ASEBIA (gr. ἀσέβεια "empietà")
Qualunque azione, volontaria o involontaria, che ecciti lo sdegno degli dei e reclami, perciò, la punizione degli uomini, affinché il diritto umano e sacrale, che quell'azione ha offeso, sia reintegrato e la collera divina sia placata. Per i Greci, che ebbero un sentimento religioso profondo, ancorché formale, perché non legato a precisi dogmi di ortodossia, e per i quali la religione era religione di stato, l'empio era fuori legge.
In Atene la giurisdizione religiosa faceva capo al Βασιλεύς, uno dei nove arconti, a cui spettava la suprema sorveglianza sulle cose del culto; al suo foro erano presentate per l'istruzione (ἀνάκρισις) le accuse contro chi si fosse macchiato di empietà; cioè, la γραϕὴ ἀσεβείας (azione pubblica di empietà) e la δίκη ϕόνου (azione privata per omicidio). Nell'età degli oratori giudicava un tribunale eliastico (v. eliea) e, solo per alcune particolari configurazioni di ἀσέβεια, l'Areopago. Sembra, poi, che cadesse sotto la competenza dei Tesmoteti e non del βασιλεύς il reato di ἱεροσυλία "saccheggio di tempio" per un'incoerenza legislativa che le fonti, su questo punto incerte, ci lasciano piuttosto congetturare che spiegare.
Numerosi e molto diversi fra loro sono i fatti nei quali l'accusatore poteva ravvisare il reato di empietà.
1. Anzitutto il non creder negli dei; sempre, tuttavia, che questo scetticismo in materia religiosa si manifestasse mediante un comportamento esteriore, giacché nella formula adoperata per definire un tal reato, οὐ νομίζειν τοὺς ϑεούς, il verbo νομίζειν non ha solo il valore di "aver fede in", ma anche, conforme all'uso arcaico del verbo, di "osservare il rito", come, p. es., far sacrifizî. Quest'aspetto dell'empietà non pare che urtasse il sentimento religioso delle masse, non avendo la religione greca un carattere dogmatico; fu piuttosto rilevato e accanitamente perseguitato per ragioni attinenti a un determinato indirizzo spirituale in una cerchia ristretta d'intellettuali, pensatori e politicanti. Ma che anche il non creder negli dei fosse empietà non può esser messo in dubbio, perché in primo luogo era dichiarato per legge: le fonti menzionano un decreto di Diopeithes (del 430 circa) contro coloro che non credevano negli dei e trattavano razionalmente delle cose celesti; in secondo luogo era riconosciuto dai tribunali; Meleto, infatti, ne fece un capo di accusa contro Socrate; in terzo luogo, infine, veniva teoricamente dimostrato: il decimo libro delle Leggi di Platone, che ha carattere teologico, tratta sistematicamente dell'argomento.
2. Introdurre divinità nuove contro il divieto dello stato. Di alcune divinità il culto era ufficiale, di altre tollerato, di altre vietato. Commetteva empietà chi, contro il divieto dello stato, avesse tributato culto religioso a una divinità forestiera. Questo è un punto molto discusso; la notizia conservataci da tardi scrittori (Giuseppe, Servio), secondo la quale era necessario un decreto del popolo che autorizzasse il culto di una nuova divinità, è accettata come degna di fede da alcuni, come il Foucart, lo Schmidt, il Decharme, rifiutata, riteniamo con ragione, da altri, per es. dal Lobeck, dallo Schömann, dal Lipsius, dal Caillemer.
3. Compiere atti contrarî al culto delle divinità riconosciute dallo stato, come rivelare i misteri eleusini o parodiarli (del primo reato, secondo una malsicura tradizione, fu accusato Eschilo, del secondo Alcibiade), violare i templi e le immagini sacre, sradicare gli ulivi sacri, disturbare le sacre cerimonie, ribellarsi all'autorità del sacerdote, ecc.
4. Esercitare pratiche di stregoneria.
5. Violare le leggi scritte o non scritte la cui trasgressione eccita lo sdegno degli dei; p. es., non seppellire i morti, congiungersi con i genitori. Rientrano in questa categoria alcuni reati gravissimi o per la loro natura (p. es., omicidio volontario), o per la persona contro cui sono commessi (p. es., usar violenza contro i genitori; tradire i concittadini).
Una così vasta concezione dell'ἀσέβεια, poiché le leggi con la γραϕὴ ἀσεβείας offrivano a ogni cittadino un mezzo di persecuzione giudiziale contro l'empio, consentiva d'integrare il sistema giuridico, riparandone le deficienze e le lacune. Potevano infatti esser configurati come "empietà" atti gravissimi contro i quali sarebbe mancata ogni altra sanzione positiva. Questo, se pur si prestava, come avvenne, alla persecuzione politica (ricordiamo i processi di Anassagora e di Socrate), forniva di sanzione la legge non scritta ritenuta più essenziale della scritta e più santa (v. bibl.). Inoltre, poiché contro l'omicidio, che anche dai Greci era sentito come il più grave dei delitti, non poteva esperirsi che un'azione privata (δίκη ϕόνου) da parte del più prossimo dei consanguinei, ogni altro concittadino poteva concorrere alla punizione dell'omicida, sia accusando di empietà il consanguineo che fosse inerte nell'esercizio del suo sacro dovere di accusatore, sia trascinando davanti al magistrato, perché lo mettesse a morte, l'omicida che fosse entrato in un tempio o nell'ἀγορά, o in altro luogo ritenuto sacro. Colui, infatti, il quale, per aver versato sangue umano, era divenuto empio, era escluso dal consorzio dei concittadini, che con la sua presenza veniva a contaminare.
Pena dell'ἀσέβεια era di regola la morte, sia che la stabilisse il legislatore, sia che, nel silenzio della legge, la irrogasse il giudice; talvolta anche l'esilio perpetuo (ἀειϕυγία) o una multa.
Bibl.: J. H. Lipsius, Das attische Recht, II, 1, Lipsia 1908, cap. 7°, pp. 358-368. I rapporti fra la legge non scritta e la γραϕὴ ἀσεβείας non sono ancora stati studiati sistematicamente; quanto è affermato nel testo risponde a una convinzione personale, non essendovi su questo punto testimonianze sicure. Sulla legge non scritta, si legga l'articolo, ricco di materiale, ma incompleto e poco conclusivo di R. Hirzel, "Αγραϕος νόμος, in Abhandl. sächs. Gesell. für Wissensch., XX, i, n. I (1900). Sulla posizione della γραϕὴ ἀσεβείας in diritto attico si consulti anche U. E. Paoli, Legge e giurisdizione in diritto attico, in Rivista di Diritto processuale civile, III (1925), ii, p. 105 segg.