dei Carî, i vicini meridionali dei Lidî, sappiamo troppo poco (le iscrizioni conservate sono brevissime e per ora non dànno molto) per poterne formare un sicuro giudizio.
La lingua della costa meridionale dell'Asia Minore, il licio, fa, come il lidio, un'impressione sostanzialmente non indoeuropea, ma contiene anche qualche cosa che richiama l'indoeuropeo: cfr. la flessione di lada "signora": nom. lada, dat. ladi, accus. lada o ladu, acc. plur. ladas. Il dativo in -i non si può staccare dall'omofono hittico: p. es. anni "alla madre" da anna- "madre". Anche etimologicamente la parola lada trova nelle lingue slave (russo, piccolo russo, serbo-croato) un corrispondente indoeuropeo.
D'altra parte il licio è del tutto diverso dal lidio, e quelli che lo parlavano e si chiamavano Termili (Trmmili) sono, secondo Erodoto (I, 173), immigrati da Creta, cosicché rimane incerto se la loro lingua si debba considerare indigena dell'Asia Minore ovvero importata.
A questo primo strato protoindoeuropeo seguì nel periodo della grande espansione indoeuropea una nuova invasione, che si diresse verso il centro dell'Anatolia, l'antico paese dei Ḫatti, più tardi Cappadocia. Gl'Indoeuropei invasori sottomisero l'antica popolazione ḫatti e fondarono il grande regno hittita, che estese il suo dominio fino alla Siria e alla Palestina e fiorì fin circa il 1200 a. C. Questi Indoeuropei, strato dominante nell'impero hittita, conservarono all'ingrosso la loro lingua, ma soggiacquero considerevolmente all'influsso linguistico della popolazione autoctona. Il lessico di questa lingua dello stato hittita è in gran parte non indoeuropeo, compresi i pronomi dimostrativi e diverse particelle. Anche i nomi di persona, i nomi dei re hittiti, come Labarnas (protohatto e babilonese Tabarnas), Ḫattusilis, Ḫantilis Mursilis, Zidantas, Ammunas, Telibinus, Tudḫalijas, Subbiluliumas, Ḫuzzijas, Muvatallis, e tutti i toponimi appartengono al substrato indigeno. I nomi di parentela indoeuropei pater "padre", mater "madre" sono sostituiti dalle voci onomatopeiche micrasiatiche attas (addas) e annas. Solo la flessione è quasi del tutto indoeuropea. Ma anch'essa palesa l'influsso del substrato etnico per la forte dissoluzione o semplificazione subita, benché la lingua hittita rappresenti lo stadio indoeuropeo più antico che noi conosciamo. Il duale è andato perduto sia nel nome sia nel verbo. Le numerose varietà temporali sono ridotte a due tempi, presente e preterito, i tre modi (indicativo, congiuntivo e ottativo) a uno solo. Accanto a queste forme se ne hanno parecchie arcaiche e peculiari o difficilmente spiegabili: così l'ablativo sing. in -az: watar "acqua", abl. wetenaz; il nominativo sing. dei temi in -i terminato in -ais (accanto ad is), come sallais "grande"; la flessione dell'infinito in -war, che è ancora del tutto un sostantivo verbale. Notevole è anche la flessione dei temi in -a e in -o (prima e seconda declinazione latina): il nominativo sing. dei femminili termina in -as come quello dei maschili (p. es. annas "madre"), il nominativo del neutro, a quel che sembra, in -a invece dell'-om che si ricostruisce dalle altre lingue indoeuropee. Antico, forse preindoeuropeo, è il genitivo sing. dei pronomi in -ēl, p. es. kuēl (pronome relativo), ammēl "mio" (cfr. ugga "io"); tuēl "tuo".
Solo dialettalmente diverso dalla lingua ufficiale hittita è il luvio, la lingua del territorio di Luvia la cui ubicazione nell'Asia Minore non è esattamente nota (= Cilicia?). Di questa lingua non si è conservato molto: secondo il Forrer essa ha più elementi non indoeuropei che la lingua hittita, ed egli vorrebbe spiegare questo fatto ammettendo che il popolo che parlava questa lingua sia immigrato nell'Asia Minore prima di quello che parlava hittito.
Solo passeggera fu nell'Asia Anteriore l'influenza dell'antico indiano. Gli antenati degl'Indiani, o una parte considerevole di essi, passarono attraverso il paese di Mitanni (e poi attraverso l'Iran) nelle loro sedi indiane, e lasciarono traccia di sé e della loro lingua in nomi di persona, principalmente nei nomi dei re di Mitanni nei secoli XV e XIV a. C., come pure in espressioni staccate di un testo hittita.
Queste invasioni indoeuropee, principalmente quella nel paese dei Hatti o Hittiti, ebbero luogo al più tardi al principio del secondo millennio a. C., forse anche durante il terzo millennio. Parecchi secoli più tardi, intorno al 1200 a. C., ebbe luogo una nuova invasione di stirpi indoeuropee, i Frigi e gli Armeni, che dal settentrione della penisola balcanica passarono nell'Asia Minore attraverso gli stretti, e contribuirono al crollo dell'ormai decaduto impero hittita. Gli Armeni migrarono attraverso la Cappadocia nel paese di Urarṭu occupato dai Ḫaldi, che prese così il nome di Armenia. Intorno alla lingua armena, appartenente al cosiddetto gruppo satəm delle lingue indoeuropee e connessa con il frigio, v. armenia: Lingua. In Europa i popoli più prossimi parenti degli Armeni e dei Frigi erano i Traci, nella parte nord-orientale della penisola balcanica.
La lingua frigia, diversamente dalla hittita, ha un carattere indoeuropeo molto più puro, a quanto almeno ci permettono di giudicare le brevi iscrizioni conservateci.
Tutte queste lingue proprie dell'Asia Minore, che si mantennero parzialmente fin dopo l'era cristiana, furono finalmente sostituite dal greco.
I Greci, già durante il secondo millennio a. C. si stabilirono sulla costa occidentale e meridionale dell'Asia Minore, e, dal tempo di Alessandro Magno in poi, diffusero la loro lingua e cultura anche nel retroterra. Così nell'Anatolia dal periodo ellenistico per tutto il Medioevo bizantino domina la lingua greca.
Bibl.: Lo stato delle ricerche prima degli scavi di Bogazköy e di Sardi si ha in P. Kretschmer, Einleitung in die Geshichte der griechischen Sprache, Gottinga 1896, pp. 280-400. La prima grammatica della lingua hittita è stata edata da F. Hrozný, Die Sprache der Hethiter, Lipsia 1916. Su tutti i testi venuti in luce a Bogazköy ha dato notizie particolareggiate E. Forrer, Die acht Sprachen der Boghazköi-Inschriften, in Sitzungsber. d. Preuss. Ak. d. Wiss., 1919, pp. 1029-1041; id., in Zeitschr. der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft, LXXXVI (1922), p. 174 segg. Un articolo riassuntivo dà J. Friedrich, in Reallexikon der Vorgeschichte, I, Berlino 1924, pp. 126-142. Del Corpus Inscriptionum Chaldicarum, edito dal Lehmann-Haupt, il primo fascicolo è stato pubblicato nel 1928. Per indicazioni più minute sulle singole lingue, v. nei paragrafi linguistici delle voci caria, hittiti, licia, lidia, mitanni, frigia, tracia.
L'età greca. - Riguardo alla serie ininterrotta di colonie greche che in età storica troviamo da Lesbo fino alla Caria, era conservata presso i Greci la tradizione che gli abitanti di esse non erano indigeni dell'Asia Minore, ma vi erano pervenuti dalla Grecia. L'espansione dei Greci fuori della Grecia cominciò dall'Attica e dall'Eubea, che si trovavano a più immediato contatto con le Cicladi, le quali formavano una specie di ponte fra la penisola greca e le coste asiatiche. Che questa più antica colonizzazione greca fosse dovuta ai Greci dell'Attica è provato dal dialetto e dalla costituzione gentilizia che si trovava nella Ionia. I Greci dell'Argolide e della Laconia passarono nelle Cicladi meridionali e sulla costa della Caria, spingendosi fino a Creta, e anche qui la prova è data dal dialetto e dalla presenza delle tribù doriche. La terza via per giungere dalla Grecia in Asia fu quella che dalla Tessaglia per Sciro permetteva di passare a Lesbo e a Chio e quindi sulla costa dell'Asia. L'origine di questi coloni dell'Eolia non si può precisare, perché non ci è noto l'ordinamento gentilizio; tuttavia il dialetto ci richiama alla Beozia e alla Tessaglia. Alle condizioni dialettali delle colonie greche dell'Asia s'addice la loro tripartizione nelle stirpi Dorica, Ionica, Eolica.
Questi coloni costituiscono tre unioni di carattere sacrale. La confederazione ionica, che ebbe il suo centro religioso nel tempio di Posidone sul promontorio di Micale, abbracciava dodici città: Mileto, Miunte, Priene, Samo, Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Eritre, Chio, Clazomene, Focea. Anche gli Eolî formarono una confederazione di carattere religioso composta di dodici città tutte situate sulla terraferma; gli abitanti di Lesbo, pure considerandosi di stirpe eolica, non entrarono a far parte della confederazione. Il centro religioso dei Dori fu il tempio di Apollo sul promontorio Triopio presso Cnido, e della lega fecero parte le tre città dell'isola di Rodi (Ialiso, Camiro, Lindo), nonché Alicarnasso, Cnido, e Cos, formando così l'esapoli dorica. Più ad oriente i Lici poterono conservare il loro territorio quasi immune dalle colonie greche; ma i Greci riuscirono a colonizzare la regione costiera, che ebbe il nome di Panfilia, compresa tra la Licia e la Cilicia e limitata a nord dalla Pisidia; il nome di Panfili, uomini d'ogni stirpe, s'addiceva ai coloni greci qui venuti da ogni parte della Grecia. I Greci si spinsero ancora nella Cilicia, ma qui dovettero arrestarsi di fronte ai grandi imperi civili dell'Oriente.
Fra le città della Ionia, Mileto nel sec. VIII a. C. era uno dei più importanti centri commerciali; le sue navi sostituivano a poco a poco quelle dei Fenici, e portavano i Milesî a fondare nuove colonie: Abido, Lampsaco e Pario sull'Ellesponto; Proconneso e Cizico sulla Propontide; Olbia, Panticapeo, Sinope, Amiso sul Ponto Eusino.
La colonizzazione di questa vasta estensione di territorio dovette richiedere un tempo assai lungo, perché non dovuta a grandi spedizioni di conquista, ma di solito lenta e graduale attraverso le relazioni commerciali pacifiche con gl'indigeni. Cominciata forse nel sec. XIV a. C. col declinare della civiltà preistorica rivelataci dagli scavi di Creta, la colonizzazione greca era compiuta tra il sec. IX e l'VIII quando sorsero le epopee omeriche.
Le leghe dei coloni greci non avevano importanza politica; le città che ne facevano parte non erano certo di uguale potenza, ma nessuna di esse era tale da potersi imporre alle altre, onde ciascuna godeva della piena libertà. Questa condizione di cose poteva sussistere senza pericoli gravi finché le popolazioni indigene dell'Asia Minore rimanevano disgregate come i Greci della costa. Ma tale stato mutò quando al principio del sec. VII a. C. nella maggior pianura della parte occidentale dell'Anatolia attraversata dal corso medio dell'Ermo cominciò a svilupparsi uno stato unitario più potente, il regno di Lidia. I dinasti di Sardi riuscirono di fatti a unificare la regione detta Meonia da Omero e poi Lidia, dominata dalla città di Sardi che ne fu capitale e dalla collina su cui si elevava inespugnabile la sua rocca. Il re Gige (703-665 a. C.), fondatore della dinastia dei Mermnadi, dominò le valli dell'Ermo e del Meandro, e con lui cominciarono le lotte della Lidia contro i Greci. Benché battuto davanti a Mileto e poi dagli Smirnei, estese il suo dominio sulla Troade e sulle coste della Propontide dove fondò Dascilio. Intanto i Cimmerî invasero l'Asia Minore, sconfissero Gige che morì in battaglia, indebolirono il regno di Frigia e spadroneggiarono per qualche tempo nell'Asia, finché furono scacciati dal figlio di Gige, Ardis (665-616?). Questi occupò la Frigia sicché il regno di Lidia abbracciò la maggior parte dell'interno dell'Asia Minore. Alla conquista delle colonie greche attesero Ardis e i suoi successori Sadiatte (616-604?), Aliatte (604-555?) e Creso (circa 555-540 a. C.). Il possesso delle città costiere era necessario ai re di Lidia, perché era il loro sbocco naturale e obbligato al mare. Sardi era il luogo in cui convergevano le carovane provenienti dalla Mesopotamia, dalla Persia, dall'India, con le merci destinate ai paesi greci ai quali potevano giungere soltanto per mezzo dei porti dell'Asia Minore. L'esportazione non si poteva fare senza la cooperazione degli armatori di Efeso, di Mileto, di Smirne ecc., sicché i re di Lidia erano spinti a impossessarsi delle colonie greche. Questa la causa del conflitto tra le ricche città costiere e i re di Lidia da Gige a Creso. Con la sottomissione delle colonie greche della Ionia, dell'Eolia, della Misia, Creso ebbe in sua mano tutti i centri commerciali della costa asiatica, dove sorse e si diffuse l'uso della moneta d'oro e d'argento. Mileto, potente per mare, poté resistere contro i Lidî sprovvisti di flotta e conservò, come le isole, la sua indipendenza. Il dominio dei re di Lidia non danneggiò ma favorì lo sviluppo commerciale delle città costiere, e fu verso di esse liberalissimo anche dal punto di vista politico. Così verso la metà del sec. VI a. C. la maggior parte della regione occidentale dell'Asia Minore era riunita in un potente stato, il più potente tra quelli sorti fino allora nella regione del mare Egeo.
Ma verso la fine del sec. VII dalla rovina dell'Impero assiro, che aveva abbracciato le vaste regioni dalla Media al Tauro e alle coste della Siria, erano sorti i due regni di Babilonia e della Media. Il sovrano della Media, Ciassare, estendendo il suo dominio verso occidente ebbe guerre con Aliatte re di Lidia, e, conclusa la pace, il fiume Halys segnò il confine tra la Lidia e la Media. Il regno di Media però durò poco, perché le tribù persiane, rette da una famiglia discendente da Achemene, loro capo quando dall'Asia centrale passarono nel territorio che da esse prese il nome di Persia, scossero il giogo dei Medî con Ciro il Grande il quale detronizzò Astiage e fondò il regno di Persia (circa 550 a. C.). Creso che regnava in Lidia sperò allora di recuperare la Cappadocia, ma fu sconfitto e preso prigioniero da Ciro, il quale incorporò il regno di Lidia alla Persia (546 a. C.). Le città greche già sottomesse ai re di Lidia dovettero riconoscere la supremazia persiana, ma dal contatto tra Greci e Persiani derivò quella lotta che si concluse soltanto con Alessandro Magno. Tuttavia il dominio persiano non fu troppo gravoso e politicamente non era illiberale; le città greche soggette conservarono una grande libertà nelle cose interne e i loro ordinamenti, ma dovevano dare aiuti in guerra e pagare tributo; in alcune di esse i Persiani riconobbero le signorie o tirannidi che vi si erano costituite. Così Mileto conservò la sua dinastia dei Neleidi ed Efeso quella dei Melidi. Anche i Lici, che si erano mantenuti indipendenti, si dovettero sottomettere a Ciro il quale ebbe così il dominio di tutta l'Asia Minore, divisa allora nelle due satrapie di Sardi e di Dascilio.
Dal punto di vista economico il periodo di maggior benessere delle città greche dell'Asia fu forse quello in cui furono soggette al dominio persiano; ma esso era profondamente diverso da quello dei Lidî. Questi si erano ellenizzati assai presto; i Persiani avevano una civiltà molto diversa per costumi, armi, cultura, credenze religiose, sistema politico; e in urto col senso di libertà dei Greci. La concessione loro fatta di vivere secondo le loro leggi era fondata sul beneplacito del gran re, e non su diritti riconosciuti per mezzo di convenzioni che si potessero difendere anche con la forza. Da ciò quell'avversione al dominio persiano che prorompeva in ribellioni male conciliabili con la sicurezza dello stato persiano, e determinò l'insurrezione ionica e le guerre persiane iniziate al tempo di Dario figlio di Istaspe (521-485 a. C.). Se l'insurrezione ionica poté essere domata, le sconfitte di Dario e di Serse da Maratona a Micale ebbero per conseguenza la separazione dei Greci dell'Asia dalla Persia, mediante l'alleanza fra Atene e le colonie greche dell'Asia, e la formazione dell'impero marittimo ateniese. Al tempo delle guerre persiane nella Misia e nella Lidia sorsero tre piccoli stati, che ebbero diversa durata, in città donate dal re di Persia ad esuli greci che si erano rifugiati presso di lui. Si costituirono così le dinastie dei Demaratidi, dei Gongilidi e quella di Temistocle, il quale ebbe da Artaserse la città di Magnesia. Atene condusse con Cimone l'offensiva contro i Persiani che furono cacciati da parecchie città greche della Caria e sconfitti in Panfilia nella battaglia dell'Eurimedonte (470-69 a. C.). Aggravatasi la rivalità fra Sparta e Atene, questa concluse con la Persia la pace per cui agli Ateniesi era riconosciuto il predominio nell'Egeo, il possesso delle isole e delle coste dell'Asia Minore, al gran re il dominio di Cipro, della Fenicia e dell'Egitto. Atene rinunziava a ogni ulteriore espansione in territorio persiano e a dirigere la guerra nazionale contro il barbaro. Durante la guerra del Peloponneso i due satrapi dell'Asia Minore, Farnabazo e Tissaferne, concessero aiuti a Sparta, e più apertamente ciò fece il figlio minore di Dario II, Ciro. Questi dopo la caduta di Atene tentò contro il fratello Artaserse quella spedizione in cui perdette la vita a Cunassa. Tissaferne fatto governatore dell'Asia Minore tentò di ridurre in suo potere le città greche che si rivolsero per aiuto a Sparta. Così si rinnovò la lotta dei Greci contro i satrapi persiani, con Timbrone, Dercillida e Agesilao re di Sparta. Con la pace di Antalcida (387 a. C.) Sparta abbandonava tutti i Greci dell'Asia al dominio del gran re, proprio quando la spedizione di Ciro e i successi di Agesilao avevano dimostrato la crescente debolezza dell'impero persiano. Di ciò una prova era poi fornita dalle frequenti ribellioni dei satrapi. Il governatore della Cappadocia, Datame, che aveva esteso il suo dominio anche sulla Paflagonia e su Sinope, si ribellò e il suo esempio fu seguito da Ariobarzane satrape della Frigia, dell'Ellesponto e di altre terre dell'Asia Minore, da Oronte satrape dell'Eolide e della Ionia, e da Maussolo dinasta della Caria. Artaserse poté tuttavia domare la ribellione e riaffermare sull'Asia Minore l'autorità regia, ed anche Artaserse Oco (῟Ωχος, 358-337) si prefisse di riordinare lo stato e consolidare il suo potere, ma nulla rinnovò nel campo militare. I mercenarî greci costituivano sempre la parte migliore dell'esercito persiano, e sarebbe bastato quindi opporre a quei mercenarî altrettanti Greci con adeguata cavalleria, sotto la guida di un uomo di ferma volontà, per abbattere l'Impero persiano. È ciò che fece la Macedonia, il cui re Filippo nel congresso di Corinto fece proclamare la guerra nazionale per la liberazione dei Greci dell'Asia dal dominio persiano (autunno 337 a. C.) nel momento in cui ad Artaserse succedeva Dario Codomano. Le vittorie di Alessandro al Granico e ad Isso contro Dario assicurarono ai Macedoni il possesso dell'Asia Minore, mentre le città greche tornarono libere.
Morto Alessandro, l'Asia Minore subì varie vicende politico-territoriali attraverso le lotte dei Diadochi. Proclamato re Arrideo con la prima divisione dell'impero di Alessandro nell'Asia Minore fu assegnata la Cilicia a Filota, la Lidia a Menandro, la Frigia dell'Ellesponto a Leonnato; ad Antigono fu data la Grande Frigia, la Licia e la Panfilia; a Eumene di Cardia la Paflagonia e la Cappadocia con la regione costiera del Ponto fino a Trapezunte, territorio tuttavia da conquistare; ad Asandro la Caria. Con la divisione di Triparadiso (321 a. C.), che assegnò a Seleuco la satrapia di Babilonia, fu accresciuto nell'Asia Minore il dominio e il potere di Antigono, che finì col signoreggiarla quasi per intero finché la sua fortuna crollò con la morte nella battaglia di Ipso (301 a. C.) L'Asia Minore al di qua del Tauro passò sotto Lisimaco; ma con la sconfitta di lui a Corupedio (282 a. C.), divenne dominio di Seleuco Nicatore, i cui successori ne conservarono non senza contrasti il possesso fino a che Antioco III fu sconfitto dai Romani nella battaglia di Magnesia (190 a. C.). I Seleucidi però, come i loro predecessori, non poterono di fatto sottomettere tutta l'Asia Minore. Così la Bitinia finì col costituire un regno a sé sotto Nicomede che prese il titolo regio (280 a. C. ?); così la Cappadocia formò uno stato indipendente sotto la dinastia degli Ariaratidi, e la Cappadocia del Ponto ebbe una propria dinastia per opera di Mitridate Ctiste. Inoltre dalla signoria di Filetero su Pergamo si svolse il regno degli Attalidi, e l'invasione dei Galli in Asia diede origine al nuovo stato della Galazia che venne diviso in quattro tetrarchie sotto principi ereditarî.
La conquista di Alessandro e il dominio dei Diadochi e degli Epigoni, specialmente dei Seleucidi, ebbero particolare importanza per l'ellenizzazione dell'Asia; il declinare della potenza dei Seleucidi segnò anche la decadenza dell'ellenismo in oriente. Nell'Asia Minore, sotto questo punto di vista, il posto dei Seleucidi dopo il trattato di Apamea (188 a. C.) fu tenuto dagli Attalidi, che si vantarono soprattutto di essere filelleni, e fecero di Pergamo un vivo e sicuro focolaio dell'ellenismo. Per effetto del testamento di Attalo III, che lasciava il popolo romano erede del suo regno (133 a. C.), cominciò in Asia il dominio diretto di Roma (v. sotto).
Bibl.: Oltre alle opere generali di E .Mayer, Beloch, Busolt e alla Cambridge Ancient History si consultino: G. Radet, La Lydie et le monde grec au temps des Mermnades, Parigi 1883; Cl. Huart, La Perse antique et la Civilisation iranienne, Parigi 1925; W. Ramsay, Historical geography of Asia Minor, Londra 1890.
L'età romana. - L'occupazione della grande penisola dell'Asia Minore da parte dei Romani si iniziò nella seconda metà del sec. II a. C. e, attraverso successive vicende, fu completa soltanto sul principio del sec. II d. C. L'estensione del territorio, ma soprattutto la diversità dei popoli, della natura, del progresso civile delle singole sue parti e la graduale conquista di esse, consigliarono od obbligarono i Romani a non fare di esso una provincia sola, ma a suddividerlo in varie provincie. Al momento della morte di Traiano, nel 117 d. C., esse sono: l'Asia propriamente detta, o Asia proconsolare, comprendente la regione centrale, più popolosa e di più antica civiltà della penisola, affacciata sul Mediterraneo, e insieme con essa le isole grandi e piccole situate presso la costa; la Bitinia e Ponto, a settentrione, sulle rive del Ponto Eusina; la Licia e Panfilia, a mezzogiorno, che chiudeva nei suoi confini anche una parte della Pisidia; la Cilicia, a oriente della Panfilia, sempre lungo le coste meridionali; infine la Galazia, a oriente dell'Asia proconsolare, e la Cappadocia, stendentesi ancora più a oriente verso i confini dell'Impero, le quali, pure affacciandosi per qualche breve tratto al mare, comprendevano soprattutto le regioni continentali della penisola.
Rinviando alle voci rispettive la trattazione delle altre provincie, si parla qui soltanto dell'Asia propriamente detta.
Istituzione della provincia romana d'Asia. - Attalo III, re di Pergamo, morendo nella primavera del 133 a. C., istituì eredi del suo regno e di tutte le sue sostanze i Romani, come risulta da numerose testimonianze di scrittori antichi (vedi l'elenco completo in G. Cardinali, La morte di Attalo III, ecc.), del cui fondamento storico si era dubitato, e che invece sono state definitivamente confermate da un'iscrizione scoperta nel 1885 negli scavi del teatro di Pergamo (Fränkel, Inschriften von Pergamon, n. 249: Dittenberger, Orientis graeci inscriptiones selectae, n. 338). Si tratta di un decreto, votato dal popolo di Pergamo subito dopo la morte dell'ultimo sovrano, il quale decreto comincia col constatare che il re Attalo Filometore ed Evergete, morendo, ha lasciato libera la patria, e che del suo testamento si attende la sicura accettazione e sanzione da parte dei Romani, e prosegue concedendo la cittadinanza ai pareci, elevando al grado di costoro i liberti e alcune categorie di schiavi e comminando invece gravi sanzioni contro coloro che abbiano disertato dalla città, o si dispongano a disertare. Questo documento dunque non soltanto tronca ogni questione sulla realtà storica del testamento di Attalo III, ma ci fa sapere che costui, istituendo eredi i Romani, aveva però disposto che la città di Pergamo conservasse la sua libertà, dal che si può indurre che altrettanto egli avesse stabilito per le altre città greche del regno. Quali ragioni avessero indotto Attalo III al suo testamento non è chiaro, ma certo è che i Romani, dopo la battaglia di Magnesia, avevano stabilito il loro primato di fatto sul regno di Pergamo, e ne avevano ridotto i dinasti in condizione di vassallaggio, di guisa che col suo testamento Attalo III non fece che anticipare quel dominio romano, che, comunque, sarebbe stato una conseguenza inevitabile del fatale corso delle cose; e, assicurando con apposite clausole testamentarie la libertà delle città greche, cercò di salvare quanto ragionevolmente si poteva sperare. Poiché i Romani, così in Grecia come in Asia Minore, si erano costantemente atteggiati a tutori e vindici della libertà dei Greci, era da presumere che avrebbero rispettato queste clausole, e questa convinzione espresse appunto il popolo di Pergamo in testa alla deliberazione citata sopra. Sui motivi della quale molto si è discusso, ma è probabile che nel territorio degli Attalidi serpeggiasse di già, prima della morte dell'ultimo di essi, un movimento di rivolta tra gli schiavi, che doveva essere in qualche connessione con la prima rivolta servile in Sicilia, e che quel movimento divampasse più minaccioso alla morte di lui. E fu, pare, l'incalzare di questo pericolo che indusse il popolo di Pergamo da una parte ad adottare le misure liberali, sancite in quel suo decreto a favore di alcune categorie di sudditi, e dall'altra a comminar pene contro i disertori. Le une e le altre miravano ad accrescere la forza e la concordia della città. Nello stesso tempo i Pergameni inviarono a Roma un loro messo, Eudemo, per comunicare ai Romani il testamento del re. Eudemo giunse in Roma, quando già Tiberio Gracco, con la deposizione del collega Ottavio, era riuscito a far votare la sua legge agraria, ma si era attirato l'odio implacabile degli ottimati. In quel ribollire di rancori e di passioni l'annuncio dell'eredità attalica di-venne nuovo fomite di contese, in quanto che l'assunzione dell'eredità e i relativi ordinamenti sarebbero stati, secondo la prassi ormai consolidatasi in Roma da lungo tempo, di spettanza del senato, e invece Tiberio Gracco, previe intese con Eudemo, propose al popolo una legge, per la quale i denari del tesoro attalico dovevano essere divisi tra i beneficiati della legge agraria, per offrire loro i mezzi dei primi impianti agricoli indispensabili, e in pari tempo dichiarò al senato che avrebbe pensato lui ad investire l'assemblea popolare di tutte le questioni relative all'ordinamento dei territorî ereditati e alle condizioni da farsi alle città greche (Plut., Tib. Gracch., 14). Dopo di che gli eventi precipitarono, e Tiberio, proposta la sua rielezione al tribunato, cadde vittima del fanatismo degli ottimati, diretti da Scipione Nasica. Scomparsa la figura del tribuno, il senato, per rivendicare la propria sovranità nell'amministrazione dei dominî, che quegli aveva messa in discussione, si occupò dell'ordinamento dei territorî attalici, e stabilì con un senatoconsulto (Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts, Athenische Abteilung, XXIV, 1899, p. 190, n. 61; Dittenberger, op. cit., n. 435; la data probabilmente è da porsi verso il settembre del 133 a. C.) che venissero riconosciute tutte le misure che i re avevano applicate nel loro regno, sino al giorno antecedente alla morte di Attalo III, sia che fossero misure di punizione (condanne, confische, bandi, ecc.) o di rigore (infrenamento di abusi, aumento di gravami, menomazioni di libertà), sia che fossero misure di favore (remissione di pene, largizione di libertà, donazioni di ogni genere). Dal che si vede che i Romani vollero rispettata, almeno formalmente, la volontà di Attalo, e quindi riconobbero la libertà a Pergamo e alle altre città del regno. Tutto induce a credere che, nel momento in cui fu votato questo senatoconsulto, le condizioni dei territorî già attalici fossero relativamente tranquille, ma qualche mese di poi Aristonico, figlio naturale di Eumene II o spacciantesi come tale (sulla questione v. G. Cardinali, Il regno di Pergamo, p. 131 segg.) elevò pretese all'eredità. Per prima cosa indusse alle sue parti Leuke, piccola città tra Smirne e Focea, e guadagnò Focea stessa. Gli Efesî furono i primi a scendere in campo contro il pretendente, e sconfissero la flotta, che questi si era procurata, in uno scontro che ebbe luogo sulla costa all'altezza di Cime. Allora Aristonico si ritirò nell'interno, e, vinta ogni esitazione, decise di affratellare le sue armi a quelle degli schiavi e degli strati bassi della popolazione. Chiamò i suoi seguaci col nome di Eliopoliti, cioè cittadini di una città Eliopoli, che egli prometteva di fondar loro, o piuttosto membri del futuro stato socialista, che egli proponeva chiamare lo stato del Sole, a somiglianza dello stato utopistico, che Iambulo aveva descritto nel suo romanzo sociale.
Atteggiatosi così a campione della libertà e delle rivendicazioni sociali, Aristonico ebbe un momento di grande fortuna, trovando particolare slancio di appoggi tra gli indigeni, specialmente tra i Misî, il cui attaccamento persistette anche dopo la disfatta. Le città greche nella loro maggioranza si opposero per timore dei Romani, ma il pretendente parecchie ne prese con la forza: Mindo, Samo, Colofone (Flor., I, 35), Tiatira, Apollonide (Strab., XIII, 646), e le sue operazioni di guerra si ripercossero sulla Propontide, dove Cizico fu assediata (Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, n. 134, lin. 7) da alleati del pretendente, forse da genti della Misia, e nel Chersoneso Tracico, ove corsero intese tra i seguaci di Aristonico e i Traci, e Sesto vide devastati i suoi campi, distrutto il raccolto, messa a grave cimento la prosperità cittadina (v. il decreto in onore del ginnasiarco Menas, Dittenberger, Or. gr. inscr. sel., 339, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1681, lin. 16 segg. e 59 segg.). La capitale stessa Pergamo in qualche momento aderì alla sua parte o, almeno, pencolò verso di lui (v. l'iscrizione pubblicata in Athen. Mitteil., XXXII, 1907, p. 245 n. 4; Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 292 con le osservazioni di G. Cardinali, La morte di Attalo III, p. 305) e qualche città vicina, come Elea o Pitane, corse gravissimi pericoli (v. l'iscrizione Ath. Mitt., 1913, p. 37; Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1692; Dittenberger, Sylloge inscriptionum graecarumn, 3ª ed., 694: la provenienza di questa iscrizione è attribuita a Pergamo dal Wilhelm, Jahreshefte des österr. arch. Inst., XVII, 1914, 118, ma la cosa è molto dubbia). L'incertezza della condotta di Pergamo durò poco. Il senato romano, infatti, al primo annuncio della rivolta di Aristonico, inviò in Asia una ambasceria di cinque membri, della quale mise a capo P. Cornelio Scipione Nasica, per sottrarlo all'odio del partito popolare (cfr. B. Borghesi, Oeuvres complètes, II, 647), e quest'ambasceria dimorò in Pergamo, che quindi era allora evidentemente assicurata alla causa romana, ed in Pergamo morì nel 132 avanti Cristo. A P. Cornelio Scipione Nasica, i Pergameni furono larghi di onoranze funebri (l'iscrizione pubblicata in Ath. Mitt., 1910, p. 483, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1681, proviene forse dal monumento sepolcrale di lui). Ma per tutto il corso del 132 il senato romano, o ancora inconscio della gravità della situazione, o impedito dalle complicazioni interne e dalla guerra di Sicilia, niun provvedimento vigoroso poté adottare, e solo si adoprò a che scendessero in campo i suoi alleati, Nicomede di Bitinia, Mitridate V e Ariarate V delle due Cappodocie e Pilemene di Paflagonia. Soltanto nel 131 a. C. i Romani si decisero a mandare un esercito in Asia. Il comando fu disputato tra L. Valerio Flacco, P. Licinio Crasso e perfino P. Cornelio Scipione Emiliano, e alla fine, con deliberazione dei comizî tributi, fu affidato a P. Licinio Crasso, che era allora pontefice massimo. Egli, sebbene avesse a sua disposizione forze ingenti, e sebbene fossero in armi ad appoggiarlo i re alleati, pare che, sul principio almeno, si curasse più di raccogliere le ricchezze della cessata dinastia che di condurre energicamente la guerra. Quando si volse ad essa, pose l'assedio a Leuke, e mentre vi si attardava intorno fu assalito dalle milizie di Aristonico e vinto. Nella fuga fu fatto prigioniero dai Traci e ucciso. Si era già nella primavera del 130 a. C., quando il comando di Licinio Crasso era spirato, ed egli stava per tornare a Roma, come proconsole (Vell. Pat., II, 4). All'annuncio del disastro toccato a Crasso si affrettò in Asia il console del 130 a. C., M. Perperna, il quale sorprese e batté Aristonico (v. Inschriften von Priene, 108, lin. 223), lo costrinse a rifugiarsi in Stratonicea, lo fece prigioniero (fine del 130 a. C. o principio del 129) e poté spedire in Italia le ricchezze attaliche. A Perperna, che morì in Pergamo, successe il console M′. Aquilio, che si era affrettato a raggiungere la provincia per sottrarre al predecessore la gloria del trionfo. M′. Aquilio si adoperò per far capitolare le ultime città ancora resistenti (Flor., l. c.). Molte truppe romane ebbero a svernare nella provincia nel 129-8 (v. l'iscrizione di Pergamo, Inscr. gr. ad res rom. pert.. IV, 292 già citata), e particolari resistenze incontrò M′. Aquilio nella Caria e nella Misia, dove con lui collaborarono i contingenti di città greche alleate (v. l'iscrizione di Bargilia pubblicata dal Foucart, in Mém. de l'Acad. des Inscr., 1904, p. 330).
Alla fine, terminata la guerra, M′. Aquilio, assistito, secondo il solito, da una commissione senatoriale di dieci membri, procedé all'ordinamento della nuova provincia, dedicando particolari cure alla viabilità e trattenendosi in Asia per lo meno fino al 127 a. C. Egli trionfò in Roma soltanto verso la fine del 126 a. C. (v. Corpus Inscriptionum Latinarum, I, 2ª ed., p. 49 e p. 176), trascinando forse dietro il suo carro Aristonico, che certo era già stato mandato in Italia dopo la sconfitta e morì poi in prigione (cfr. G. Cardinali, op. cit., pp. 315 e 316, n. 1). La città di Pergamo, che, a quanto pare, aveva già mostrato la sua gioia per la cattura del pretendente con l'istituzione delle feste Soterie Eraclee (v. l'iscrizione pubblicata in Ath. Mitteil., XXXIII, 1908, p. 406, n. 35 col relativo commento del Jakobsthal, cfr. Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 300), fece M′. Aquilio oggetto di culto con relativo sacerdote (v. Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 292, lin. 39 segg. e 293, col. II, lin. 23 segg.). La città di Mileto, che forse durante la guerra aveva dato qualche ragione di malcontento ai Romani, si affrettò a ingraziarseli con l'istituzione del culto del popolo romano e di Roma (v. l'iscrizione pubblicata in Abhandl. der Berliner Akademie, 1911, p. 16 segg., e in Milet, Ergebn. d. Ausgr., I, 7, 1924, p. 290, n. 203 col relativo commento).
Cenni sulla storia della provincia. - Nella provincia d'Asia cominciarono presto a infierire le società di pubblicani, incaricate della riscossione dei tributi (v. appresso), e le loro esose oppressioni giunsero a tal segno che, già sul finire del sec. II a. C., vediamo che il senato romano non poté fare a meno di ascoltare le proteste dei cittadini di Pergamo circa le pretese dei pubblicani di sottoporre a tributo certi terreni, che, a quanto pare, avevano diritto all'immunità (v. l'iscrizione di Adramitto, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 262; altre tracce della precoce invadenza dei pubblicani si vedano nelle Inschr. von Priene, n. 111, lin. 113, 118, 140 e n. 117, lin. 14 e 22). Dei pubblicani si fecero generalmente complici i governatori della provincia, avidi alla loro volta e timorosi delle azioni giudiziarie, che quelli avrebbero potuto intentare contro di loro dinnanzi ai tribunali, i quali, dopo le riforme di C. Gracco, erano nelle mani dell'ordine equestre. Uno dei pochi governatori onesti fu, sul finire del sec. II a. C., Q. Mucio Scevola, e i pubblicani, non essendosi potuti sfogare contro di lui, volsero le loro ire contro il suo questore, Rutilio Rufo, che, dopo la partenza di Scevola, aveva tenuto interinalmente il governo dell'Asia, e aveva proseguito nell'onesta tutela dei diritti dei sudditi, della quale il suo capo gli aveva dato esempio. I pubblicani ebbero il coraggio di accusarlo di concussione e lo fecero condannare all'esilio dai giudici, colleghi dell'ordine equestre, con enorme scandalo generale (Cic., Brut., 30; Liv., Per., 70; Cass. Dio., fr. 95; Val. Max., II, 10, 5). Il suo buon diritto fu riconosciuto soltanto una quindicina d'anni dopo, ai tempi di Silla, ma egli preferì restare lontano dalla patria.
L'oppressione fiscale dei provinciali e il conseguente malcontento spiegano come, durante la prima guerra Mitridatica, i sudditi in parte accogliessero Mitridate come un liberatore, e in parte ondeggiassero per l'uno o per l'altro degli avversarî a seconda delle circostanze e del successo. Aprirono generalmente le porte al re del Ponto, senza nessuna velleità di resistenza, le città dell'interno, specialmente quelle poste sulle grandi vie. Meno pronte alla sottomissione furono le città della costa, le isole e una gran parte della Caria. Resistettero infatti per qualche tempo oltre a Tabe e Stratonicea, Efeso, Magnesia al Sipilo, Chio; Mitilene invece si mostrò meno ardita, e consegnò M′. Aquilio nelle mani di Mitridate. E quando questi, padrone ormai della situazione, ordinò nell'anno 88 a. C. lo sterminio di tutti i Romani ed Italici residenti in Asia, il comando fu generalmente eseguito con entusiasmo. Coo, che si rifiutò di associarsi alla strage, presto soccombette sotto gli attacchi del re. Rodi invece divenne il luogo di rifugio dei Romani, e rese loro eminenti servigi, difendendosi energicamente da Mitridate e sostenendo un lungo assedio. Mitridate si mostrò molto severo con le città che non erano state pronte a sottometterglisi. Mise una guarnigione a Stratonicea, e ne condannò gli abitanti a una forte ammenda; fece largo bottino in Coo, dove s'impadronì delle ricchezze ivi depositate da Cleopatra, regina di Egitto, e di 800 talenti, là nascosti dagli ebrei di Asia Minore; esiliò nel Ponto tutta la popolazione libera di Chio. Invece straordinariamente mite egli si mostrò con le popolazioni che non gli avevano resistito, mirando a conciliarsene la benevolenza con privilegi e largizioni, con abolizione delle imposte e con imparziale amministrazione della giustizia. Ma le classi dirigenti, i partiti aristocratici, mantennero la loro simpatia ai Romani, e le misure di rigore che Mitridate dovette prendere per scoprire e punire i suoi nemici, l'istallazione di tiranni ad Adramitto, Colofone, Tralle e in altre città, le nomine di governatori militari, le leve continue di uomini finirono a poco poco per diffondere il malcontento anche tra le classi inferiori, e fu così che Efeso, sul finire dell'anno 86 a. C. o sul principio dell'anno successivo, si ribellò, uccidendo Zenobio, luogotenente del re, e decretando misure del tutto eccezionali per fronteggiare la gravità della situazione (Le Bas-Waddington, Inscriptions d'Asie Mineure, 136ª; Dittenberger, Sylloge Inscript. Graec., 3ª ed., 742).
Mitridate allora cercò, a sua volta, di arginare il dilagare della rivolta accordando la libertà a tutte le città greche restategli fedeli, abolendo i debiti, affrancando gli schiavi. Intanto nel complicarsi delle competizioni civili tra i capitani romani con la guerra Mitridatica, la situazione divenne sempre più incerta ed angosciosa per i Greci. Poco dopo l'arrivo di L. Valerio Flacco in Asia, parecchie città decretarono giuochi in suo onore, ma ecco che il suo legato Fimbria lo fa prima destituire, poi assassinare e costringe Mitridate a evacuare Pergamo e investe Ilio devastandola. Ecco che sopraggiunge Silla, orgoglioso dei trionfi ottenuti in Grecia, e, per avere le mani libere contro Fimbria, si affretta a trattare col re del Ponto. Concluso con lui un trattato e costretto Fimbria a uccidersi, Silla annulla i provvedimenti che Mitridate aveva presi a vantaggio delle città perseveranti in suo favore, castiga i capi della ribellione in Efeso, abbandona parecchie città della costa e le isole alla devastazione dei pirati, accantona le sue truppe in quartieri d'inverno nelle grandi città, ordinandone agli abitanti il mantenimento e lo stipendio, e impone il pagamento dei tributi arretrati di cinque anni e una multa di 20.000 talenti, cagionando il disagio e le angustie più disperanti e procedendo in pari tempo a una riorganizzazione amministrativa mercé la ripartizione dell'Asia in nuove circoscrizioni e la divisione proporzionale dei tributi tra loro.
Ma Silla non dimenticò di ricompensare giustamente le città che avevano dato particolari prove di fedeltà ai Romani, e le sue disposizioni furono più tardi ratificate dal senato (v., per Stratonicea, Dittenberger, Or. gr. inscr. sel., 441; per le località della regione di Tabe, ivi, n. 442 con le osservazioni del Mommsen in Gesammelte Schriften, V, 514; per Efeso e per Laodicea, Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 727 e 728).
Nella seconda e nella terza guerra Mitridatica il territorio della provincia d'Asia fu toccato solo eccezionalmente, e sono da ricordare soltanto le sagge riforme amministrative che negli anni 71 e 70 a. C. introdusse Lucullo per riparare alla situazione finanziaria sempre più disastrosa delle città. Egli stabilì una tassa sui fabbricati e sugli schiavi, e un'imposta generale del 25%, sul capitale per rendere possibile il pagamento dell'indennità di guerra, ma in pari tempo prese utili misure per limitare le conseguenze dell'usura.
Ciò nonostante l'oppressione fiscale era sempre enorme e le condizioni dei sudditi peggiorarono per il riversarsi in Asia di una quantità di banchieri e di affaristi, pronti a sfruttare nello stesso tempo il bisogno di credito, derivante dalla crisi economica, e la grande produttività della provincia. L'orazione pro Flacco di Cicerone e molte delle sue lettere al fratello Quinto mostrano in quale penosa situazione finanziaria si trovasse una gran parte delle città asiatiche, e aprono interessanti spiragli di luce sull'avidità, la corruzione, gli abusi di ogni genere dei Romani, che, come agenti fiscali o come affaristi, vessavano la provincia.
Le guerre civili, con le loro ripercussioni, diedero il colpo di grazia a quanto aveva potuto sopravvivere del benessere degli Asiatici. Enormi furono le contribuzioni imposte a costoro da Scipione, proconsole di Siria e suocero di Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo; brutali, dopo la morte di Cesare, le vessazioni di Dolabella; iugulatoria, dopo la sconfitta di questo, la decuplicazione del tributo annuo. E seguirono le estorsioni di Antonio dopo la battaglia di Filippi, le devastazioni e le angherie dei Parti, sotto la guida di Labieno, e le leve e le nuove esazioni di Antonio, il quale, mentre si apparecchiava alla battaglia decisiva, non ristette nemmeno dinnanzi alla spogliazione dei templi (v. Monumentum ancyranum, IV, 49: In templis omnium civitatium provinciae Asiae victor ornamenta reposui, quae spoliatis templis is cum quo bellum gesseram privatim possederat).
La pace, instaurata da Augusto, segnò anche per l'Asia l'inizio di una nuova era di risanamento dai mali sofferti, di rifioritura generale della produzione, dei commerci e delle industrie e di ascensione culturale. L'Asia fu nei primi due secoli dell'impero tra i centri di maggiore esportazione di grano e di vino (Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman empire, Oxford 1926, p. 148) e largamente guadagnò negli approvvigionamenti degli eserciti del medio e del basso Eufrate (ivi, p. 157). Particolarmente fiorente fu l'industria della lana e della tintoria, che ebbe i suoi principali centri in Laodicea al Lico (W. M. Ramsay, Cities and Bishoprics of Phrygia, I, p. 40), in Ierapoli (C. Cichorius, Die Altertümer von Hierapolis, p. 49) e in Tiatira (W. Buckler, Monuments de Thyatire, in Revue de Philologie, XXXVII [1913], p. 289 segg.), molto redditizie le cave di pietra della Frigia (v. oltre), attivissimo il commercio dei prodotti dell'interno del continente e del lontano Oriente, che, avviati a Roma o ad altra città dell'Occidente, si concentravano negli emporî delle città costiere e delle isole (K. Lehmann-Hartleben, Die antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, in Klio, suppl. 14, 1923). Allo sviluppo delle industrie (E. H. Brewster, Roman Craftsmen and Tradesmen of the early Roman Empire, 1917, p. 94 segg.) e al moltiplicarsi degli sbocchi assai contribuirono le potenti corporazioni di commercianti e lavoratori, delle quali si hanno numerose tracce (Poland, Geschichte des griechischen Vereinswesens, p. 116 segg.; F. Oehler, Genossenschaften in Kleinasien und Syrien, in Eranos Vindobonensis, p. 276 segg., Vienna; Rostovtzeff, op. cit., p. 168 e 253, nota 42), e del benessere, almeno delle classi più elevate, e del rifluire della ricchezza si ha prova nel magnifico sviluppo edilizio delle città principali (v. per Efeso, G. Lafaye, Conférences du Musée Guimet, XXXII, 1909; Forschungen in Ephesos I-III, Vienna 1906-1923; per Pergamo, Altertümer von Pergamon, 1885-1912; per Mileto, Ergebnisse der Ausgrabungen, 1906 segg.; per Smirna, W. M. Calder, Smyrna as described by the orator Aristides, in Ramsay, Studies in the history of the Eastern Provinces of the Roman Empire, 1906), nel moltiplicarsi delle fondazioni di cittadini doviziosi a vantaggio delle loro città, nella costruzione continua, a spese di privati, di teatri, di curie, di ginnasî, di acquedotti, nella pompa doviziosa di monumenti funebri perfino in città di importanza affatto secondaria come Asso (v. T. Clarke, Investigations at Assos, 1921).
Del progresso e del nuovo impulso della vita intellettuale è documento il rifiorire dell'eloquenza e della retorica, che proseguono lo sviluppo di quel genere asiatico, del quale Cicerone vide gl'inizî. Non mancarono, specialmente al principio dell'Impero, terribili flagelli naturali di cataclismi e di terremoti. Tralle, Laodicea del Lico, Chio e Tiatira furono quasi distrutte nel 24 a. C., e durante il regno di Tiberio altri terremoti sconvolsero molte altre città. Sventure simili si ripeterono al tempo degli Antonini, ma con gli aiuti e con gli sgravî fiscali, dei quali gl'Imperatori furono larghi, queste crisi furono superate e i primi due secoli dell'Impero furono l'età più felice dell'Asia Minore.
Fu proprio sul finire del sec. II a. C. che la guerra fra Settimio Severo e Pescennio Nigro interruppe quest'età, cagionando gravi danni con la battaglia di Cizico, e col passaggio delle truppe, dirette prima verso Nicea, ove Pescennio Nigro fu nuovamente sconfitto, poi verso Isso, ove fu battuto definitivamente.
L'epoca dell'anarchia militare, con le numerose competizioni per il trono e col regime d'oppressione, preparò il terreno alla rovina futura della provincia.
Sotto Gallieno l'Asia fu minacciata da Sapore, re di Persia, che si avanzò sino alla Cilicia, ma qui fu affrontato e sconfitto dall'arabo Odenato, principe di Palmira. Poco di poi i Goti, seguendo la regione settentrionale dell'Asia Minore e la costa del Ponto, si avanzarono sino alla Lidia e alle isole vicine e nel 267 devastarono Ilio e la Troade e più a sud Efeso, il cui celebre tempio fu incendiato (cfr. Milet, Ergebn. der Ausgr., I, 9,1928, p. 164, n. 339 a). Nello stesso torno di tempo cominciarono le devastazioni degli Isaurî, abitanti della Cilicia aspra e dell'Isauria, i quali, piombando or qua or là, e tutto mettendo a ferro e a fuoco, rinnovarono le piaghe dei pirati dell'età repubblicana.
Nello svolgersi successivo degli avvenimenti, l'Asia non fu toccata direttamente dalle invasioni barbariche, ma fu travagliata dalla comune crisi statale, economica e morale del Basso Impero, e ridotta dall'apice del benessere al colmo della miseria.
Confini della provincia. - La provincia dell'Asia fu nella sua origine costituita, come abbiamo veduto, con i territorî che avevano fatto parte del regno di Pergamo, e i Romani la chiamarono col nome del continente intero (Strab., XIII, 624; Varro, de ling. lat., V, 3; App., Mithr., 11, 17, 24, b. c., V, 1, III, 2). Questi territorî erano il Chersoneso Tracico, la Misia, Ia Troade, la Lidia, la Miliade, la Licaonia, le due Frigie, la Caria al nord del Meandro, la Panfilia e parte della Pisidia, Telmesso nella Licia (v. G. Cardinali, Il Regno di Pergamo, p. 75 segg.). Di questi territorî i Romani restituirono Telmesso ai Lici (Strab., XIV, 665) e attribuirono la Licaonia ai figli di Ariarate V di Cappadocia, che era stato ucciso durante la guerra di Aristonico, e la grande Frigia a Mitridate V del Ponto, per gli aiuti avuti da lui nella stessa guerra. Non occuparono per il momento né la Panfilia, né la parte della Pisidia, che poi invece incorporarono nella provincia di Cilicia, e all'incontro annetterono subito alla provincia d'Asia quella parte del territorio cario che era fuori dei dominî attalici, quella parte, cioè, che sino dal tempo della guerra contro Perseo avevano sottratto a Rodi e dichiarata libera. Infatti, che questa parte spettasse alla provincia nell'anno 81 a. C. risulta con sicurezza assoluta dal senatoconsulto relativo a Stratonicea (Dittenberger, Or. gr. inscr., n. 441, lin. 59, Cfr. 74, 111) ed è confermato da un decreto di Milasa del 76 a. C. (Le Bas-Waddington, Inscr. d'Asie Min., n. 409, lin. 17 segg.); né è lecito credere che l'annessione fosse avvenuta dopo la prima guerra Mitridatica, nella quale quella regione parteggiò per i Romani (v. il senatoconsulto di Tabe, Dittenberger, Or. gr. inscr., n. 442), ma è invece presumibile che essa risalga al momento stesso della costituzione della provincia. E sino da allora dovettero dipendere da questa le isole site dinnanzi alle coste, da Rodi a Tenedo, e inoltre Astipalea ed Amorgo (Ptol., V, 2, 84), laddove è probabile che il Chersoneso Tracico fosse subito riattaccato alla Macedonia (della quale faceva certamente parte al tempo di Cicerone, in Pis., 35, 86; per l'attribuzione provinciale del Chersoneso nel periodo imperiale v. Hirschfeld, Kleine Schriften, p. 566; Mommsen, Röm. Staatsrecht, III, 1260, 3, Forschungen in Ephesos, III, 1923, p. 134, n. 48). Pochi anni dopo la costituzione della provincia, e cioè alla morte di Mitridate V (circa 121 a. C.), i Romani, approfittando della giovane età del figlio e successore di lui, Mitridate VI Eupatore, tolsero al Ponto il territorio della Grande Frigia, e dopo averlo lasciato temporaneamente libero (App., Mithr., 11, 13, 15, 56, 57; Iust., XXXVI, 4, XXXVIII, 5) lo incorporarono poi alla provincia d'Asia verso il 116 a. C., al quale anno appartiene il senatoconsulto (Dittenberger, Or. gr. inscr., 436).
Così la provincia raggiunse l'estensione, che conservò di poi inalterata, con poche, non importanti e talora transitorie modificazioni. Nell'84 a. C., fu annessa alla provincia Cibira col suo territorio (Strab., XIII, 631; cfr. le osservazioni del Ramsay, Cities and Bishoprics of Phrygia, I, p. 265 segg.). Alla fine della prima guerra Mitridatica la Grande Frigia fu assegnata, almeno nei due distretti di Apamea e di Synnada, alla provincia di Cilicia (v. Cic., Verr., I, 38, 95; cfr. ivi, 29, 30), poi tornò all'Asia (già certamente nel 62-1, epoca del governo di L. Valerio Flacco, difeso da Cicerone contro l'accusa di concussione) e le rimase sino al 56, quando, questa volta anche col distretto di Laodicea, passò di nuovo alla Cilicia (Pinder, Über die Cistophoren, 180, 173, 190). Finalmente verso il 50 a. C. la regione fu riunita definitivamente alla provincia di Asia (Pinder, op. cit., p. 188; cfr. Waddington, Fastes des prov. asiat., p. 23; D. Vaglieri, in Diz. epigr. di antich. rom. di E. De Ruggiero, I, p. 716; Chapot, La prov. rom. d'Asie, p. 78 segg.).
I confini geografici della provincia sono abbastanza esattamente conosciuti per le notizie derivanti dagli antichi geografi (Strabone, Plinio, Tolomeo, Ierocle) integrate con i dati della numismatica e dell'epigrafia, e sono stati ben delineati dal Ramsay (Historical Geography of Asia Minor, p. 171 segg.), al quale è stato possibile rettificare qua e là il Waddington (Fastes, p. 24; confronta la carta di J. G. C. Anderson, ma per una modificazione sul tratto orientale cfr. W. M. Calder, in Classical Review, XXII, 1908, p. 214 segg., con postilla dello stesso Ramsay). Essi non subirono più quasi nessuna modificazione nei primi tre secoli dell'Impero sino alla riorganizzazione generale intrapresa da Diocleziano e proseguita nei decennî successivi, mercé la quale l'antica provincia d'Asia fu suddivisa in sette provincie, che conservarono gli antichi nomi, ma furono delimitate col massimo arbitrio: Asia (governata da un proconsole), Caria (governata da un praeses), Isole (id.), Lidia (governata da un consolare), Frigia prima o Pacatiana (governata da un praeses), Frigia seconda o Salutaris (id.), Ellesponto (governata da un consolare; v. Marquardt, Röm., Staatsverw., I, 347, cfr. Vaglieri, op. cit., p. 732, Chapot, op. cit., p. 86).
Governo della provincia. - La provincia dell'Asia fu governata con le stesse norme che i Romani adottarono nell'amministrazione delle altre provincie (v. provincia). A capo ne stette un governatore che, durante il periodo repubblicano, fu in tempo di pace generalmente un ex-pretore col titolo di pro praetore (in greco ὑποστάτηγος o semplicemente στρατηγός, come capo militare), laddove in tempo di guerra il comando fu affidato (sempre parlando in linea generale) o a uno dei due consoli in carica (prima στρατηγός ὕπατος poi ὕπατος soltanto) o a un ex-console, col titolo di pro consule (prima στρατηγός ἀνϑύπατος, poi ἀνϑύπατος; sulla questione della titolatura greca dei consoli e proconsoli v., contro la teoria del Foucart in Revue de Philologie, XXIII, 1899, p. 254 segg., il lavoro esauriente di M. Holleaux, in Bibl. des Éc. franç. d'Athène et de Rome, fasc. 113, 1918; cfr. anche Riv. Fil. Cl., LII, 1924, p. 29 segg.). Pompeo, come è noto, stabilì che tra l'esercizio della carica urbana e di quella provinciale corresse un intervallo di cinque anni, ma questa norma fu spesso violata, e i triumviri si regolarono nella designazione dei governatori col massimo arbitrio. Augusto poi, nella grande divisione (27 a. C.) delle provincie in imperiali e senatorie, attribuì l'Asia al senato, ed essa fu, con l'Africa, una delle due provincie proconsolari, giacché il governo fu da allora in poi affidato esclusivamente a un ex-console con dodici fasci (pro consule provinciae Asiae o soltanto Asiae o in Asia, o semplicemente pro consule nelle iscrizioni in situ; ἀνϑύπατος ‛Ρωμαίων, ὁ τῆς 'Ασίας ἀνϑύπατος, o semplicemente ἀνϑύπατος) e questo sistema durò in vigore senza modificazioni sino a Diocleziano.
Dei governatori della provincia si vedano gli elenchi alfabetici del Vaglieri, op. cit., p. 717 segg. e dello Chapot, op. cit., p. 305 segg., ai quali naturalmente molte aggiunte sarebbero ora possibili sulla base dei materiali epigrafici venuti alla luce successivamente.
La nomina del governatore avveniva mediante il sorteggio (Cass. Dio., LXXVIII, 22; Corp. Inscr. Lat., IX, 5533, XIV, 3605 e 3613) tra i più anziani consolari presenti in Roma, ma gl'imperatori potevano intervenire, e di fatto intervennero sia con la formazione delle liste dei sorteggiandi, sia con l'assegnazione specifica delle provincie, sia con la proroga dei comandi, che di regola erano annuali. Alessandro Severo rinunciò a ogni intervento, lasciando integra al senato la facoltà di nomina, sopprimendo cioè il sorteggio e la limitazione ai consolari più anziani.
Il luogo di residenza del governatore dell'Asia era Efeso, ove egli doveva approdare nel suo viaggio di andata (Dig., I, 16, 4, 5). I suoi poteri generali erano uguali a quelli dei governatori delle altre provincie: far leve d'uomini fra cittadini romani e abitanti nativi della provincie (Cic., ad Att., V, 18, 2; ad Fam., XV, 1, 5), procedere a requisizioni ed imporre contribuzioni per i bisogni della guerra (Cic., ad Fam., XII, 13; pro Flacc., 12, 27, 32, in Verr., II, 1, 89), raccogliere le quote tributarie versate dalle singole città (App., Bell. civ., IV, 75, cfr. sotto), esercitare la giurisdizione criminale, che comprendeva il diritto di vita e di morte (con facoltà di appello agl'imperatori soltanto per i cittadini romani), quella civile, secondo le norme dell'editto che il governatore pubblicava prima di entrare in carica (Cic., Ad Att., VI, 1, 15) e che, a quanto pare, finirono con l'essere fissate in un generale edictum provinciae, e sorvegliare l'autonomia di cui godevano le città greche.
Il governatore era coadiuvato da un questore (ταμίας, ταμίας καὶ ἀντιστράτηγος = quaestor pro praetore, ἀντιταμίας = pro quaestore, si veda l'elenco in Vaglieri, op. cit., 724), il quale era designato con le stesse regole di sorteggio applicate alla nomina del governatore (Cass. Dio., LIII, 14, 7; Cic., ad Quintum fr., I, 1, 3, 11), e da tre legati, che sceglieva egli stesso, qualche volta nella propria famiglia, ma previa sempre l'approvazione dell'imperatore (Cass. Dio., LIII, 14, 7). Il titolo greco dei legati è πρεσβευτὴς (καὶ) ἀντιστράτηγος = legatus pro pretore. Ve ne furono alcuni che, come risulta dalle epigrafi, non ebbero nemmeno rango di quaestorii, altri di quaestorii o tribunicii, i più di praetorii (v. gli elenchi in Liebenam, Forschungen zur Verwaltungsgeschichte des römischen Kaiserreiches, Lipsia 1889, 49 segg., Vaglieri, op. cit., 122 segg., i quali elenchi abbisognano naturalmente anch'essi di aggiornamento).
Amministrazione della giustizia. - Per questa amministrazione la provincia d'Asia fu divisa in circoscrizioni giudiziarie dette conventus iuridici, istituzione questa genuinamente romana (Strab., XIII, 629). Il governatore visitava annualmente ciascun distretto e teneva tribunale in una delle sue città principali, giudicando ivi tutte le cause della circoscrizione (v., per la Cilicia, Cic., ad Fam., III, 8; XV, 4; ad Att., V, 21, 9, VI, 2), assistito da un numero rilevante di notabili della regione (un centinaio, se il passo di Filostrato, Vit. sophist., I, 22, 6 si riferisce al conventus di Sardi, come suppone il Lévy, in Revue des Études Grecques, XII, 1899 p. 278, n. 3). Ogni distretto prendeva nome da una delle città principali, nella quale più spesso che nelle altre il tribunale si radunava. Plinio (Nat. Hist., V, 103 segg.) ci offre la lista dei distretti giudiziarî della provincia d'Asia al suo tempo. Erano nove e prendevano nome dalle città di Laodicea al Lico (o Cibira), Sinnada, Apamea, Alabanda, Sardi, Smirne, Efeso, Adramitto, Pergamo.
Non conviene a questi distretti aggiungere quello di Filomelio, come propose il Marquardt in Römische Staatsverwaltung, I, 28 ed., 342, perché che gli abitanti di questa città, al tempo di Plinio, convenissero insieme con parte dei Licaoni nel conventus di Sinnada risulta dal paragrafo 95 del libro V della Naturalis Historia confrontato col paragrafo 105, e soltanto è vero che al tempo di Cicerone, quando tutta la Licaonia dipendeva dalla provincia della Cilicia, la città di Filomelio fu transitoriamente capoluogo del forum Lycaonicum (v. Cic., ad Fam., III, 8, XV, 4; ad Att., V, 21, VI, 2; cfr. Brandis nell'articolo Asia, in Pauly-Wissowa, Real Encycl. II, col. 1543 segg.). Certamente sorprende il fatto che nell'enumerazione che Plinio fa delle località dei diversi distretti appaiano nomi di popolazioni quanto mai oscure, mentre son taciuti quelli di località assai più note; e ciò apre l'adito al sospetto che la lista di Plinio non sia completa, e rende difficile tracciare i limiti delle nove circoscrizioni, come è stato tentato da Otto Cuntz (Agrippa und Augustus, in Fleckeisen's Jahrbücher, XVII, 1890, p. 406 segg.); il Ramsay (Historical Geography of Asia Minor, p. 118-120) si è contentato di aggiungere nomi di altre località a quelle citate da Plinio. Per la lista dei distretti tra il 56 e il 50 a. C. pare si possegga un notevole documento epigrafico nell'ordinanza di un governatore romano pubblicata in Milet, Ergebn. der Ausgr., I, 2, 1908, p. 101, n. 3, cfr. Inschriften von Priene, n. 106.
I distretti indicati da Plinio appaiono notevolmente vasti e quindi non fa meraviglia se col procedere del tempo si formarono nuovi conventus e assursero a dignità di capoluoghi altre città (come per Tiatira a tempo di Caracalla è dimostrato dall'iscrizione pubblicata in Bull. de Corr. Hell., X, 1886, 417; Dittenberger, Or. gr. inscr., 517), tanto più che tale dignità era ambita (Dione di Prusia, Orat., XXXV, 17; II, p. 70 b) e insieme fonte di lucro per l'affluenza procurata dalle assise.
Naturalmente il governatore poteva delegare l'esercizio della giurisdizione, eccettuato lo ius gladii (Mommsen, Röm. Strafrecht, p. 246 segg.), al questore o ai legati (Fränkel, Inschr. von Pergamo, n. 410; Cic., pro Flacco, 21, 49; Arist., I, 527 Dind.).
Amministrazione finanziaria. - Sul primo momento, nel quale vennero in possesso dei dominî Attalici, i Romani risparmiarono ai sudditi, almeno a quelli delle città greche (v. Cardinali, Il regno di Pergamo, p. 295) l'imposizione del tributo, sgravandoli così di quanto avevano dovuto pagare ai precedenti sovrani (App. Bell. civ., V, 4; per le imposte del regno di Pergamo, v. Cardinali, op. cit., p. 175 segg.), ma qualche anno dopo C. Gracco introdusse nell'Asia la tassa fondiaria in ragione della decima (Cic., Verr., II, 3, 12: inter Siciliam ceterasque provincias hoc interest quod ceteris aut impositum vectigal est certum, quod stipendiarium dicitur, ut Hispanis et plerisque Poenorum, aut censoria locatio constituta est, ut Asiae lege Sempronia), e altre tasse quali diritti di pascoli e dogane, e dispose che l'esazione di queste tasse fosse data in appalto per mezzo dei censori (Front., ad Ver., II, p. 125, Naber: iam Gracchus locabat Asiam; cfr. il senatoconsulto de Asclepiade in Corp. Inscr. Lat., I 2ª ed., n. 588). Per tal guisa la decima asiatica si veniva a distinguere da quella siciliana, della quale l'appalto avveniva in Siracusa per mezzo del questore, e mentre in questo secondo caso era agevole agli stessi sudditi concorrere all'appalto, nella locatio censoria il campo restava abbandonato soltanto a speculatori d'alto rango, dirigenti di grandi imprese finanziarie e industriali, in una parola a quelle società di pubblicani che si andarono costituendo in Roma, a iniziativa dell'ordine equestre. C. Gracco proseguiva per tal guisa il suo disegno di abbassamento del potere del senato a vantaggio di quello dei cavalieri (v. P. Fraccaro, Ricerche su C. Gracco, in Athenaeum, n. s., III, 1925, p. 76 segg. e 166 segg.; G. Corradi, C. Gracco e le sue leggi, in Studi di Filologia classica, n. s., V, 1927, p. 280 segg.).
Questo sistema di riscossione aprì l'adito ad abusi di tutti generi, perché nella valutazione stessa della decima eran possibili soperchierie d'ogni risma, e gli appaltatori, calcolando di riscuotere la pura decima negli anni cattivi, e molto di più negli anni abbondanti, si sopraffacevano nella gara degli appalti, arrivando a somme spesso superiori alle possibilità del reddito (Cic., ad Attic., I, 17, 9. Asiani, qui de censoribus conduxerant, questi sunt in senatu se, cupiditate prolapsos, nimium magno conduxisse; ut induceretur locatio postulaverunt, e Cicerone soggiunge: invidiosa res, turpis protestatio).
Le società dei pubblicani, complici molto spesso i governatori, che a loro volta non solo imponevano alla provincia spese d'ogni genere per requisizioni (v. sopra), casermaggio di truppe (cfr. Caes., Bell. civ., III, 31), mantenimento proprio e del seguito in caso di viaggi (Cic., ad Att., V, 21, 7), ma inoltre si abbandonavano anch'essi ad abusi e sopraffazioni, finirono con lo spossare la provincia, nonostante la sua grande feracità (Cic., de imp. Cn. Pomp., 6, 14: Asia vero tam opima est ac fertilis, ut et ubertate agrorum, et varietate fructuum et magnitudine pastionis et multitudine earum rerum, quae exportantur, facile omnibus terris antecellat).
Dopo un incerto e, comunque, transitorio tentativo di Silla (App., Mithr., 62; cfr. Chapot, op. cit., p. 238; Vaglieri, op. cit., 726), Cesare per primo nel 58 a. C. modificò e sollevò stabilmente la condizione dell'Asia, sopprimendo l'appalto della decima e surrogando alla variabile prestazione in natura un vero e proprio stipendium, una somma fissa cioè, in denaro, d'un terzo più bassa di quella pagata prima, sotto altra forma, ai pubblicani (App., Bell. civ., V, 4; Plut.,Caes., 48, 1; cfr. Cass. Dio., XLII, 6, 3; Cassiod., II, epist., 39; si noti che il sistema del tributo fisso era già stato in vigore sotto gli Attalidi, cfr. per ciò Cardinali, op. cit., p. 175 segg.). Questa somma fu certamente determinata secondo la media del reddito precedente, e, ripartita fra le diverse città, l'esazione ne era procurata direttamente da esse sui proprietarî o sui detentori delle terre (παρὰ τῶν γεωργούντων è detto nel testo di Appiano).
Il Brandis (op. cit., col. 1547) ha creduto di poter fissare la somma dello stipendio annuo in quella cifra di 16.000 talenti, che il proconsole Sesto Appuleio consegnò a Bruto, secondo la testimonianza di App., Bell. civ., IV, 75, che chiama quei 16.000 talenti χρήματα ὄσα ἐκ τῶν ϕόρων τῆς 'Ασίας συνείλεκτο, cioè "tutto il ricavato dei tributi dell'Asia", e ha trovato di ciò conferma nel fatto che Plutarco nel cap. 24 della vita di Antonio fissa in 200.000 talenti il totale delle somme imposte da quel triumviro alla provincia d'Asia, perché questo totale, secondo App., Bell. civ., V, 5, 6 confrontato con V, 4, dovrebbe corrispondere al reddito di nove annualità del tributo più quello delle contribuzioni imposte "ai re, ai dinasti e alle città libere", ed effettivamente, valutando a 16.000 talenti il tributo annuo, le nove annualità ammonterebbero a 144.000 talenti, e il resto si potrebbe attribuire alle contribuzioni dei re, dinasti e città libere.
Ma questo ragionamento è artificioso, perché nel luogo di Plutarco non vi è nessun sicuro addentellato con i passi di Appiano V, 4 e 5, e d'altronde la cifra di 16.000 talenti appare esageratamente alta in confronto con le cifre che si possono stabilire per il reddito complessivo delle entrate generali del regno seleucidico e del regno tolemaico. Né più sicuri indizî per la valutazione del tributo provinciale asiatico possono desumersi da altre notizie che si riferiscono o al tempo di Silla (App., Mithr., 62; Plut., Sulla, 25) o a quello di Erode Attico (Philostr., Vitae sophist., II, 3; cfr., per tutto ciò, Cardinali, op. cit., p. 193 segg.).
Oltre alla decima non vi furono in Asia, nel periodo repubblicano, altre imposte dirette, e ciò risulta da Cicerone, che (de imp. Cn. Pomp., 14 e 15) pone vicino alle decumae, trasformate da Cesare appunto in tributo fisso, soltanto i portoria e la scriptura. Bene ha notato il Brandis (op. cit., col. 1549) che l'exactio capitum atque ostiorum, di cui è parola in Cicerone per l'anno 51 a. C. (ad Fam., III, 8, 5; ad Att., V, 16), oltre a riferirsi a quella parte della Frigia, che era allora separata dall'Asia e annessa alla Cilicia, costituisce un'imposta del tutto straordinaria come quella pretesa da Q. Cecilio Metello Scipione dopo la battaglia di Farsalo (Caes., Bell civ., III, 32).
Durante l'impero si perfezionò sempre più il sistema di prelevazione della tassa fondiaria, con la tendenza a una sempre più equa imposizione dell'onere tributario in rapporto alla misura, alla qualità e alla fertilità del terreno. Lavori catastali furono compiuti in tutte le provincie, in parte già sotto il regno di Augusto, in parte dopo, ed è certo che nel sec. II anche il terreno della provincia d'Asia era già stato sottoposto a misurazione ed il vectigal era distribuito ad modum ubertatis per singula iugera (Hygin., in Schriften der römischen Feldmesser, ed. Lachmann, I, p. 105). Ci sono conservate iscrizioni di Tralle (Bull. de Corr. Hell., IV, 1880, p. 336), di Astipalea (Inscr. gr., XII, 3, 180-182), di Tera (Inscr. gr. ad res rom. pert., XII, 3, 343-9), di Mitilene (Inscr. gr., XIII, 2, 76-80), di Magnesia al Meandro (Kern, Inschriften von Magnesia, 122), di Milasa (Bulletin de Correspondance Hellénique, XLVI, 1922, p. 404) che serbano tracce dei catasti del paese, con la registrazione del nome del proprietario e del terreno, con le misure delle vigne, dei campi seminati, degli oliveti e dei pascoli e col numero relativo delle greggi e degli schiavi. Per opera di Diocleziano l'imposta fondiaria ebbe una nuova sistemazione, che nelle provincie orientali dell'impero prese a base lo iugum, unità fiscale che comprendeva determinate misure di terreni, diverse a seconda della loro qualità e del loro rendimento (v. Bruns-Sachau, Syrisch-römisches Rechtsbuch, par. 121, e p. 287; Marquardt, op. cit., 224 segg.; cfr. il rescritto di Valentiniano, Valente e Graziano dell'anno 37 d. C., e Bruns, Fontes, p. 270, n. 97 a).
Non è escluso che, durante il periodo imperiale, diversamente da quello repubblicano, oltre alla tassa fondiaria gravassero sulla provincia d'Asia altre imposte dirette; è anzi probabile che la ricchezza mobile qui come altrove fosse colpita e che il suo reddito venisse a confluire nello stipendium (v. Marquardt, op. cit., II, p. 234 segg.), ma di ciò mancano prove, come mancano prove di una capitatio uguale per tutti i cittadini (l'iscrizione di Lampsaco pubblicata in Bull. de Corr. Hell., XVII, 1893, p. 553, n. 56, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 181 è di data incerta e di incerta interpretazione, e l'ἐπικέϕαλον dell'iscrizione di Teno, Corp. Inscr. gr., 2336, Inscr. gr., XII, 5, 946 va tenuto presente per la provincia Acaia-Macedonia ma non per quella d'Asia: v. sopra).
Con la riforma di Cesare la riscossione delle imposte per il pagamento dello stipendium fu affidata, come abbiamo veduto, alle città stesse, e in queste fu organizzato, al fine di raccoglierle, un collegio di dieci cittadini (δεκάπρωτοι), che erano responsabili del pagamento della somma globale gravante sulla loro città, e dovevano colmare di propria tasca l'eventuale deficit (v. Chapot, op. cit., p. 272 segg.).
Le singole città dovevano poi fare i versamenti al governatore (App., Bell. civ., IV, 75) o direttamente o attraverso organi intermedî, se vi furono raggruppamenti di più citta in circoscrizioni amministrative. Credono infatti alcuni che le 44 regioni nelle quali Silla, secondo una notizia della cronaca di Cassiodoro, avrebbe distribuito l'Asia nell'anno 84 a. C. abbiano ad intendersi come raggruppamenti di più città in distretti finanziarî ai fini della riscossione delle imposte (Vaglieri, p. 727 e Chapot, op. cit., p. 89 segg., e questo modo di vedere potrebbe trovare conferma nelle iscrizioni, Milet, Ergebn. der Ausgr., I, 2, 1908, p. 101, n. 3 e Denkschriften der Wiener Akademie, 1911, p. 22, n. 39), mentre secondo altri il numero 44 dovrebbe correggersi in 144, in confronto con Tolomeo, V, 2, e le regioni sillane si dovrebbero far coincidere con circoscrizioni di singole città, comprendenti suburbio e territorio di ciascuna, in confronto con Cic., in Verr., II, 1, 89, pro Flacco, 32, con le iscrizioni di Afrodisia, Dittenberger, Or. gr. inscr., 453-455, Bruns, Fontes, p. 185, n. 43, e col senatoconsulto di Stratonicea, Dittenberger, op. cit., n. 441.
Nell'amministrazione finanziaria della provincia il governatore era coadiuvato dal questore, che era il capo specifico di questo ramo amministrativo nelle provincie senatorie, ma ben presto nella provincia d'Asia, come nelle altre pur di pertinenza senatoria, fanno la loro apparizione procuratori imperiali, non soltanto quelli addetti alle imposte indirette (v. sotto), o preposti ai demanî imperiali, ma anche alcuni con competenza più generale, rivolta soprattutto al prelevamento dello stipendio. In verità non è molto chiaro il rapporto tra le attribuzioni del questore e quelle dei procuratori imperiali, ma la presenza dei procuratori è sufficientemente spiegata dal fatto che l'imperatore dovette avere un certo diritto di disposizione sulle entrate dello stipendium (v. Marquardt, op. cit., I, p. 555, II, p. 307) e al fisco dovette spettare una parte di esso (cfr. Chapot, op. cit., p. 333 segg.). Al principio dell'impero non vi fu che un procurator Augusti provinciae Asiae (v. Ioseph. Fl., Ant. Iud., XVI, 26. Per il materiale epigrafico cfr. Vaglieri, op. cit., p. 724 segg. e Chapot, op. cit., che abbisognano, anche qui, di aggiornamento). Ma poi già con i Flavî appare un procurator provinciae Hellesponti (Corp. Inscr. Lat., V, 875), e più tardi, verso la metà del sec. II o il principio del III, un procurator Phrygiae (Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 702; Corp. Inscr. Lat., III, 348), e da ciò si deve indurre che la provincia d'Asia, per agevolare la riscossione delle imposte e tutti gli affari inerenti, fu divisa prima in due e poi in tre grandi distretti finanziarî (Brandis, op. cit., col. 1549 e Chapot, op. cit.).
Sulla provincia d'Asia gravarono, sin dal tempo della sua istituzione (v. sopra), le imposte indirette della scriptura o diritto di pascolo, e delle dogane (portoria; per questa tassa nel periodo attalico v. Cardinali, op. cit., p. 179), alla cui esazione, anche dopo la riforma di Cesare, si continuò a provvedere per mezzo di appalto ai pubblicani (Cic., de imp. Cn. Pomp., 6, 15; cfr. de lege agr., II, 29, 80). Il diritto doganale fu durante l'impero del 2½% del valore della merce (quadragesima, Svet., Vesp., 1; cfr. l'iscrizione di Efeso, Forschungen in Ephesos, III, 1923, p. 131, n. 45 e quella di Mileto, Corp. Inscr. Lat., III, 447) e veniva riscosso in diversi porti (l'iscrizione or ora citata indica Mileto come uno di questi porti, l'iscrizione di Syme nella Perea rodia, Bull. de Corr. Hell., X, 1886, p. 267 segnala Iaso, l'iscrizione Corp. Inscr. Lat., III, 7151, Passala, porto di Milasa, e l'iscrizione Athen. Mitteil., IV, 307, Dittenberger, Or. gr. inscr., 521, contiene una tariffa doganale del sec. V o del VI per lo sbarco in Abido). L'esazione da parte dei pubblicani fu, nell'Impero, prima controllata da procuratori imperiali e poi si ridusse nelle mani di questi; il suocero di Gordiano III fu procurator XXXX provinciae Asiae (Corp. Inscr. Lat., XII, 1807) e nella tariffa di Abido, testé citata, l'esazione della detta imposta spetta al comandante dello stretto, ἔπαρχος o κόμης τῶν Στενῶν.
Altra imposta indiretta di cui è sicura l'esistenza nell'Asia è la vicesima libertatis (v. l'iscrizione di Tiatira, Corp. Inscr. Gr., 3487, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1236, con le relative osservazioni del Brandis, op. cit., col. 1550; e quelle di Efeso, Forschungen in Ephesos, III, 1923, p. 131, n. 45, 138 n. 52, 140, n. 54) e prove si hanno dell'esazione della vicesima hereditatum o da parte dei procuratori ordinarî (Corp. Inscr. Lat., III, 431, cfr. 7116 add., 14.199, 5; 14.195, 37) o da parte di procuratori appositi per intere circoscrizioni, delle quali l'Asia non è che una parte (Corp. Inscr. Lat., VI, 1633; X, 7583, 7584 add.; cfr. Forsch. in Ephesos, III, p. 131, n. 45), ma questa imposta, come è noto, colpiva soltanto i cittadini romani.
Il reddito di queste imposte andava al fisco, la cui ingerenza andò sempre aumentando nell'Asia come anche nelle altre provincie senatorie, di guisa che i suoi funzionarî si andarono moltiplicando (tali il βοηϑὸς ἐπιτρόπων ῥηγεῶνος Φιλαδελϕενῆς dell'iscrizione. Corp. Inscr. gr., 3436; Dittenberger, Or. gr. Inscr., 256; Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1651, l'exactor rei publicae Nacolensium dell'iscrizione Corp. Inscr. Lat., III, 349, che vanno considerati come funzionarî imperiali controllanti nelle singole città l'opera dei δεκάπρωτποι; e i numerosi addetti al fiscus Asiaticus: procuratores, adiutores, tabularii, adiutores tabulariorum, a commentariis; v. Vaglieri, op. cit., p. 726; cfr. Ephesos, III, p. 139, n. 54).
Monetazione. - I re di Pergamo avevano già dato impulso vigoroso alla circolazione di quelle monete d'argento che furono chiamate cistofori dalla cista mistica in esse rappresentata, e che, create forse in Efeso durante la dominazione egizia, si erano diffuse in parecchie città dell'Asia Minore, quando ancora erano seleucidiche (cfr. G. Cardinali, op. cit., p. 241, n. 1). Con la costituzione della provincia continuò l'emissione di questi pezzi, con nomi e monogrammi di magistrati monetarî, con date calcolate appunto dall'era della fondazione della provincia, e, a partire dalla metà del sec. I a. C., con i nomi dei proconsoli. La cista fu sostituita con la testa di Antonio, poi con quella di Augusto (insieme con la figurazione della pace e con la leggenda: Asia recepta).
I cistofori attalici avevano un peso medio che li faceva corrispondere a 3 dramme attiche e a 4 leggiere di Rodi; i Romani ne equipararono il valore a tre denari, ma vollero che la loro lega avesse un valore intrinseco un po' maggiore, a vantaggio della moneta nazionale. Accanto ai cistofori, che vanno considerati come moneta provinciale, circolarono in Asia le monete municipali, che furono quasi esclusivamente di bronzo, poiché i Romani, mentre vietarono o limitarono rigorosamente la monetazione d'argento, in quella di bronzo si mostrarono in genere liberali, consentendola anche a città non libere ed autonome, con privilegi però revocabili. Tuttavia il conio ne fu abbondante e continuo soltanto in un piccolo numero di città maggiori, e i Romani esigettero sempre buona qualità delle leghe, controllando le produzioni locali e mettendole in difficili condizioni con una concorrenza non sempre leale delle loro monete nazionali in continuo deprezzamento (v. l'iscrizione di Milasa pubblicata in Bull. de Corr. Hell., XX, 1896, p. 523 segg., col relativo commento molto importante di Th. Reinach; cfr. Chapot, op. cit., p. 348 segg.).
I demanî imperiali. - Nel territorio della provincia d'Asia numerosi erano i fondi di proprietà del fisco gestiti da agenti imperiali (saltus, fundi, τόποι, χωρία, κλῆροι). Si riferiscono ad essi non pochi testi epigrafici, alcuni dei quali hanno particolare importanza nello studio dell'organizzazione dei demanî imperiali e della condizione delle persone adibite al loro sfruttamento. Alcuni di questi demanî erano stati certamente ereditati dagli Attalidi (Cardinali, op. cit., p. 179 segg., specialmente 184) e molti dei tratti della loro organizzazione risalgono all'epoca ellenistica (G. De Sanctis, presso Haussoullier, Revue de Philologie, 1902, p. 235; cfr. Milet et le Didymeion, p. 106, n. 2; Rostowzew, Der Ursprung des Kolonats, in Klio, I, 295), ma i Romani agli schemi di quell'epoca impressero nuove direttive e li fecero, a poco a poco, confluire e sboccare nell'istituto del colonato.
Il centro principale di questi demanî nell'Asia fu la Frigia, dove all'estremità S. troviamo i praedia dei dintorni di Cibira, seguono poi quelli a S. del lago di Ascanio e nella vallata del Lysis, alcuni dei quali, in realtà, appartengono alla Pisidia, ma in qualche caso furono raggruppati con quelli della Frigia in un'amministrazione comune. Qualche demanio troviamo anche a N. del lago di Ascanio, e, proseguendo verso NE. ci imbattiamo nei demanî a S. di Philomelium, verso NO. prima in quelli tra Prymnessos e Docimium, poi negli altri della vallata del Tembrogio, affluente del Sangario (v. Ramsay, History geogr., p. 172, seg.; id.. Cities, p. 280 segg. e passim; Sterrett, in Papers of the American School at Athens, II, 38 segg.; Schulten, in Athen. Mitteilungen 1898, p. 222; Crönert, in Hermes, XXXVII, 1902; Hirschfeld, in Klio, II, 1902, p. 299 segg.; Chapot, op. cit., 373 segg.).
Demanî esistevano certamente anche nella Lidia (v. le iscrizioni di Tiatira, Corp. Inscr. Gr., 3484 e 3497; Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1204 e 1213; cfr. Hirschfeld, in Klio, II, 303, donde discende che è assai dubbia l'esistenza di quell'arca Liviana, che congetturò il Böckh in Corp. Inscr. Gr., seguito dal Cavedoni, Bullettino dell'Istituto Germamico di Corrispondenza archeologica, 1849, p. 127 e ancora dallo Chapot, op. ch., p. 374)
A capo del demanio stava sempre un procurator (ἐπιτροπος), assistito da tre πραγματευταὶ, negotiatores o actores, schiavi dell'imperatore. Le terre erano coltivate dalla massa dei coloni (coloni, γεωργοί), che erano legati alla gleba, ed erano concesse in appalto a conductores, μισϑωταὶ, i quali potevano essere tanto gente del paese quanto cittadini romani. Agli appalti presiedeva il procuratore, che, come rappresentante dell'imperatore, aveva poteri assai estesi così sugli appaltatori come sui coloni, giudicava senza appello le questioni insorgenti tra loro e sorvegliava il mantenimento dell'ordine per mezzo di un corpo di παραϕυλακῖται. La comunità dei coloni costituiva una κώμη, a capo della quale, organizzata municipalmente, stavano i comarchi, chiamati poi προάγοντες (v. oltre agli autori già citati, Schulten, Die römischen Grundherrschaften, Weimar 1896; Beaudouin, Les grands domaines dans l'Empire romain, 1899, p. 8, e soprattutto Rostowzew, Studien zur Gesch. des röm. Kolonates, Lipsia e Berlino 1910, pp. 240 segg., 360 segg.).
Tra i demanî imperiali un posto speciale spetta alle cave di marmo della Frigia meridionale (Strab., IX, 437; XII, 577), quelle cioè di Thiounta presso Ierapoli, e quelle di Sinnada, più propriamente Docimium, alla cui testa era un procurator marmorum, e presso le quali era occupato un numeroso personale di schiavi e di liberti (Corp. Inscr. Lat., III, 348; Mitt. Ath. Inst., VIII, 1883, p. 335. Cfr. Ramsay, Inscriptions inédites de marbres phrygiens, in Mélanges de l'École française de Rome, II, 1882, p. 290 segg.; id., Cities, I, p. 125; Bull. de Corr. Hell., VII, 1888, p. 305; P. Monceaux, in Bulletin de la Société des Antiquaires de France, 1900, p. 323; C. Dubois, Étude sur l'administration et l'exploitation des carrières dans le monde romain, Parigi 1908, p. 79 segg.).
Città libere e città suddite. - La competenza del governatore doveva esercitarsi nella sua pienezza per quanto si riferiva alle città suddite (civitates stipendiariae), mentre in origine erano estranee ad essa le civitates immunes et liberae. La immunitas e la libertas possono, come è noto, trarre origine da un foedus, nel qual caso si ha la categoria delle civitates foederatae, come possono trarre origine da un atto unilaterale dei Romani, legge o senatoconsulto, nel qual caso si ha la categoria delle civitates sine foedere immunes et liberae. Fu sostenuto che in Asia, come in genere nell'Oriente, dal tempo della costituzione della provincia, civitates foederatae vere e proprie non ne esistessero, e alle stipendiariae si contrapponessero soltanto le civitates sine foedere immunes et liberae (cfr. Chapot, op. cit., p. 104 segg.), ma la importante iscrizione (Dittenberger, Sylloge inscriptionum graecarum, 3ª ed., 693), sopra citata, proveniente da un'antica città non nominata nel testo, ma identificabile con Pitane o con Elea o con Pergamo stessa, dimostra come, subito dopo la rivolta di Aristonico, la detta città fu accolta nell'amicizia e nell'alleanza dei Romani con un senatoconsulto e con un trattato del quale una copia, incisa in tavola di bronzo, fu esposta in Roma nel tempio di Giove Capitolino, e altre copie furono esposte nella città di cui è parola. Questa iscrizione dimostra dunque che, sino dai primi tempi della costituzione della provincia, si ebbero nell'Asia civitates foederatae, e non c'è bisogno di pensare che gli altri foedera, dei quali pure si ha documento epigrafico, quello cioè di Metimna (pubblicato dal Cichorius, in Rheinisches Museum, XLIV, 1889, p. 440, Inscr. gr., XII, 2, 510, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 2; Dittenberger, Syll. inscr. gr., 3ª ed., 693), di data imprecisata, ma probabilmente pertinente anch'esso al tempo immediatamente successivo alla rivolta di Aristonico, e quello di Astipalea (Inscr. gr., XII, 3, 173, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1028), risalente all'anno 105 a. C., appartengano ad un tempo, nel quale le città cui si riferiscono non fossero ancora entrate a far parte della provincia d'Asia.
Resta però vero ad ogni modo che pochi furono i foedera veri e proprî che i Romani conclusero con qualche città greca della provincia. Preferirono, generalmente, che la libertà, da loro eventualmente concessa, conservasse la fisionomia di un dono grazioso, consacrato semplicemente con legge o senatoconsulto. Con questa forma appunto avevano anzi pensato probabilmente in un primo momento di riconoscere la libertà di tutte le città greche del regno di Pergamo (v. sopra), ma poi, per le vicende della guerra di Aristonico o per altre ragioni, la sottrassero a molte già nel corso del sec. II a. C. E quando, nel progresso del tempo, credettero di doverla, in qualche caso, reintegrare, lo fecero con la stessa forma di sovrana elargizione, ponendo cioè le città beneficiate nella condizione di civitates sine foedere liberae et immunes.
Dopo la guerra Mitridatica, Silla riconobbe la libertà a Rodi, Ilio, Chio, Magnesia, Stratonicea, mentre la tolse, per aver parteggiato per Mitridate, a Mitilene, che la riebbe poi da Pompeo, e a Mileto (v. il senatoconsulto de Asclepiade, Inscr. gr. XIV, 951; Bruns, Fontes, 7ª ed., p. 176, n. 41; Corp. Inscr. Lat., I, 2a ed., n. 588, dell'anno 78 a. C.; prima di quell'anno è certo invece che Mileto aveva conservato la libertà, v. A. Rehm, Milet, I, 7, p. 295). In tempo imprecisato la ebbe Apollonide nella Misia (Cic., pro Flacco, 70). Da Cesare la ebbero Cnido, Afrodisia, Plarasa; da Augusto Samo, laddove Augusto stesso prima la tolse e poi la ridiede a Cizico (le prove presso Brandis, l. c.). Plinio ci dà la lista delle città libere all'epoca di Augusto: Cauno, Cnido, Termera, Milasa, Alabanda, Stratonicea, Afrodisia, Ilio, Rodi, Samo, Chio (V, 103 segg.), Mitilene, Astipalea (IV, 71), ma non sappiamo se la lista sia completa, e deve tenersi presente che con la massima facilità i Romani revocavano il privilegio della libertà, onde il numero delle città libere si andò sempre più assottigliando. Nel periodo imperiale sappiamo di città che perdettero la libertà (Cizico definitivamente nel 25 d. C., Rodi e Samo al tempo di Vespasiano, Svet., Vesp., 8), di qualcuna che la ricuperò (l'iscrizione pubblicata in Bull. de Corr. Hell., XLIV, 1920, p. 73 mostra che Stratonicea ricuperò sotto Nerva la libertà che aveva perduta forse sotto Vespasiano, e l'iscrizione pubblicata in Dittenberger, Syll. inscr. gr., 3ª ed., 832 dimostra che Astipalea riebbe da Traiano la libertà, che anch' essa aveva perduta), ma non sappiamo di nuove concessioni.
Il concetto di libertas comprende nella sua pienezza: autonomia, giurisdizione propria, immunità (esenzione, cioè, dai tributi da pagare a Roma), dispensa dall'obbligo di alloggiare guarnigioni romane, lo ius exilii (diritto di ospitare gli esiliati) e diritto di batter moneta, nei limiti consentiti da Roma. Ma col procedere del tempo questi privilegi si andarono riducendo e le differenze effettive tra città libere e città suddite si andarono assottigliando sino a scomparire. Basti qui dire che il contrassegno più importante della libertà fu in origine il privilegio dell'immunità mentre invece, sino dal principio dell'Impero, vediamo sottoposte a tributo città che hanno la qualifica di liberae (v., per Chio, Ios. Fl., Ant. iud., XVI, 2, 3, 2; per Magnesia al Sipilo e per Apollonide, Tac., Ann., II, 49; per Astipalea l'iscrizione Inscr. gr., XII, 3, 176) e, all'incontro, constatiamo casi nei quali venne conferita non la libertà, ma l'immunità (v., per Coo, Tac., Ann., XII, 61; per Smirna, Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 1431; per Sardi, ibid., 1528); soltanto per Ilio possiamo constatare la coesistenza, sino a tempo tardo, della libertà con la immunità (Tac., Ann., XII, 58 e Callistrat., de cognitionibus, Dig., XXVII, 1, 17, 1).
Quanto poi alla giurisdizione, noi vediamo che, se teoricamente le città libere avevano diritto all'indipendenza piena della giurisdizione civile e penale, fino al punto che ad essa dovevano essere soggetti gli stessi cittadini romani, di fatto si verificò una continua invadenza del potere giudiziario imperiale nelle cause delle città libere, e da parte di queste una continua abdicazione dei loro privilegi giurisdizionali (cfr. l'iscrizione di Chio, Inscr. gr. ad res romn. pert., 4, 943, quella di Cnido, ivi, n. 1031, quelle di Tiatira, ivi, 1211, quella di Coo, ivi 1044); mentre poi una qualche giurisdizione fu sempre tollerata nelle città suddite (v. il senatoconsulto de Asclepiade già citato, cfr. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht, p. 92), così nel campo penale, specialmente per contravvenzioni ai regolamenti di polizia o simili (cfr. Chapot, op. cit., p. 351), come nel campo civile per cause di scarsa importanza.
Così appunto si verificò il livellamento progressivo delle città libere a quelle suddite, e questo processo fu condotto a compimento con la creazione della correctura, il cui ufficio ebbe specificamente lo scopo di riformare la costituzione delle città privilegiate per conformarla a quella delle città suddite.
Alcune città della provincia ebbero il titolo di colonie, cioè: Pario (colonia Iulia Parium, Le Bas-Waddington, Inscr. d'Asie Min., 1731, 1747; cfr. Corp. Inscr. Lat., III, 374 segg.; Dig., L, 15, 8, 9); Alessandria Troade (colonia Augusta, Eckel, Doctrina nummorum, II, 479, Corp. Inscr. Lat., III, 380; cfr. Dig., l. c.).
Ordinamenti municipali. - Gli organi dell'amministrazione municipale sono così nelle città libere, come nelle suddite, l'assemblea (ἐκκλησία), il senato (βουλή), i magistrati (ἄρχοντες). La tendenza generale dei Romani di fronte agli ordinamenti municipali delle città greche, specialmente le suddite, fu quella di assicurare la prevalenza dell'elemento timocratico (cfr. le parole di Cicerone al fratello Quinto allora proconsole d'Asia: provideri abs te ut civitates optimatium consiliis administrentur; un'interessante probabile traccia epigrafica del sollecito intervento dei Romani a favore della tendenza oligarchica forniscono forse i πεντήκοντα ἄρχοντες dell'iscrizione di Mileto, già citata, I, 7, 1924, p. 290 segg., lin. 39 del lato a, cfr. il commento del Rehm a p. 296 segg.; ma la statua della democrazia di cui è parola nell'iscrizione più volte citata, n. 694 della Syll. Inscr. gr., 3ª ed. del Dittenberger, potrebbe testimoniare dell'eclettismo politico romano; per quanto concerne i primi tempi dell'istituzione della provincia, vedi anche Dittenberger, Or. gr. inscr., 337). Fu ristretta la cittadinanza agli abbienti, tolta la presidenza dell'assemblea ai pritani, proedri e agli altri presidenti ad hoc, per affidarla invece ai magistrati, limitando a questi il diritto di proposta (Menadier, Qua condicione Ephesii usi sint ecc., p. 42 segg.; Marquardt, Röm. Staatsverw., I, p. 209 segg.). Inoltre i governatori potevano in qualunque momento intervenire per proibire la convocazione di un'assemblea di una città suddita, e i magistrati locali erano quanto mai gelosi che le assemblee fossero convocate secondo le norme, e timorosi di incappare nelle recriminazioni e nelle punizioni dei Romani (v. Acta Apostolorum, XIX, 40).
I senatori, il cui numero variò di luogo in luogo, continuarono a essere nominati per elezione dalle ϕυλαί (tribù), o per sorteggio, e la durata della loro carica rimase annuale: i nominati dovevano sottoporsi a una δοκιμασία (v. Anc. gr. inscr. Brit. Mus., 487). La gerusia, di cui si trova traccia in moltissime città, non deve essere considerata come un corpo politico in qualche rapporto con la bulé, ma è piuttosto una corporazione del tipo stesso di quella dei νέοι.
I magistrati mantengono i loro antichi nomi: arconti, strateghi, ecc., e hanno i loro subalterni. Nell'entrare in carica debbono pagare una summa honoraria, costume che è da riportarsi all'influenza romana, che si fece sempre più sentire in quella direzione timocratica della quale abbiamo già parlato, col limitare cioè, in genere, ai più ricchi l'esercizio delle magistrature. E vollero inoltre i Romani sorvegliare in modo particolare l'amministrazione finanziaria delle città suddite delegandola a funzionarî speciali, di nomina imperiale, detti logisti, e la polizia, riservando al governatore la nomina del campo (eirenarca) su di una lista di 10 persone proposta dalla bulé della città (Brandis, op. cit., col. 1550 segg.).
Assemblea provinciale. - Con la costituzione della provincia i Romani lasciarono sussistere le antiche leghe di carattere religioso ed etnico che si erano formate nella regione, quali la lega delle città eoliche della Troade e dell'Ellesponto con centro in Ilio, che comprendeva nove città (essa sussisteva ancora all'epoca dei Flavî), quella delle città ioniche, la cui origine risaliva ai principî della colonizzazione greca, dedicata al culto di Poseidone, al quale si aggiunse poi quello di Alessandro (essa sussisteva ancora ai tempi di Settimio Severo, Philostr., Vita soph., II, 25, 7, e a quelli di Valeriano, Head, Greek Coins Brit. Mus., Ionia 45 add.), quella delle città della Caria, che aveva il suo centro nel santuario di Zeus Chrysaoreus presso Stratonicea (Strab., XIII, 611), la cui esistenza, al tempo dei Romani può dedursi così dal senatoconsulto di Stratonicea, come dal senatoconsulto di Tabae (Mommsen, in Hermes, XXVI, 145 e Brandis, l. c.). A queste leghe di carattere locale, con funzioni esclusivamente religiose, si aggiunse al tempo della dominazione romana una più vasta federazione comprendente tutte le città della provincia, il κοινόν τῆς 'Ασίας (commune Asiae), analogo a quelli che, col procedere del tempo, si organizzarono nelle altre provincie (concilia). Nella provincia d'Asia è possibile seguire meglio che altrove il sorgere di questa istituzione. Sino dai primi tempi della costituzione della provincia vediamo in certe occasioni tutte le città della medesima prendere deliberazioni comuni in onore di questo o quel personaggio romano, vuoi il pontefice massimo, Q. Mucio Scevola (Cic. Verr., II, 21, 51; cfr. Pseudoascon. ad Cic., div. in Caec., 17, 57 e ad Verr., II, 10, 27 e le iscrizioni, Dittenberger, Or. gr. inscr., 437, 438, 439), vuoi il console L. Valerio Flacco (Cic., pro Flacco, 55), vuoi il fratello di Cicerone, Quinto (Cic., ad Quint. fratrem., I, 1, 26), e anche in onore di connazionali resisi benemeriti in affari di comune interesse (Journ. of Hell. St., XVII, 1897, p. 276; Dittenberger, Or. gr. inscr., 438, che è del 42 a. C. o già del principio del sec. I a. C., e Inscr. gr. ad res rom. pert., IV, 291), il che fa presupporre che queste deliberazioni fossero prese in riunioni comuni dei rappresentanti di tutte le città. Da principio si trattò di riunioni occasionali, mancanti di qualsiasi periodicità e di qualsiasi regolamentazione, ma la lettera del triumviro M. Antonio, conservata in un papiro e pubblicata dal Kenyon in Classical Review, VII, 1893, p. 476 e dal Brandis in Hermes, XXXIII, 1897, p. 509 segg., dimostra che nel 33-2 a. C. il κοινόν delle città greche dell'Asia esisteva già come organo di trasmissione; peraltro nulla sino a quell'epoca dimostra ancora che esso si riunisse a intervalli fissi, e avesse scopi ben determinati, ed è forse appunto per ciò che noi vediamo come, tra il 56 e il 50 a. C., quell'importante ordinanza di un pretore romano, alla quale abbiamo già accennato (pubblicata in Milet, Erg. der Ausgr., I, 2, 1908, p. 101, n. 3, cfr. Inschr. v. Priene, n. 106), venne comunicata ai capiluoghi dei conventus iuridici perché fosse diffusa in tutte le località delle rispettive circoscrizioni, e come nel 49 e nel 43 a. C. certi ordini romani di carattere generale per tutte le città della provincia furono notificati ai magistrati, senato e popolo di Efeso col mandato di trasmetterli agl'interessati (Ios. Fl., Ant. iud., XIV, 10 e 13; 16 e 19). Soltanto ad Augusto va attribuita l'organizzazione vera e definitiva del commune Asiae, con lo scopo principale di attendere al culto della dea Roma, che già prima aveva trovato accoglienza in certe città dell'Asia Minore, quali Smirna (Tac., Ann., IV, 56, già nell'anno 195 a. C.), Alabanda (Liv., XLIII, 6, 5, già nell'anno 170 a. C.), Mileto (subito dopo la guerra di Aristonico, v. sopra), e altre, e a quello dell'imperatore, che ora fu introdotto ufficialmente e accoppiato a quello di Roma, mercé l'erezione, prima in Pergamo poi in altre città, di un tempio consacrato alle due divinità e aperto alla devozione di tutte le città (v. l'iscrizione, Inscr. gr., XII, 2, 58 b). Il κοινόν da allora in poi si riunì annualmente e la prima cerimonia da esso adempiuta in queste riunioni annuali era precisamente una processione al tempio nel quale erano espressi i voti per l'imperatore e la casa imperiale, il senato e il popolo romano ed erano celebrati sacrifici solenni e libazioni (v. Giraud, Assemblées provinciales, 121). Ogni riunione era accompagnata da giuochi solenni, che si chiamavano κοινόν, κοινὰ 'Ασίασ. Ma il commune Asiae, oltre a questo carattere spiccatamente religioso, ebbe anche una sua importanza politica, in quanto che i rappresentanti delle diverse città discutevano non solo degli affari inerenti all'organizzazione e alle funzioni specifiche religiose della lega, ma anche di affari che esorbitavano da questa sfera e riguardavano interessi comuni delle città, e prendevano le deliberazioni relative. Li vediamo così occuparsi del calendario comune provinciale (v. Mommsen, in Wilamowitz, Mitt. Ath. Inst., XXIV, 1899, p. 275; Dittenberger, Or. gr. inscr., 458; cfr. Denkschr. der Wien. Ak., LIV, 1911, p. 81, n. 166), e adoprarsi per la remissione di tributi (Corp. Inscr. Gr., 3487), e la cosa più importante è che essi potevano esprimere con voti di lode o di biasimo il loro parere sull'amministrazione dei governatori, dei legati, del questore, dei procuratori uscenti di carica; ma in realtà è assai piccolo il numero dei lamenti che ci sono riferiti, e la lentezza della procedura e l'insofferenza del potere centrale li rendeva generalmente vani. Di fatto il fondo essenziale delle deliberazioni del κοινόν continuò a essere costituito da decreti onorifici, per questo o per quel cittadino particolarmente liberale o benefico, da promozioni ai grandi sacerdozî, da voti di omaggio ai dominatori, comunicati a Roma per mezzo di ambascerie, nelle quali i rappresentanti delle diverse città gareggiavano per superarsi nello splendore dell'equipaggio e nell'eloquenza, e il κοινόν fu soprattutto un comodo organo di trasmissione e di promulgazione (abbiamo già accennato alla lettera del triumviro Marco Antonio; si ricordino qui il rescritto de Christianis di Marco Aurelio e la deliberazione di Caracalla sull'arrivo del proconsole in Efeso, dei quali appunto fu data lettura nell'assemblea provinciale, Euseb., Hist. Eccl., IV, 13; Ulp., Dig., L, 16, 1, 4 e 5). Il suo carattere restò prevalentemente religioso, il che si esprime anche nel fatto che il presidente dell'assemblea fu l'ἀρχιερεὺς 'Ασίας (sulle questioni relative a questa carica, e ai suoi rapporti con l''Ασιάρχης, v. Chapot, op. cit., p. 468 segg.). Come luoghi di riunione vediamo indicati Efeso, Smirne, Pergamo, Sardi, Cizico, Laodicea, Filadelfia, e tali luoghi generalmente (non necessariamente) coincidevano con le sedi di templi provinciali.
Quando con Diocleziano la provincia proconsolare fu divisa in sette distretti amministrativi (v. sopra), l'antico κοινόν panasiatico scomparve, e non sappiamo se fu surrogato da diete distrettuali, poiché di ciò mancano indizî, e tale surrogazione sembra contraria al progrediente accentramento amministrativo del Basso Impero.
Con la dieta, col possesso di templi destinati al culto imperiale e con le feste comuni sono in relazione i titoli di μητρόπολις, νεωκόρος e πρώτη, dei quali vediamo fregiarsi alcune città della provincia, specialmente dal sec. II d. C. in poi (v. Vaglieri, op. cit., 733).
Le vie. - I segni esteriori e perpetui della dominazione dei Romani nell'Asia, come nelle altre provincie, sono i resti delle grandi opere pubbliche da loro condotte a compimento: edifici, ponti, porti, acquedotti, vie. L'esplorazione archeologica della regione non consente ancora di tracciare un quadro completo di tali opere pubbliche e d'altronde soltanto delle vie conviene qui far cenno. Le indicazioni dell'Itinerario di Antonino e della Tavola Peutingeriana, integrate con qualche notizia straboniana, con l'esame dei cippi miliari superstiti e con l'indagine moderna, permettono la restituzione di tutte le linee principali e di non poche di quelle secondarie della grande rete stradale, che durante l'era romana si sviluppò a vantaggio dei traffici e dei commerci.
Quel che i Romani trovarono in fatto di viabilità nella provincia d'Asia era poca cosa e si limitava alle regioni occidentali prossime al mare, se si prescinda dalla grande arteria, che da tempi assai remoti congiungeva Efeso a Susa (Herod., V, 52-54). Già Manio Aquilio rivolse le sue cure a rettificare e migliorare quest'arteria lungo la valle del Meandro, modificandone in qualche punto il tracciato e aggiungendovi nuovi tronchi. Né qui ristette l'attività del fondatore della provincia, ché egli intraprese anche una serie di vie di protezione della frontiera orientale dal Lico al Tembris, affluente del Sangario, ma dopo di lui le preoccupazioni militari ebbero la minima parte nello sviluppo della rete stradale di questa provincia, in quanto che essa rimase essenzialmente pacifica. Il secondo impulso vigoroso a questo sviluppo fu dato da Augusto, il terzo da Vespasiano, che, come è noto, si dedicò alla restaurazione generale delle vie dell'Impero. Anche Settimio Severo si occupò attivamente della rete, specialmente delle vie secondarie, irraggianti da Cibira, e della strada da Sardi a Smirna, che ebbe poi parecchie riparazioni dai tempi di Aureliano a quelli di Valentiniano e Valente. Dapprima pare che il fisco imperiale concorresse alle spese della costruzione, ma, col procedere del tempo, queste gravarono sempre più sulle città. Abbracciando in uno sguardo d'insieme la rete stradale della provincia d'Asia, si vede che la più importante delle arterie è quella che da Efeso seguiva le valli prima del Meandro per Magnesia e Tralle, poi del Lico per Laodicea, e, volgendosi quindi verso NE., si spingeva sino ai confini della Frigia, a Nacolea e Dorileo, con un tratto passando per Apamea, con un altro per Eumenia. Parallelamente a quest'arteria se ne svolgeva più a N. un'altra, che attraversava le valli dell'Hermus e del Tembris, partendo da Smirna per giungere, attraverso Sardi, ad Acmonia, e proseguire per Dorileo. A queste due linee principali con direzione generale prima O.-E. e poi SO.-NE. se ne intersecavano altre secondarie (Magnesia al Sipilo-Tiatira; Efeso-Sardi per Hypaepa; Sardi-Laodicea e Sardi-Tiatira; Filadelfia-Acmonia, che poi proseguiva per Dorileo; Apamea-Eumenia; Apamea-Cibira; Cibira-Laodicea del Lico; Apamea-Docimio; Kaballa-Polybotos). Un'altra arteria importante congiungeva le città della costa occidentale da Cizico a Efeso, Mileto, Mindo, Cnido e oltre, ed un'altra, movendo da Cizico, per Poimanenon e Pergamo si dirigeva a Smirne ed Efeso. Come si vede, tutte le vie eccentriche sboccavano nella valle del Meandro, e formavano attorno ad essa, secondo l'espressione dello Chapot (op. cit., p. 307), una specie di ventaglio con centro in Efeso capoluogo della provincia. Questo tracciato della rete appare dettato, oltreché dalla configurazione del paese e dalla situazione delle parti più ricche, dalla grande corrente commerciale che moveva verso Roma (vedi Ramsay, Historical Geography of Asia Minor e Cities and Bishoprics of Phrygia; Vaglieri, in Diz. epigr. di Ant. Rom., p. 733 segg.; Chapot, op. cit., p. 358 segg.).
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Per i materiali epigrafici latini, Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlino 1873, vol. III, parte 1ª, 1902, p. 1264 segg. Per quelli greci, che sono molto più copiosi e importanti, Corpus Inscriptionum Graecarum, I e III, Berlino 1843 e 1853; Le Bas-Waddington, Inscriptions d'Asie Mineure, Parigi 1870, e oltre le numerosissime iscrizioni, via via pubblicate nei periodici epigrafici, specialmente nel Bulletin de Correspondance hellénique, nelle Mittheilungen des deutschen archäologischen Institus (Athenische Abteilung), nel Journal of Hellenic Studies, nelle Archäologisch-epigraphische Mitteilungen aus Österreich-Ungarn e nella loro continuazione: Jahreshefte des Österreichischen archäologischen Instituts in Wien - le raccolte speciali di singole località: Collection of Ancient Greek Inscriptions in the British Museum, parti 2ª, 3ª e 4ª, Oxford 1883-1893; M. Fränkel, Die Inschriften von Pergamon, I e II, Berlino 1890 e 1895; O. Kern, Die Inschriften von Magnesia am Maeander, Berlino 1900; Hiller von Gärtringen, Inschriften von Priene, Berlino 1906; J. Keil e A. von Premerstein, Bericht über Reise in Lydien, I, II e III, in Denkschriften der Wiener Akademie, LIII, 1908, LIV, 1911, LVII, 1914; Forschungen in Ephesos, I, II e III, Vienna 1906, 1912, 1923; Milet, Ergebnisse der Augsgrabungen, 1906-1928. Utilissime le raccolte: W. DiIttenberger, Orientis graeci inscriptiones selectae, II, Lipsia 1905; id., Sylloge Inscriptionum Graecarum, 3ª ediz., II, Lipsia; Inscriptiones graecae ad res romanas pertinentes, IV, fascicoli 1-9, Parigi 1908-1927. V. anche le silloge di documenti municipali in greco e in latino, in Frank F. Abbott e Allan C. Johnson, Municipal administration, Princeton 1926, p. 249 segg.
L'età medievale. - Dal secolo III d. C. (quando si afferma la potenza dei Sassanidi) fino al XV (trionfo del sultanato ottomano), l'Asia Minore è il terreno sul quale si svolge, lunga e fortunosa, la lotta fra la civiltà ellenistica, le cui sorti ben presto si identificano con quelle del cristianesimo (e specificamente della "ortodossia" cristiana) e gl'irruenti imperialismi dell'Asia, successivamente sostenuti da Iranici, Arabi, Turchi. Al principio di questo periodo più che millenario, dominano ancora le "cinquecento città elleniche", vantate da Dione Crisostomo; il paese è cosparso di ville, solcato da strade romane e da acquedotti, sottoposto al pesante, sapiente, minuzioso reticolato di istituzioni civili, burocratiche, fiscali che, dopo Roma, Costantinopoli non ha cessato di completare e rimaneggiare. Alla fine, ci si presentano lo squallore, lo spopolamento, le terre brulle o poveramente coltivate, l'assenza di comunicazioni e di sicurezza, la neghittosità e gli arbitrî del dispotismo "patriarcale" che hanno durato fino ai giorni nostri. Ma fra le due epoche, vi è, dal sec. IX al XII, un lungo periodo di rifiorimento. Le vicende economiche e quelle della cultura (urbanesimo, vita religiosa, arte, memoria dell'antichità) si riassumono: a) nella fusione delle molte e diversissime genti che popolavano l'Asia Minore fin dall'antichità, in due vaste nazioni, la greca e l'armena, differenziate anche come chiese, ortodossa e gregoriana anticalcedonica; b) nella proficua collaborazione di questi due popoli, militanti sui posti avanzati della cristianità, soprattutto durante il sec. X; c) nell'improvvido tentativo di accelerare l'assimilazione politica e confessionale dell'Armenia all'ellenismo vero e proprio, mentre sull'una e sull'altro si rovesciava la nuova ondata asiatica (i Selgiuchidi, a metà del sec. XI); d) nel logoramento degli Armeni come dei Greci, in tre secoli di resistenza agl'invasori, mentre circostanze d'ordine più generale (devastazioni rovinose, dovute alle scorrerie di Tamerlano) recidevano alle radici l'economia urbana.
Dalla fine del sec. IV (Notitia Dignit. del 402) fino alla metà del VI, l'Asia Minore, territorio romano, si ripartiva in varie provincie. Alla diocesi Asiana appartenevano l'Ellesponto (capoluogo Cizico), l'Asia proconsolare (Efeso), le isole (Rodi), la Caria (Alicarnasso, Mylasa), la Lidia (Sardi), la Frigia pacatiana (Laodicea), la Frigia salutare (Synnada), la Licaonia (Iconio), la Pisidia (Antiochia Pis.), la Pamfilia (Aspendos), la Licia (Telmissa, Myra). Formavano la diocesi Pontica: la Bitinia (Nicomedia), la prov. Onoria (Claudiopoli), la Paflagonia (Gangra), l'Elenoponto (Amasia), il Ponto Polemoniaco (Trebisonda), la Galazia proconsolare (Ancira), la Galazia salutare (Pessinunte), la Cappadocia Prima (Cesarea), la Cappadocia Seconda (Tyana), l'Armenia Prima (Sebaste) e l'Armenia Seconda (Melitene). Facevano parte della diocesi d'Oriente: l'Isauria (Seleucia Trachea), la Cilicia Prima (Tarso), la Cilicia Seconda (Anazarba) e l'isola di Cipro (Pafo). Qualcuno ha supposto, per analogia con la Siria e l'Egitto, che vi sia stato in Asia Minore un risveglio di nazionalismi autoctoni, in reazione contro l'unità romana ed ellenistica durante il sec. III, cioè quando la grande crisi militare, economica, morale poneva in pericolo le fondamenta stesse dell'Impero. A tale accentuazione dei particolarismi etnici avrebbe anche contribuito la diffusione del cristianesimo che, per la predicazione, non disdegnava l'uso dei vernacoli popolari e che per giunta, in certe sue manifestazioni entusiastiche, come il montanismo, avrebbe risuscitato l'atavica mentalità dei coribanti frigi o l'ascetismo dei ktistai nella Misia (di cui Strab., VII). Ma se ancora San Gerolamo ha udito i contadini della Galazia parlare un dialetto celtico, non vi è traccia del minimo tentativo per contrastare il predominio assoluto dell'idioma greco nella vita civile o nella letteratura. Soltanto che, nell'ellenismo stesso, vi erano zone diverse, a seconda dell'epoca e dell'intensità con cui esso era penetrato. Se greco fino in fondo era il litorale dell'Egeo, le più agresti regioni della Pisidia, della Licaonia, della Cilicia facilmente potevano perdere la tenue vernice d'ellenismo, non appena i barbari confinanti, cioè i Semiti della Siria o i Persiani, avessero riconquistato la supremazia politica. Il che parve attuarsi quando Sapore sconfiggeva le legioni imperiali e Zenobia dominò ad Ancira ed a Tyana. Gli effetti di questa espansione siro-iranica hanno probabilmente determinato l'originalità dell'arte che, nel secolo successivo, distingue le regioni orientali dell'Asia Minore dalla Ionia.
Se non che rapida e completa si ebbe la restaurazione dell'autorità romana e quindi dell'egemonia ellenistica nel campo della cultura. Durante la prima metà del sec. IV, l'assoluta superiorità dalle armi romane assicurò decennî di pace alla pars Orientis. Nicomedia fu capitale e più tardi, nei frequenti spostamenti tra Costantinopoli e Antiochia, il "divino quartier generale" (τὸ ϑεῖον οτρατόπεδον, come Sinesio chiama comunemente la Corte) pesò con tutto il suo prestigio sulle popolazioni anatoliche. La conversione al cristianesimo dell'Armenia e dell'Iberia significò l'emancipazione di queste regioni dal predominio iranico e la loro adesione al mondo greco-romano: la Cappadocia diede alla Chiesa i dottori più illustri. L'ortodossia era consolidata a Cesarea (e su fondamenti spirituali di classica tradizione greca), quando Costantinopoli ancora non riusciva a decidersi fra turbolenti eresiarchi. Basta ricordare i nomi di Nicea, di Laodicea, di Efeso, per porre in evidenza il posto centrale che occupò l'Asia Minore nella cattolicità, durante l'epoca eroica, effervescente della sua costituzione. Un'opera importante (parallela alla più stretta connessione della Misia-Bitinia con la Tracia, nei riguardi dell'amministrazione civile) fu la graduale sottomissione delle diocesi d'Asia Minore al patriarcato di Costantinopoli, la quale ebbe pure significato di rinsaldata grecità. Come già all'epoca dei Tolomei, la Caria e la Ionia, in continui rapporti con l'Egitto, subivano l'ascendente d'Alessandria (il cui pontefice aveva allora quasi la preminenza nella Chiesa universale) e quindi d'una teologia e anche di gusti artistici sempre più avversi all'ellenismo. Giovanni Crisostomo e Nestorio seppero far prevalere la προεδρία di Bisanzio. Per una diversa e più violenta impresa di liberazione, l'Impero trovò le forze vive in Asia Minore; e proprio nella parte sua più refrattaria alle raffinatezze della civiltà. Le milizie di Goti e di Alani minacciavano di ridurre la "nuova Roma" allo scempio che dell'antica stavano facendo i Ricimeri e gli Odoacri. Ebbene, l'imperatore Leone trovò fra gli Isauri condottieri arditi: Tarasicodissa, Illo, che lo liberarono del capo alano Aspar (maggio 471) e con le loro coorti di montanari scacciarono le masnade di mercenarî nordici. Fu l'ora storica di questa gente d'Asia Minore. Uno dei suoi capi, Tarasicodissa, grecizzato in Zenone, rivestì la porpora; non pochi altri occuparono gli uffici più importanti nello stato. Conforme all'avventurosa e faziosa indole dell'"Isauria, nido di briganti e contrabbandieri", furono gli strascichi del rivolgimento, cioè la ribellione di Illo, la parodia di corte imperiale improvvisata attorno al fantoccio Leonzio, l'assedio di tre anni sostenuto nella rocca di Papyrion: "storia isaurica", che trovò narratori in uomini dello stesso paese (i tre libri, perduti, di Candido Isaurico sui regni di Leone I e di Zenone; la Storia Isaurica di Capitone Licio, e anche l'opera del filosofo egizio Pamprepio, tragicamente coinvolto nell'avventura di Illo). Al disopra di tali peripezie è importante il fatto che, per opera dell'imperatore isaurico, venne promulgato un simbolo di fede conciliativo (il Henotikon), al fine di sedare i dissidî sorti dal concilio di Calcedonia (451) e particolarmente acuti nell'Asia Minore. Un risultato benefico, nel senso della pacificazione, fu raggiunto; e anche l'Armenia, il cui territorio nel 387 era stato spartito tra gl'Imperi romano e persiano, tornò alla comunione con la chiesa greca (475-490).
In sostanza, dalle invasioni barbariche, l'Asia Minore usciva molto meno intaccata nella sua economia e nella compagine etnica che la maggior parte delle altre regioni già suddite di Roma. Dei Goti che l'avevano infestata fin dalla prima metà del sec. III, qualche banda rimase insediata nel paese (nell'anno 714, si distinguevano ancora dei "Goto-Greci" fra gli abitanti della Bitinia: Theoph., a. A. 6207). Gli Unni Sabiri, che nel 504 irrompono in Cappadocia, nel 515 devastano il paese dal Ponto alla Licaonia e nel 531 giungono per le valli armene in Cilicia, scomparvero dopo avere seminate rovine. Più delle armi straniere, i rigori del fisco imperiale e la rapacità di funzionarî e di grandi proprietarî (con le loro scolte di δορυϕόροι "bravi") stremarono le popolazioni, soprattutto durante il regno di Giustiniano. Il rivolgimento iniziato da Vitaliano, riuscito a Giustino (518), oltre a essere una reazione cattolica, invisa ai numerosi avversarî di Calcedonia che contava l'Asia Minore, mutava anche l'elemento predominante nell'esercito. Ai quadri di nazione isaurica, si sostituivano quelli dell'Illiria (in gran parte di lingua latina). Tra gli avvenimenti dell'epoca figura l'estirpazione del paganesimo: Giovanni d'Efeso, malleus paganorum, usando di mezzi non precisamente evangelici, riusciva a convertire di colpo (542) ottantamila fedeli dei culti antichi, in Frigia, Lidia e Caria. Giustiniano rimaneggiò i limiti territoriali delle provincie in Asia Minore: dinnanzi alla capitale fu formata la piccola provincia Pontica Prima, con Calcedonia per capoluogo. Delle tre Armenie, con una parte del Ponto Polemoniaco e la regione dell'Eufrate, vennero costituite quattro provincie, tutte denominate Armenia (I, II, III, IV). Di maggior portata fu il parziale abbandono della rigorosa separazione fra poteri civili e comando militare, quale l'aveva stabilita Diocleziano. Ora, a "conti delle milizie" furono in parecchi luoghi affidate le funzioni di governatori. Fu un passo verso l'istituzione dei "temi" retti da "strateghi". Avendo le vittorie dell'imperatore Tiberio sui Persiani (574) consolidato il dominio bizantino sui confini orientali dell'Asia Minore, ancora una volta si procedette (sotto Maurizio) a uno spostamento di provincie: l'Armenia IV con l'Arzanene divenne "Mesopotamia", mentre la Sofene, la Digisene, l'Anzitene, l'Orzianine e il Muzuron furono riuniti sotto il nome di Armenia IV. Ma a principio del regno di Eraclio (610-640), l'impero precipitò in una crisi immane che per qualche tempo fece disperare della sua salvezza. Le schiere del "gran re" Sassanide s'accampavano sulla Propontide nel 615 e, quattro anni dopo, si mantenevano ancora in Ancira. Bisanzio non aveva più soldati da opporre: l'esercito di formazione illirica, dopo avere perduto la sua base di reclutamento (l'Illiria e la Tracia erano sommerse dalla valanga di Slavi e Avari) s'era esaurito, quale forza disciplinata, nella rivolta che portava sul trono il centurione Foca. Urgeva fare scaturire nuove legioni dal suolo. La leva in massa delle provincie anatoliche salvò allora l'Impero, rese possibile a Eraclio di condurre la "crociata", veramente sostenuta da un entusiasmo religioso e popolare, fino nel cuore della Persia. Da allora l'Asia Minore diventa la parte vitale dell'Impero, il retroterra da cui esso trae quasi tutti i suoi mezzi d'esistenza - uomini, denari, vettovaglie. E ciò coincide con la completa grecizzazione della monarchia e dei suoi organi di governo. L'organizzazione improvvisata nell'estremo pericolo venne fissata a sistema con la riforma del governo provinciale: la provincia s'identificò con l'unità militare (notizie per una epoca più tarda dànno come norma la legione di 10.000 uomini), alla quale una data regione deve assicurare reclute e sussistenza; al capitano delle milizie (stratega o conte o domestico o drongario) sono subordinati gli organismi della burocrazia civile, i quali rimangono numerosi e ben differenziati. Sotto tale regime l'A. Minore visse durante cinque secoli. Per l'epoca di Eraclio è accertata l'esistenza del tema dell'Opsikion (Obsequium?) con centro a Nicea, e dell'immenso tema degli Armeniaci, che si estendeva da Sinope fino all'Iberia Caucasica. Verso la fine del sec. VII appaiono, accanto ai temi predetti, quello degli Anatolici e quello delle Marine (Caria ed Isole). Sotto gl'imperatori iconoclasti - con l'istituzione dei feudi militari - fu perfezionata la distribuzione dei distretti militari e moltiplicati i temi per frazionamento di quelli troppo vasti. Senza il riordinamento militare-politico, iniziato da Eraclio, l'Asia Minore non avrebbe, probabilmente, resistito all'urto dell'islām nei secoli VII-VIII. È noto come un profondo cambiamento nell'arte della guerra, delineatosi già nel sec. IV, sia venuto a compimento nel VI (sotto Belisario): la cavalleria divenne la forza essenziale, riducendo i fanti quasi unicamente alla difesa delle fortificazioni. Ora furono la Cappadocia, la Paflagonia, l'Armenia (e in seguito l'Iberia) che diedero all'Impero cavalli e provetti cavalieri. Ai temi marittimi dell'Asia Minore dovette la sua efficienza la flotta imperiale, riordinata e aumentata dai successori di Eraclio e che nel sec. X giustificava l'orgogliosa apostrofe di Niceforo Foca al cremonese Liutprando: "Navigantium fortitudo mihi soli inest". All'importanza economica e militare dell'Asia Minore corrispose il suo primato nella vita politica di Bisanzio: dal sec. VIII in poi quasi tutte le dinastie che indossarono la porpora, sono d'origine anatolica (di Germanikia in Cilicia la famiglia di Leone III, di Amorion la "dinastia frigia"; immigrati dall'Armenia i "Macedoni" innalzatisi con Basilio I; Armeni pure i Lecapeno, i Foca, i Gurghen, da cui discende Giovanni Zimisce; oriundi dalla Paflagonia i Comneni).
Lo scopo, anzitutto strategico, dell'istituzione dei temi, messo in luce anche dal particolare significativo che la denominazione, di solito, anziché alla regione, si riferiva alla truppa stanziatavi, comportava la cancellazione delle differenze etniche, che durante tutta l'antichità avevano determinato i compartimenti naturali dell'Asia Minore. Nella tormenta da cui fu avvolta, durante quasi due secoli, la cristianità orientale, assediata dalle forze ancora esuberanti del califfato, la mescolanza delle genti fu accelerata e da impellenti necessità e da provvedimenti dispotici. Dinnanzi all'invasione fuggivano e si sbandavano gli abitanti delle città indifese e delle campagne; si ritiravano combattendo compagnie di volontarî, formatesi per una guerriglia a coltello contro gl'infedeli e che diventavano - sotto nome di Mardaiti - i più preziosi, indomiti difensori del limes romano e cristiano; nelle terre ricuperate dopo una scorreria di Saraceni urgeva colmare il vuoto demografico. Qualche volta il governo imperiale avrebbe tentato di "internare" tutta la popolazione d'una provincia che non era in grado di difendere, se dobbiamo prestar fede al racconto di Teofane sul disastroso trasporto degli abitanti di Cipro a Cizico (690). Sicuro è che masse di Slavi, intrusi a mala pena domati nelle province europee, vennero fatte passare in Asia. Il male era che spesso rimanevano indocili al punto di passare al nemico. Si ha notizia di 5000 Slavi stabilitisi attorno ad Apamea nel 664. Un esperimento di Giustiniano II per trapiantare trentamila Slavi di Macedonia sul suolo dell'Asia Minore, si risolveva in disastro: due terzi degl'immigrati fuggivano in terra saracena; e il resto per rappresaglia fu fatto trucidare dall'imperatore. Miglior successo sembrano avere ottenuto gli energici imperatori iconoclasti nel sec. VIII. Nel 762 più di duecentomila Slavi si stabilivano sui confini d'Armenia. E s'intende come fosse d'origine slava Tommaso di Cappadocia, capo della formidabile ribellione (822), che allo stesso tempo riunì gli allogeni dell'Asia Minore (Cabiri e Zichi, Caldei e Armeni, Siri e Persiani) contro la signoria greca e inalberò rivendicazioni dei poveri contro i ricchi (forse in qualche connivenza con le sette mistico-comuniste che allora cominciavano ad agitarsi nel califfato). Non mancarono ragioni, d'ordine militare o anche di sicurezza interna, per ordinare migrazioni in senso inverso, cioè dall'Asia Minore in Europa: lo stesso irrequieto Giustiniano II volle che i Mardaiti del Libano si disseminassero in tutte le provincie, compresa l'Ellade; colonie di Armeni e di Siri furono stabilite nella Tracia (p. es. nel 755), gran parte dei trentamila "Persiani" passati al servizio bizantino seguendo il loro re Teofobo, fu costretta ad elegger domicilio nei Balcani (835). S'aggiunga che le terre coltivabili e per qualunque ragione abbandonate, erano dichiarate demanio della corona e parcellate fra uomini d'arme e marinai che s'impegnavano al servizio perpetuo. Con gli spostamenti nazionali e sociali si combinavano movimenti confessionali. In quel secolo di ferro l'esaltazione delle schiere che più valorosamente proteggevano l'impero cristiano, suscitava tendenze verso un più aspro rigore o una più semplice espressione del dogma rivelato. Nacque e si propagò in Asia Nlinore l'eresia pauliciana, le cui origini dottrinali rimangono oscure, e di cui un testo liturgico ci è pervenuto in lingua armena (La Chiave della Fede, pubblicato dal Conybeare nel 1898). Quale frazione estrema del movimento iconoclasta i pauliciani servirono fedelmente l'Impero sotto Costantino V e sotto Teofilo. Il ristabilimento dell'ortodossia (843) fu celebrato con il loro massacro. Quelli che vi sfuggirono dovettero ricercare la protezione dell'emiro musulmano di Melitene; costituirono uno stato autonomo attorno a Tefrice, trovarono un condottiero valentissimo in Chisocheiro e più volte inflissero sanguinose sconfitte alle truppe dell'Impero. Di tutti questi eventi un risultato ovvio è che, verso l'800, la popolazione delle varie provincie in Asia Minore non poteva serbare neppure il ricordo delle distinzioni tra Frigi, Lidî, Galati ecc.; l'altro risultato, confermato dai fatti che seguirono, pone in evidenza - una volta ancora - la "meravigliosa facoltà della stirpe greca di assorbire ed ellenizzare genti allogene" (W. Miller, The Latins in the Levant p. 3-4).
L'energia degl'imperatori iconoclasti aveva rintuzzato gli assalti nemici su tutte le frontiere e ristabilito le condizioni d'una più equilibrata economia all'interno. La flotta imperiale proteggeva il traffico nell'Egeo e nel Ponto. Le città potevano alimentarsi con il commercio; verso il 730 Efeso pagava ogni anno all'erario cento litrae (circa 34 kg.) d'oro d'imposta sugli scambî. Trebisonda diventò città importante mercé le sue industrie (tessuti di lana), ma più ancora profittò delle relazioni che la politica e la civiltà di Bisanzio andavano allargando fra i popoli del Caucaso e nell'allora potente stato dei Chazari. Per collegare la frontiera anatolica con la capitale un sistema ingegnoso di telegrafia luminosa attraversava la penisola. La stazione termine era la fortezza di Lulon (Faustinopoli? cfr. Ramsay, As. Min., p. 353); quelle intermedie: il Monte Argeo, Isamo (sul lago Taita), Egilo, Mamasa, Cirizo (Katerli Daǧ), Mochilo (Samanli Daǧ) e il Monte Aussenzio, da dove era visibile la fiamma del faro entro il Sacro palazzo sul Bosforo (Theophanes Contin., p. 197; De Caerimon., I, App., p. 491). Se l'Asia Minore ha dato impulso a non poche eresie, non ha mai cessato di fornire atleti della fede alla chiesa ortodossa. In Cappadocia, fra quei paesaggi che le lettere di San Basilio e di Gregorio Nazianzeno ci permettono di far rivivere, è sorta la vita monastica di osservanza genuinamente greca (differenziata da quella che già s'era diffusa in Egitto e in Siria). Ed è nella regione a occidente e a mezzogiorno di Cesarea che si ritrovano i monumenti (studiati con pazienza stupefacente dal padre De Jerphanion) che accertano l'ininterrotto fervore d'una tradizione ascetica dal sec. V al secolo XIII: sono caverne decorate di affreschi - per mano degli eremiti che vi fecero penitenza - che si possono paragonare con le "grotte dei Santi Padri" (pure basiliani) che si trovano in Calabria e in Puglia.
Nei secoli VIII e IX ebbero grande rinomanza gli eremi e le laure attorno all'Olimpo di Bitinia. Questo gruppo di religiosi in rivalità con lo Studion di Costantinopoli, condusse la lotta per l'ortodossia contro gl'iconoclasti; ma mostrò minor zelo per l'unione con Roma; attirò pellegrini dal Caucaso e per mezzo di monaci vaganti mantenne relazioni con le comunità cristiane, rimaste sotto il dominio musulmano in Egitto e in Siria. Gli ultimi sforzi poderosi, che il califfo di Baghdād poté tentare per la conquista dell'Asia Minore, furono la distruzione di Amorion (dopo cinquanta giorni di eroica resistenza il 23 settembre 838) e la spedizione del generale turco Būghā in Armenia (848-850). Vent'anni dopo, Basilio I, cominciando la controffensiva delle armi cristiane (che andrà sviluppandosi fino al sec. XI), trova dinnanzi a sé non più la mole della teocrazia abbāside, ma un mosaico di emirati instabili e discordi. I Bizantini con metodo rosicchieranno uno dopo l'altro questi staterelli di Melitene e di Tarso, di Aleppo e di Edessa. Nell'873 il labaro imperiale vittoriosamente si pianta sulla sponda destra dell'Eufrate. Contemporanea a questo risorgimento della grandezza bizantina è la ricostituzione dell'Armenia sotto i Bagratidi e l'inizio d'un'era florida per le città armene e per l'arte che in esse si coltiva. Il senso politico di Costantinopoli non poteva trascurare l'opportunità d'una coalizione di tutti gli stati cristiani d'Asia Minore e del Caucaso ai fini della riconquista. I cordiali rapporti fra Basilio I e Ašot I, al quale l'aula bizantina (tanto suscettibile in materia di titoli) non esitava a confermare la dignità di "re dei re", e quarant'anni più tardi (920) la corrispondenza fra Nicola il Mistico e Giovanni VI, katholikós d'Armenia, mostrano l'abilità persistente e le vaste vedute della diplomazia greca. Difatti - e nonostante le insanabili discordie feudali che debilitavano la nazione armena - questa ha contribuito grandemente alla serie di guerre fortunate che portarono Giovanni Gurghen ad Edessa (945), Niceforo Foca ad Aleppo (964) e Giovanni Zimisce quasi alle porte di Gerusalemme (975). Appunto le interne discordie in Armenia determinavano l'esodo di numerosi "baroni" che, perduta la loro situazione in patria, facevano carriera nell'esercito del basileus. Questi fuorusciti s'assimilavano la lingua, la cultura, l'ortodossia religiosa dei Greci. Ma furono essi altresì che accentuarono le abitudini del feudalesimo (contrarie al diritto e alle istituzioni di Roma) nella casta dei grandi proprietarî. Per gli anni 950-952 si può - con le notizie sparse nel De administrando Imperio di Costantino Porfirogenito, stabilire l'elenco completo dei temi in cui si divideva il territorio bizantino dell'Asia Minore: 1) il tema dell'Egeo, oltre alle isole Lemno, Mitilene ecc., includeva Cizico ed Abido. Seguivano, lungo la costa verso NE.: 2) l'Opsikion (Nicea, Doryleon); 3) l'Optimaton (dove Nicomedia era un cumulo di rovine); 4) il Bucellarion (Eraclea, Ancira); 5) la Paflagonia (Gangra, Amastria); 6) gli Armeniaci (Sinope, Amasia); a mezzodì del tema dell'Egeo (e affini a questo, perché davano reclute alla flotta) seguivano: 7) il tema di Sam0 (Pergamo, Smirne, Efeso); 8) quello dei Ciberreoti (Mileto, Rodi, Alicarnasso, Cibirra); verso l'interno si stendevano: 9) i Tracesî (Sardi, Laodicea) e la più importante fra le provincie; 10) gli Anatolici (Amoriot); più innanzi, verso oriente: 11) la Caldea (Teodosiopoli); regioni di confini militari erano: 12) Colonea (fortezza di prim'ordine); 13) la Cappadocia, irta di castelli; 14) il tema (o "clissura") di Charsian (Malatia); 15) la Mesopotamia; 16) Sebastea; 17) Lycandos; 18) Seleucia (con Germanicopoli).
In queste ultime regioni, dove le incursioni musulmane esigevano una vigilanza senza tregua e pronte rappresaglie, si scaglionarono le colonie di "acriti" (ἀκρῖται) contadini-guerrieri, milizia perpetua ed ereditaria sul limite sempre pericolante della cristianità. Dalle loro quotidiane avventure nacque spontaneamente il ciclo di canti epici, in cui si celebrano le gesta di Digenis Akritas.
Benché la scarsità di documenti non permetta ragguagli precisi, è fuori dubbio che i disastri dei secoli VII e VIII, devono avere notevolmente sconvolto il regime della proprietà fondiaria in Asia Minore. Il grande cimento degl'imperatori Siriani (Leone III e Costantino V) per spezzare i latifondi a profitto della media e piccola proprietà - trasformando in classe di liberi contadini gli "enapografi" (ascritti alla gleba) e moltiplicando i possessi inalienabili degli uomini iscritti nei ruoli dell'esercito e della marina - non raggiunse un effetto definitivo. L'avvento della dinastia "macedone" (armena di fatto) nell'867 fu anche in parte una reazione dei potenti proprietarî contro le severità del controllo statale, che proteggeva i poveri (coloni, mezzadri, ecc.). E d'ora in poi il latifondo - soprattutto in Asia Minore - trionfa di tutte le limitazioni che tentano di imporgli il fisco e le ripetute leggi contro l'usurpazione di terre. Dalle vite di santi dei secoli IX-X si racimola qualche particolare su cospicui fondi, posseduti allora da nobili personaggi in Bitinia, in Paflagonia, in Lidia. Una di queste proprietà comprendeva 50 casali, v'erano dodicimila ovini, ottocento cavalli, seicento bovini. La villa del signore era di proporzioni vaste, con il gineceo isolato, e nel triclinio, attorno a un tavolo tutto incrostato di avorî, potevano prendere posto 36 convitati. Si costituirono proprietà così estese da potervi mantenere una clientela armata, sufficiente non solo a respingere qualsiasi braccio della legge, ma anche a sostenere un'insurrezione per la conquista della porpora. In Asia Minore avevano le loro terre i Foca, espressamente menzionati - nella novella del 996 - fra i più rapaci usurpatori di feudi militari. Una epoca critica, che determinò anche l'ulteriore sviluppo dell'economia sociale in Asia Minore, fu quella delle ribellioni di Bardas Scleros e di Bardas Foca (976-989). L'una e l'altra mobilitarono le clientele e, per assoldare mercenarî saraceni o caucasici, le grandi ricchezze dell'aristocrazia; il paese fu orrendamente devastato in tredici anni d'anarchia e la popolazione rurale ne uscì rovinata. I provvedimenti di Basilio II, per quanto energici, non riuscirono a sanare i rapporti fra le classi: non s'attenuò la prepotenza dei grandi proprietarî e il minuto popolo andò esaurendosi anche per il peso dei tributi (in uomini e denari), determinato dalle esigenze non riducibili della politica imperiale. In connessione con la guerra civile contro i due Bardas sta la decadenza della marina che fino allora l'Asia Minore aveva fornito all'Impero: sia che l'abbiano scompaginata le sue tergiversazioni durante la rivolta, sia che l'infido contegno abbia indotto il governo a trattarla con rigore, certo è che non ebbe più reclute, basi di sussistenza, armamento sufficienti.
D'ora in poi l'Asia Minore rappresenta nell'Impero la "base d'operazioni" dell'aristocrazia militare, fazione in continua lotta contro la burocrazia accentratrice e "pacifista", che cerca di mantenersi - e di mantenere secolari tradizioni - a Costantinopoli. Da una lite per i confini fra i loro latifondi in Asia Minore, Romano Scleros e Giorgio Maniace fanno divampare (1043) una guerra civile, che pone a repentaglio il trono di Costantino Monomaco. Il prode Katakalon Kekaumenos, gran signore in quel di Colonea (sui confini d'Armenia), e Isacco Comneno, padrone di terre e di uomini in Castamon di Paflagonia, promuovono il rivolgimento del giugno 1057, che segna la vittoria dell'aristocrazia militare sul partito burocratico. Molto più tardi, quando l'imperatore Andronico Comneno (1184) farà un supremo tentativo per restaurare l'equilibrio sociale, secondo le massime dei Porfirogeneti, saranno sempre i nobili della Bitinia che sorgeranno in armi per opporvisi. Le condizioni, in cui versava il popolo dell'Asia Minore nella prima metà del sec. XI, s'intravvedono, quando il cronista (Cedrenus, 525-526) racconta come Maria, madre del Cesare Michele, essendo andata in pellegrinaggio ad Efeso (1040), tanto fu accorata dalla miseria che vide in borghi e villaggi lungo il percorso, da implorare suo fratello, l'onnipotente "orfanotrofo" Giovanni, che usasse clemenza verso quella povera gente. Tuttavia sarebbe stato difficile prevedere allora che l'ellenismo anatolico fosse alla vigilia d'un tragico collasso. Non languiva l'operosità di architetti, musaicisti, orefici. La chiesa della Dormizione a Nicea (decorata di musaici del migliore stile), quella di Canlikilise presso Celtek in Cappadocia, quella di Pizunda sul Ponto, sono superstiti per caso fra gli edifici, sicuramente numerosi, di cui si sono ornate nel sec. XI le provincie orientali di Bisanzio. L'Asia Minore non cessava di dare uomini eminenti alla chiesa e alle lettere greche. Della città di Magnesia in Caria è San Lazaro Galesiota, monaco vagante, poi stilita, eppur mescolato alle rivoluzioni di palazzo (v. la curiosa "vita" pubblicata da Loparev, in Visant. Vremennik, 1887, pag. 337 segg.).
Nacque nei pressi di Nicea (circa 1020), e nei monti di Bitinia fece il suo tirocinio ascetico, S. Cristodulo - il grande riformatore del monachismo greco. A Euchaita (vicino ad Amasia) è metropolita Giovanni Mauropo - erudito e poeta insigne; da Trebisonda viene Giovanni Xifilino, patriarca ecumenico e "una delle figure più rappresentative della civiltà bizantina nel sec. XI" (Krumbacher, Gesch. d. Byz. Litt., 2ª ed., p. 170).
Tanto pareva sicuro di sé l'ellenismo che a Costantinopoli si ritenne giunto il momento di affrettare bruscamente la fusione (con cautela diplomatica già avviata da Basilio II) dell'Armenia con l'Impero, naturalmente sotto l'egida dell'ortodossia e delle leggi greche. Alle perfidie con le quali il governo di Costantino IX riusciva ad attirare a Bisanzio (1045) il re Kagik II e il katholikós Pietro per estorcere loro atti d'abdicazione, il paese armeno rispose come la Spagna a Napoleone. In una esasperata guerriglia si consunsero le forze delle due nazioni cristiane. Non erano passati dieci anni e l'annalista registrava: "Un vento letale alita sull'Armenia. S'è rovesciata su di essa una gente pelosa e abominevole.... più numerosa che le sabbie del mare". Erano i Turchi di Toghrūl beg. Dopo la disastrosa giornata di Manzikiert (sull'Arasse) dove l'imperatore romano Diogene fu fatto prigioniero da Alp Arslān (26 agosto 1071), le orde turche non trovarono quasi resistenza nell'Asia Minore, dilaniata dalle competizioni delle schiatte nobiliari. Suleiman, figlio di Kutulmish, condusse i suoi fino all'Ellesponto. Ma quando Alessio Comneno ebbe restaurata l'autorità imperiale e ricomposto un forte esercito (di mercenarî), la controffensiva greca si sviluppò con costante successo. Tra il 1097 e il 1099 furono riprese Nicea, Smirne, Efeso, Sardi. Giovanni, successore di Alessio, riconquistava la Paflagonia (1130) e la Cilicia (1137); Manuele Comneno portò l'esercito vittorioso fin sotto le mura di Iconio. Non è ipotesi azzardata che, se non fosse stata assalita alle spalle dai Latini, Bisanzio nella lotta contro i Selgiuchidi sarebbe riuscita o a cacciarli dall'Asia Minore, come già gli Arabi, o a sottometterli, come i Bulgari.
L'impero selgiuchida s'era sfasciato nel 1092. Neppure coloro che avevano invaso l'Asia Minore formavano uno stato unico e compatto. Fino al 1155 la rivalità fu accanita fra gli emiri Danishmend, insediatisi a Sïvas (Sebaste), e la famiglia di Kilig Arslān, che dominava a Iconio. Anche dopo la vittoria di Kilig Arslān II si mantennero, accanto alle sue, diverse signorie turche (ad Erzurum, a Khelat). Peraltro questi Turchi sembrano aver mostrato velleità di adattarsi al nuovo ambiente. Abū'l-Qāsim, signoreggiando a Nicea (1086-1091), accettò l'investitura bizantina col titolo di "sebastos". Spesso è difficile distinguere un feudatario greco in ribellione contro l'Impero (p. es. Zachas nel 1092-93) da un emiro turco. Anche più tardi, fra le truppe schierate dal sultano d'Iconio contro gli Ayyūbidi si vedono figurare molti cristiani; e il sostegno più valido di Kai-Khosrū (1199-1211), spodestato da suo fratello Suleiman, è l'indipendente barone greco Makrozomes. Solo dopo i tristi effetti della Quarta Crociata il sultanato di Rūm predominò veramente nell'Asia Minore. Estese il suo territorio fino a Sinope e fino a Seleucia, ebbe tributarî i Greci. Breve epoca di splendore fu il regno di ‛Alā ad-dīn Kai Qobād I (1219-1234); un'arte stranamente raffinata, creata da Persiani e da Bizantini, fiorì a Konya; da un castello armeno sorse la nuova città di Alaiye. Quasi nei luoghi stessi, ove era nata la regola monastica di San Basilio, la mistica musulmana esaltò l'ordine dei dervisci Mevlevi, fondato da Gialāl ed-dīnar Rūmī. Troncò queste affermazioni d'una civiltà musulmana in Asia Minore la conquista mongola. Sconfitti e umiliati da Hūlāgū e dagli Ilkhāni, i Selgiuchidi d'Asia Minore (nuovamente spezzettati in emirati mediocri) piombano nell'oscurità verso il 1300, quando è già insediata nel paese la schiatta di ‛Othmān figlio di Ertoghrūl.
Parti dell'Asia Minore continuavano a essere sotto dominio cristiano. Lasciando da parte piccoli nuclei d'Armeni o Greci, che a lungo resistettero in luoghi impervî, o le transitorie imprese di crociati come quella degli Aldovrandini, che fino al 1207 tennero Adalia, i reami della "Piccola Armenia" di Trebizonda e di Nicea appaiono con più o meno prestigio nelle combinazioni politiche del sec. XIII. Fin dal 1085 Rupen aveva raccolto attorno a sé, in Cilicia, quanti rimanevano indomiti della sua nazione. La dinastia da lui fondata, collegando i suoi sforzi con quelli dei Francesi di Gerusalemme e di Cipro, riuscì a possedere un territorio (detto "Armenia parva") fino alla capitolazione di Gaban (1375), per cui Leone VI Lusignano dovette arrendersi ai Mamelucchi. Trebisonda divenne appannaggio d'un nipote di Andronico Comneno imperatore. Dei venti sovrani che si succedettero dal 1204 al 1460, nessuno acquistò un nome glorioso; ma a questa continuità del regime bizantino è dovuta la conservazione della lingua e della religione elleniche nel Ponto fino ai nostri giorni. A Nicea dopo la catastrofe del 1204, s'era rifugiato il ceto dirigente di Bisanzio. Se il Paleologo avesse mantenuto il centro dello stato in Asia Minore, invece di riportarlo a Costantinopoli, le cui risorse mercantili, taglieggiate da Veneziani e Genovesi, più non giovavano all'Impero, sarebbe proceduta meno rapida la conquista osmana. Secondo uno dei più recenti storici di Bisanzio (Vassiliev), a Nicea si è risvegliata una nuova coscienza dell'ellenismo: l'abbandono del sogno imperiale per un ritorno a quelle tradizioni veramente nazionali (elleniche e non più romane), che più tardi troveranno fervore d'adesioni nel Peloponneso ed eloquente espressione nei progetti di Gemistio Pletone. Lo stato di Nicea fu validamente difeso dalla milizia degli "acriti", che dinnanzi all'ondata turca s'erano ritirati e ricostituiti in Bitinia. Queste "clissure" erano salde quando Michele Paleologo riconquistò le provincie europee e s'insediò di nuovo nella città di Costantino. La grande e dispendiosa politica, rivolta verso Occidente, fece trascurare i confini orientali. Poi le angustie dell'erario determinarono la fatale misura di sottoporre al catasto e gravare di tributi i piccoli poderi degli "acriti"; questi abbandonarono allora il servizio divenuto rovinoso.
Ai Turchi era aperta la strada. Nel 1312 era invasa la Ionia, nel 1320 cadevano Nicomedia e Prusa (divenuta Brussa, capitale degli Osmanli); nel 1330 era la volta di Nicea; verso la metà del secolo era turca tutta la Misia con Pergamo. Ultima città tenuta dai Bizantini in Asia Minore fu Filadelfia, che resistette fino al 1391. I Genovesi si mantennero a Focea (Foglia Nuova) fino al 31 ottobre 1455. Allo stesso tempo gli Ottomani unificavano l'interno dell'Asia Minore sopprimendo o riducendo all'obbedienza gli emirati d'origine selgiuchida. Nel 1360 Murād I entra ad Ancira; dopo la battaglia d'Iconio (1386) il sultano di Caramania cessa di essere un rivale; nel 1391 si sottomettono gli emiri di Sarukkan (Sardi), di Aydin (sul Meandro), di Mentesia (Caria), di Kermiyan (Frigia), di Tekka (Licia); nel 1393 anche Kastamonu è incorporata al sultanato di Brussa. Ormai s'impone la toponomastica dei conquistatori; Manuele Paleologo, percorrendo il paese al seguito del Turco, di cui è ostaggio, vede dovunque cumuli di rovine e nessuno sa neanche più dirgli il nome delle città che furono. Nonostante quest'agonia del paese, non ai soli giannizzeri di Murād e Bayazīd si deve ascrivere il completo imbarbarimento della Anatolia. Anche gli Ottomani, ormai da un secolo a contatto con Bisanzio, tendevano ad acclimatarsi. Non tutto si distruggeva o si confiscava. Dovevano essere numerose verso il 1400 le borgate nascoste nel fondo delle provincie, dove inalterata continuava la vita, come quella "Talas Cesarea" ancora del tutto greca, che Carl I. Burckhardt (Kleinasiatische Reise, pp. 50-62) ha scoperta nel 1925. Proprio la corruzione dei costumi, che gli storici notano attorno a Bāyazīd I (Zinkeisen, Gesch. des Osman. Reiches, p. 384) potrebbe apparire sintomo di umanizzazione, per l'influsso dei vinti sui vincitori. Ma nel 1401 avanzava l'esercito di Tamerlano e bruciava Sïvas. Le conseguenze furono irrimediabili. Da un lato il condottiero zoppo attraversò quasi metà dell'Asia Minore e "in una città dove era passato Tamerlano non c'era verso di udire nè il latrato d' un cane nè il grido d'un bimbo" (Ducas, XVII, 76-77). Dall'altro gli Ottomani, sconfitti ad Angora, per senso di conservazione tornarono a una più rude disciplina e allo spietato fanatismo della guerra santa.
La devastazione delle orde di Tamerlano spense ogni residuo di civiltà occidentale nell'Asia minore; il successivo e secolare dominio ottomano compì l'opera col fanatismo religioso, con le conversioni violente all'islamismo, con lo sgoverno dei suoi pascià. Dal 1400 fino al ridestarsi delle ambizioni espansionistiche delle Potenze europee nella seconda metà del secolo scorso, la storia dell'Asia minore non è che un capitolo della storia interna dell'Impero ottomano (v.), con poche o punte relazioni col mondo occidentale.
Bibl.: Per le fonti e gli studî riferentisi all'Asia Minore durante il Medioevo valgono naturalmente le opere sull'Impero bizantino (v.). In particolar modo: G. Schlumberger, Sigillographie de l'empire byzantin, Parigi 1884, con le aggiunte pubblicate in varie annate della Revue des Études grecques; H. Gelzer, Die Genesis der byzantinischen Themenverfassung, Lipsia 1899; e del medesimo il commento alla Descriptio orbis romani di Giorgio di Cipro, Lipsia 1890. - Per l'Armenia da rilevare: I. Laurent, L'Arménie entre Byzance et Islam, Parigi 1919 (Écoles françaises d'Athènes et de Rome, voll. 117), con esauriente bibliografia. Per il califfato arabo, ricchezza di testi inediti in Vassiliev, Visantia i Araby (Bisanzio e gli Arabi), voll. 2, Pietroburgo 1901-02; a complemento: F. W. Brooks, The Arabs in Asia Minor, in Journal of Hellenic Studies, 1898, p. 200 segg. Per i Selgiuchidi soprattutto M. T. Houtma, Recueil de textes relatifs à l'histoire des Seldjoucides, Leida 1902, III; su Trebisonda il volume recente, riassuntivo, molto esatto di W. Miller, Trebizond, Londra 1926; inoltre A. Papadopoulos-Kerameus, Fontes historiae Imperii Trapezuntini, Pietroburgo 1897; G. Millet, Inscriptions grecques de Trebizonde, in Bulletin de Corresp. hellenique, XX (1896), pp. 496 segg.
L'opera principale di carattere storico-geografico sull'Asia Minore bizantina rimane: W. M. Ramsay, historical geography of Asia Minor, Londra 1890; id., Cities and bishoprics of Phrygia, Oxford 1895-97, I, i-ii; J. G. C. Anderson, The road system of eastern Asia Minor, in Journal of Hell. Studies, 1897, p. 22, e le carte dal medesimo ricostruite e commentate: Asia Minor, nella collezione Murray's Handy Classical Maps, Londra 1903; W. Tomaschek, Zur historischen Topographie von Kleinasien im Mittelalter, 1891, nei Sitzungsberichte der Kaiserl. Akademie di Vienna, CXXIV, Abhandlung 8, e il complementare studio del medesimo in Kiepert Festschrift, Berlino 1898, p. 137 segg. Molte notizie si ricavano tuttora da V. de Saint-Martin, Nouveau dictionnaire de géographie universelle, voll. 7, 2ª ed., Parigi 1879-95 con i due volumi di supplemento di L. Rousselot, Parigi 1895-1897.
In particolare: per il sec. IX: Ibn Khordob (Khordadbeh), Liber viarum et provinciarum, ed., con traduzione francese, di M. J. de Goeje, Leida 1889; fra le agiografie, la Vita Euthymii, ed. E. C. de Boor, Berlino 1880 e Acta XLII martyrum Amoriensium, ed. da Vassiliev e Nikitin, Pietroburgo 1905, in Memorie dell'Accad. Imper. di Pietroburgo, s. 8ª, VII, 2; per il sec. XII: l'Itinerario di Beniamino di Tudela, con traduz. inglese di M. N. Adler, Londra 1907; per il sec. XIII: ragguagli in Teodoro Lascaris, Elogio di Nicea, ed. L. Bachmann, Rostock 1847; E. Kurz, su Cristoforo di Ancira, in Byz. Zeitschrift, XVI (1907), p. 120; sul patriarca Teodoro Irenico a Nicea, v. artic. di Papadopoulos-Kerameus, in Byz. Zeitschr., X (1901), p. 182; sul palazzo di Nimfeo: E. Freshfield, in Archaeologia, XLIX (Londra 1886), p. 382; C. Texier, Tombeaux du Moyen Âge à Kutayah et à Nymphi, in Revue Archéologique, I (1844), p. 320; per il sec. XIV: E. M. Quatremère, Notices et extraits des mss., ecc., XIII, pp. 151-353; Viaggi di Ibn-Batoutah, trad. franc. di C. Dufremery e B. R. Sanguinetti, Parigi 1893, II, pp. 255-354. Si omettono le opere dedicate alla storia dell'arte, notando solo che quelle del Ramsay, del de Jerphanion, dello Strzygowski (Kleinasien, ein Neuland, ecc., e Die Baukunst der Armenier, Vienna 1919 e molti saggi sparsi) hanno indubbia importanza per la storia generale della regione.
L'Asia Minore nella politica europea. - Il trattato di Berlino (13 luglio 1878), che mutilò profondamente le provincie europee della Turchia, lasciò intatte le sue provincie asiatiche, esclusa la cessione a favore della Russia del territorio di Batum, Kars e Ardahan: cosicché la Turchia d'Asia confinava con la Russia per il vilāyet di Erzerum, con la Persia per i vilāyet di Van, Mossul, Baghdād e Bassora, con l'Egitto per il mutaṣarrifat di Gerusalemme, col Mar Rosso, Oceano Indiano e Golfo Persico per i vilāyet del Ḥigiaz e Yemen.
Il periodo, che si estende dal trattato di Berlino allo scoppio della guerra europea, è caratterizzato in Turchia d'Asia da un'intensa rivalità delle grandi potenze europee per l'egemonia politica ed economica. La Francia mira soprattutto al buon investimento dei suoi capitali, circa tre miliardi di franchi: sono in prevalenza francesi il Debito pubblico ottomano e la Banca imperiale ottomana, sono francesi le ferrovie Smirne-Cassaba, Giaffa-Gerusalemme, e le linee di Siria, i porti di Smirne, Beirut e Costantinopoli, la Compagnia dei fari, la Regia dei tabacchi, ecc. Le ambizioni territoriali della Francia sono localizzate in Siria: politicamente assai le giova il secolare protettorato sui cattolici. La Germania, venuta tardi e ansiosa di espansione, agevolata dai servigi resi alla Turchia nel congresso di Berlino e in ogni occasione successiva, tende invece risolutamente al predominio politico, e intensifica potentemente i suoi affari in Asia Minore, facendo cooperare la banca, la navigazione, l'industria e il commercio in stretta coordinazione, allo scopo di costituirsi i titoli e i pegni per la più vasta successione, nel giorno in cui l'Uomo malato dovesse morire. Asse centrale della penetrazione tedesca in Asia Minore è la ferrovia di Baghdād, concepita dal von Pressel fino dal 1871 per unire Costantinopoli al Golfo Persico attraverso l'Anatolia e la Mesopotamia, ma di cui solo nel 1888 fu iniziata seriamente la costruzione dalla Deutsche Orient Bank. La ferrovia è contrastata da gravi difficoltà politiche (Russia, Inghilterra, Francia) e finanziarie, tutte brillantemente superate. Alla vigilia della guerra mondiale già si poteva viaggiare sui binarî germanici dal Bosforo all'Eufrate, salvi due tronchi di poche decine di chilometri nelle montagne del Tauro. L'Inghilterra ha in Turchia d'Asia notevoli investimenti di capitale, alcune ferrovie redditizie, come la linea di Aydïn da Smirne al lago di Burdur, e varie concessioni minerarie importanti, ma i suoi interessi politici sono essenzialmente conservativi in relazione all'India e provvedono alla tutela del canale di Suez, impedendo che altre potenze si avvicinino al golfo di Aqaba, e alla difesa del Golfo Persico, guadagnando il protettorato di Koweit e fermando a Bassora la ferrovia di Baghdād: e ciò da quando l'intesa con la Russia (1907) l'ha sollevata dal più gravoso compito, e cioè la resistenza alla pressione russa sull'Armenia verso Costantinopoli e Alessandretta. La Russia, delle grandi potenze, è la sola che confina con la Turchia e può farle sentire direttamente il peso soverchiante della sua forza. Essa non ha interessi economici apprezzabili, ma imponenti interessi politici; la sua sfera d'influenza, il suo lotto ereditario è l'Armenia, da cui potrà scendere al Bosforo o al Mediterraneo il giorno in cui l'Inghilterra con le armi o con i trattati non glielo vieti più. In questa zona la Russia impedisce per lunghi anni qualunque costruzione di ferrovie: improvvisamente, nel 1913, cede le sue concessioni ferroviarie, sempre tenute inoperose, ai Francesi: la misteriosa transazione fa temere a qualche osservatore l'approssimarsi di pericoli per la pace, ma gli eventi precipitano altrove e per altre cause. L'Italia ha in Asia Minore interessi prevalentemente commerciali e di navigazione, nel complesso assai modesti, e non proporzionati alla forza numerica delle sue operose colonie; a Smirne e in Siria le missioni religiose mantengono con le loro scuole un certo movimento d'italianità; in Palestina, la Custodia di Terra Santa, sebbene sotto la protezione francese, è in prevalenza formata da francescani italiani. La guerra di Libia interrompe le relazioni italo-turche, ma l'occupazione del Dodecaneso costituisce per l'Italia una forte base d'azione verso l'Asia Minore. Ripresi i rapporti dopo il trattato di Losanna (1912), l'Italia ottiene nel 1913 la concessione per una rete ferroviaria nella zona di Adalia, fra Smirne e Mersina, che è l'ultima zona rimasta libera da ipoteche europee, e che diventerebbe la sfera d'influenza italiana, se entro breve non avvenisse la conflagrazione europea. L'Austria infine, dall'emporio di Trieste e mediante gli ottimi servizî marittimi del Lloyd, esercita un'azione essenzialmente mercantile: solo nel 1913, quando vede assegnata all'Italia la concessione di Adalia, briga per ottenere una concessione analoga nella zona finitima di Alaiye.
Questa la situazione delle potenze in Asia Minore alla vigilia della grande guerra. Neanche la rivoluzione giovane turca (1908), sebbene ispirata da sentimenti nazionalisti, aveva potuto fermare il fatale andare del vecchio impero verso l'assoggettamento straniero. Scoppiata la guerra mondiale, il predominio che la Germania esercita sul governo e sui militari turchi determina l'intervento della Turchia a fianco degl'Imperi Centrali, contro i suoi più vitali ed evidenti interessi.
Il trattato di pace di Sèvres (10 agosto 1920) fa pagare la sconfitta turca con tremende amputazioni territoriali: la Turchia perde le isole, Smirne e un ampio territorio confinante (alla Grecia), l'Armenia (indipendente), il Kurdistān (autonomo), la Siria (mandato francese), la Mesopotamia (mandato britannico), la Palestina (mandato britannico), l'Arabia (stato indipendente dello Higiāz), oltre ai diritti nominali sull'Egitto, il Sudan, Cipro, il Marocco, la Tunisia, la Libia e il Dodecaneso. La Turchia d'Asia è così ridotta al troncone occidentale dell'Anatolia, diminuito della vasta e ricca zona di Smirne data ai Greci.
Ma il trattato di Sèvres non è applicato, per la ribellione di Mustafā Kemal, che infligge ai Greci in Asia Minore una serie di rovesci, e infine li scaccia da Smirne (9 settembre 1922). I preliminari della nuova pace sono firmati a Mudanya (3-11 ottobre 1922) e la pace definitiva è conclusa a Losanna (24 luglio 1923). La posizione della Turchia in Asia Minore viene fortemente migliorata, poiché non si parla più di zona greca di Smirne, di Armenia indipendente, di Kurdistān autonomo: la frontiera con la Siria è quella già determinata dall'accordo franco-turco del 20 ottobre 1921, e la frontiera con l'‛Irāq o Mesopotamia sarà stabilita amichevolmente tra Turchia e Inghilterra, come avviene, con spirito conciliativo, ma dopo trattative assai delicate a causa della zona petrolifera di Mossul. Cosicché la Turchia in Asia è bensì ridotta al grande quadrilatero anatolico, abitato in prevalenza dalla gente ottomana, ma senza mutilazioni assurde, col suo polmone di Smirne, e quindi in piene condizioni di vitalità. Parimenti importante è la convenzione di stabilimento e di competenza giudiziaria firmata col trattato di pace, che ha per effetto di abolire completamente il regime capitolare in Turchia, ricostituendo la piena sovranità turca, che aveva cessato di esistere fin dall'inizio del sec. XVI, da quando i grandi sultani avevano concesso ai Veneziani, Genovesi, Francesi le prime capitolazioni. Per giudicare la portata di questa conquista di Kemal Pascià gioverà rammentare che forse la massima causa della decadenza della Turchia, e della sua impotenza a resistere alle ambizioni delle potenze europee, fu data dalle capitolazioni, che ponevano la Turchia di fronte ai grandi stati in una situazione di disastrosa e irrimediabile inferiorità.
Proclamata la repubblica e fattosene Presidente, posta la capitale in Angora, nel cuore montagnoso dell'Anatolia, soppresso il califfato, Mustafà Kemal Pascià ha ricollocato la Turchia nel suo originario mondo asiatico, pur promuovendone con audaci riforme ed indomabile energia il progresso in tutti i campi. Oggi la Turchia è uno degli stati che con più gelosa fierezza difende la sua integrità e indipendenza di fronte a tutti: e ha quindi cessato d'essere quella appassionante scena di azione e di lotta delle potenze, che la vecchia Turchia mal europeizzata fu fino alla conflagrazione mondiale.