GRAF, Arturo
Nacque ad Atene il 19 genn. 1848 da Adolfo, agiato commerciante tedesco di Norimberga, e da Serafina Bini, anconetana, il primo di fede luterana, la seconda cattolica. Né la diversità di credo religioso, né la differenza di lingua incrinarono mai l'unità della famiglia e l'atmosfera di rispetto, comprensione e cultura in cui crebbero il G. e il fratello Ottone, di lui maggiore di sei anni. Gravi conseguenze ebbe invece il dissesto dell'azienda commerciale del padre, costretto nel 1851 a trasferirsi con i suoi a Trieste dove, nel 1855, lo colse improvvisa la morte. Un anno dopo i Graf si trasferirono a Brăila, in Romania, presso un fratello della madre che aveva lì impiantato un'attività commerciale.
Libertà di vita e di studi compensarono la solitudine e la mancanza di comodità e di agi di questo primo soggiorno rumeno. Alle letture fatte attingendo ai circa cinquecento volumi conservati della biblioteca paterna si aggiunsero le lezioni di G.L. Frollo, che da privato precettore ebbe poi una brillante carriera di insegnante e studioso e non fu senza influsso sulle inclinazioni letterarie del G., precocemente manifestatesi nel volumetto di Poesie pubblicate nel 1861 a Brăila con lo pseudonimo di Filarete Franchi quattordicenne.
Nel 1863 la famiglia decise di fargli proseguire gli studi in Italia, e precisamente a Napoli, città a cui il G. rimase legatissimo e nella quale, accompagnato dalla madre, si recò in quello stesso anno, senza peraltro iscriversi a una scuola, manifestando quella predilezione per un apprendimento libero e autodisciplinato cui rimase fedele per tutta la vita. Conseguì la licenza liceale nel 1867 con esiti brillantissimi, soprattutto nelle discipline scientifiche, alle quali si dedicava con passione. La scelta universitaria non fu però né letteraria né scientifica, dal momento che il G. si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, da cui uscì nel 1870, laureato e destinato alla carriera di avvocato, abbandonata dopo tre mesi di pratica in uno studio legale.
Sul rifiuto quasi fisico del G. per l'avvocatura influirono anche le esperienze umane e intellettuali maturate negli anni napoletani, dal primo contatto con l'opera di A. Comte all'amicizia con Antonio Labriola, dalla conoscenza di M. Bakunin alla ripresa dell'attività letteraria, con l'abbozzo o la composizione di opere teatrali e la pubblicazione a Napoli nel 1867 di Cinque poesie. Il "sentimento d'orrore" che gli aveva ispirato il suo primo contatto con l'ambiente forense lo spinse, tuttavia, a staccarsi dall'amato mondo napoletano e a tornare alla solitudine di Brăila, per dedicarsi anch'egli all'attività commerciale della famiglia, accanto al fratello Ottone e con la speranza di potersi presto staccare da un lavoro che pure detestava.
Il suo animo era, infatti, sempre teso verso il ritorno in Italia, e Brăila era per lui sempre più come Recanati per G. Leopardi, alla cui condizione sembrò avvicinarlo anche una malattia degli occhi, e intorno alla filosofia del quale abbozzò un saggio di cui dava notizia al Labriola. Questi, destinatario di molti suoi sfoghi, gli dedicò nel 1873 il saggio Della libertà morale, dedica che il G. ricambiò l'anno successivo con il trattato Della qualità e parti della tragedia (Brăila 1874), cui seguì un volumetto di poesie (Versi, ibid. 1874), grazie al mecenatesco intervento di un giovane procuratore d'affari triestino, V. Mendl, che, insieme col fratello Ottone, gli fornì anche i denari necessari per il viaggio e lo aiutò, così, a uscire da Brăila. Il 4 nov. 1874 il G. partì infatti per l'Italia, questa volta con meta Roma e ben deciso a "tener fede a se stesso". A Roma ritrovò il Labriola, docente di filosofia morale all'Università, e conobbe R. Bonghi, A. Aleardi, S. e B. Spaventa, F. De Sanctis, G. Prati e altri.
Abbandonata ben presto l'idea di fondare con il Labriola un giornale, letterario o politico, il G., incoraggiato anche dalle nuove amicizie con E. Monaci, che nel 1872 aveva fondato la Rivista di filologia romanza, e con A. Messedaglia, puntò alla carriera universitaria, ottenendo nel 1875 alla Sapienza di Roma la libera docenza in letteratura italiana con una dissertazione sul Leopardi e, per titoli, quella in letterature neolatine. A questi titoli accademici fece seguito la pubblicazione di un volume Dell'epica neolatina primitiva (Torino 1876) e di un saggio Dell'epica francese nel Medioevo (Nuova Antologia, ottobre 1876), a cui si aggiunsero un saggio Delle origini del dramma moderno (in Rivista europea, ottobre-novembre 1876), uno su Amleto, indole del personaggio e del dramma (Nuova Antologia, marzo 1876) e un volume di Poesie e novelle (Roma 1876). Su queste basi, e grazie anche alle amicizie accademiche e politiche romane, il G. ebbe a Torino l'incarico per l'insegnamento della storia comparata delle letterature neolatine, a cui si aggiunse, quasi subito, quello di letteratura italiana. Iniziò così quella lunga carriera di insegnante a cui la sua figura è strettamente legata e alla quale egli si accinse con l'impegno e la consapevolezza attestati dalla serie di prolusioni e lezioni metodologiche del biennio 1876-77: Storia letteraria e comparazione (Torino 1876), Dello spirito poetico de' tempi nostri (ibid. 1877), Considerazioni intorno alla storia letteraria, a' suoi metodi e alle sue appartenenze (ibid. 1877), Di una trattazione scientifica della storia letteraria (ibid. 1877). Muovendosi tra Ch. Darwin e H.H. Steinthal, tra evoluzionismo e psicologia dei popoli, confrontandosi in modo non sempre esplicito con il modello desanctisiano, il G., che era dotato di "una coscienza problematica vigile e acuta" (Lucchini, p. 71) ma non aveva una vera preparazione linguistica e filologica, orientò i suoi interessi prevalentemente verso la storia letteraria.
Dare a questa un fondamento scientifico gli sembrava, infatti, il compito del momento, e indispensabile gli appariva il ricorrere all'aiuto delle scienze naturali e sociali, alla loro capacità di connettere il fenomenico al costante, l'individuo alla società, la psicologia individuale alla psicologia sociale. Anche nel regno della poesia, infatti, si trovano "la conseguenza e l'ordine" (Storia letteraria e comparazione), motivo per cui lo storico delle lettere deve affidare la sua valutazione non al gusto ma alla "spassionata considerazione scientifica", e soltanto dopo di questa al giudizio estetico: "ciò che più importa nella storia delle lettere si è, non già il sapere se il tale o il tal libro sia bello o non sia, ma bensì di sapere che cosa sia, come sia, perché sia" (Di una trattazione scientifica della storia letteraria). La letteratura, però, è in funzione delle altre energie sociali, mai funzione di nessuna: per cui "una letteratura ha propria esistenza anche fuori di queste cause che la determinano e la configurano" (Considerazioni intorno alla storia letteraria); tanto è vero che "l'opera letteraria non acquista la sua importanza, né la sua vera significazione, se non il giorno in cui diventa libro, ed esce dal dominio privato dell'autore per entrare nel dominio pubblico dei lettori", ricca di "più cose che l'autore non vi abbia messe con intenzione" e aperta nel tempo a un "perpetuo commento" (ibid.).
Malgrado l'apparente freddezza, frutto di un naturale riserbo e del costume di austerità scientifica proprio dell'Università torinese di quegli anni, il respiro europeo della sua cultura, i dichiarati interessi metodologici e la serietà del lavoro di scuola gli attirarono il consenso di colleghi e scolari. Alcuni di questi ricorderanno in particolare le "sabatine", i seminari del sabato alle 15, aperti al pubblico, imperniati sul contraddittorio fra uno studente che esponeva il suo lavoro e il pubblico, con il G. come moderatore, e in cui, accanto ai primi lavori critici, trovavano posto anche le produzioni poetiche degli allievi.
Un corso universitario è alle origini del capitolo degli Studi drammatici (Torino 1878) dedicato a Tre commedie italiane del Cinquecento, in cui già si delinea il gusto del G., tutto particolare e oltrepassante le esigenze didattiche, per una critica che racconti i testi esprimendo il giudizio nello svolgersi della narrazione, e si avvia quella lettura più ricca ed equanime del Cinquecento che si manifestò pienamente nei saggi di Attraverso il Cinquecento. Nel 1880 uscì a Torino Prometeo nella poesia (2ª ed., ibid. 1888), uno dei libri più significativi del G., soprattutto per la forte e appassionata difesa della poesia, del suo "compito sacro", di cui Prometeo, maestro agli uomini di arti e civiltà, è visto come alta e simbolica figura.
Il triennio 1880-82 fu contraddistinto da eventi diversamente importanti: la morte della madre, il 28 ag. 1880, che in qualche modo segnò la fine della giovinezza; la pubblicazione, a Torino presso Loescher, di Medusa (60 poesie nel 1880, 109 nel 1881), che aprì la vera carriera del G. poeta, dopo i versi giovanili; l'affermazione non senza contrasti nel concorso per la cattedra di letteratura italiana all'Università di Torino (1882); la pubblicazione di Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo (I-II, ibid. 1882-83); la fondazione, con R. Renier e F. Novati, del Giornale storico della letteratura italiana.
A Torino era da anni attivo H. Loescher, editore che già aveva "grandi benemerenze nel fornire strumenti disponibili di alto livello al nuovo assetto della ricerca e degli studi nel campo della filologia e della linguistica" (M. Raicich, Di grammatica in retorica, Roma 1998, p. 228), come attestavano la Rivista di filologia e di istruzione classica (1872) e l'Archivio glottologico italiano (1873). Nel 1882 il G., "consigliere letterario di Loescher, aveva ricevuto da lui l'invito ad assumere la direzione di una rivista di storia della letteratura; e ne aveva subito parlato al suo scolaro Renier, di cui conosceva la tenacia e la capacità organizzativa, e che stava per essere chiamato a Torino con l'incarico di storia comparata delle letterature neolatine (lasciata vacante dallo stesso Graf che passava a insegnare letteratura italiana)" (Berengo, p. 10). L'occasione fu colta al volo dal Renier che, insieme con Novati, S. Morpurgo e A. Zenatti, aveva appunto in animo di fondare una rivista il cui progetto era stato respinto dalla Le Monnier: in seguito al serrato dibattito che seguì, Morpurgo e Zenatti si separarono dagli altri, che diedero così vita a quello che dal 1883 fu il Giornale storico della letteratura italiana, a cui il G. collaborò per sette anni, pur essendo "ben lontano dall'identificarsi in esso e dal considerare un punto d'arrivo il metodo e gli interessi di ricerca delimitati dalla rivista" (Barbarisi, p. 179). Quanto ai volumi del G. su Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, essi furono "il primo dei grandi pegni ch'egli doveva dare alla causa comune della ricerca scientifica" (Benedetto, p. 23).
Frutto di estese ricerche in biblioteche italiane e straniere, mosso dall'attrazione per una "età inquieta e fantastica" e per il mondo delle leggende in cui spesso si consolida parte dello spirito dei tempi, tanto che la leggenda diviene allora "una forza che interferisce e si compone con l'altre forze ond'è promosso e guidato il corso della storia" (p. X), il libro ricostruiva il mito di Roma nell'età medievale, guardando con occhio equilibrato sia alla tradizione letteraria sia a quella popolare.
Al centro dell'opera erano i rapporti fra Roma e la Chiesa e l'idea di Impero, che costituì come un ponte fra due mondi e un baluardo, il cui crollo avrebbe segnato l'arrivo dell'Anticristo. Non a caso il libro si chiudeva avendo in appendice uno studio su Gog e Magog, le schiere del male che premono alle frontiere delle popolazioni cristiane. Ma il lavoro è pieno di racconti sulle rovine di Roma, sui suoi monumenti, sui suoi tesori, sulle biografie leggendarie di imperatori e poeti: davvero, come ebbe a scrivere D. Comparetti nella seconda edizione del suo Virgilio nel Medioevo (Firenze 1896, p. 220 n.), "il fascino che Roma esercitò sulle menti e le fantasie medievali da niuno fu così largamente e vivamente narrato e descritto come da Arturo Graf".
L'intenso lavoro di quegli anni, e in particolare le ricerche per il libro su Roma, lasciarono il G. "estenuato", come scriveva a V. Mendl il 16 apr. 1883, psicologicamente e fisicamente non disposto a intraprendere altri studi di grande respiro. Così, negli anni successivi la sua attività, a parte l'insegnamento, si dispiegò in conferenze e saggi sulla Nuova Antologia, sul Fanfulla della domenica, sulla Domenica del Fracassa, oltre che sul Giornale storico. Nel 1888 vide la luce il volume Attraverso il Cinquecento (Torino), che raccoglieva contributi già pubblicati in rivista, in parte già passati al vaglio delle lezioni universitarie, e in cui si guardava soprattutto al rapporto dei fenomeni letterari con la società, con la psicologia individuale e con la psicologia sociale, come si può, per esempio, vedere negli studi Petrarchismo e antipetrarchismo e Un processo a Pietro Aretino, basati, come gli altri del resto, su una quantità e varietà sorprendente di letture.
Nello stesso 1888 il G. divenne socio della R. Accademia delle scienze di Torino, ai cui Atti (XXIV [1888-89]) affidò lo scritto Questioni di critica, che si accompagnava alla prolusione La crisi letteraria. Nei due saggi il G. continuava a muoversi, "unico fra i rappresentanti della scuola storica, con indubbia intelligenza e superiore conoscenza della cultura filosofica del tempo, fra le questioni di metodo" (Lucchini, p. 82): così, in Questioni di critica, partendo dall'analisi del libro di E. Hennequin, La critique scientifique (1888), e prendendo le distanze dalle teorie di H. Taine, tentava di individuare un metodo di critica che consentisse di guardare all'opera d'arte sia nel suo aspetto di "formazione estetica", sia in quello di "individuo di una specie morfologica variabile". Anche se la contraddizione non era sanabile, il discorso del critico si articolava in una serie di suggerimenti ancor oggi suggestivi.
Il tema dei rapporti dell'opera d'arte con l'ambiente acquistava accenti di quasi drammatica attualità, che investivano la società e l'arte contemporanee, nella prolusione letta il 3 novembre all'Università. Alle origini della crisi letteraria è il trionfo della democrazia che "introdusse nel mondo nuovi spiriti e nuovi costumi, e mutò così, di sana pianta, non solo le condizioni morali, ma ancora le condizioni materiali della letteratura". Nuovi soggetti per le opere d'arte e nuove condizioni di vita per gli artisti, sempre più legati al pubblico che acquista le loro opere, sono tra le conseguenze di quel principio di variabilità che il G., sulla scorta delle riflessioni dell'economista inglese W. Bagehot, vede favorito dalla democrazia, così come il dispotismo è invece favorevole al principio di stabilità. Contro la letteratura condizionata dallo spirito della democrazia si leva in Francia un moto di reazione, che proclama "che l'arte è essenzialmente e necessariamente aristocratica e il divorzio tra l'artista e il pubblico assoluto e irreparabile", mentre i simbolisti "affermano che la poesia deve avere un senso recondito, anzi più sensi reconditi, nascosti l'un dietro l'altro, e che solo gl'iniziati sono in grado di scoprire e d'intendere". La speranza per il futuro è affidata dal G. ancora alla scienza, forza più grande della stessa democrazia, "più trasformatrice di lei, che a lei stessa dà legge", e al suo strumento, l'analisi.
Nel 1889 pubblicò con Treves a Milano Il diavolo, dedicato a E. De Amicis, un "libro popolare", che difatti giunse nel 1890 alla quarta ristampa, un libro "che si potesse leggere senza fatica, ma forse non senza qualche gusto, da chiunque non faccia profession d'erudito". In realtà il libro si fondava proprio sulla profonda conoscenza che il G. aveva della letteratura e delle fonti medievali, che gli consentiva di seguire la storia del diavolo dall'origine alla fine, passando per la descrizione del suo aspetto e della sua dimora, delle sue vittorie e delle sue sconfitte, delle burle fatte e di quelle subite, fino alla sconfitta definitiva a opera della scienza. All'anno successivo vanno ascritte l'edizione definitiva di Medusa (Torino 1890) e la nuova raccolta di versi Dopo il tramonto (Milano 1890), nonché le dimissioni dalla direzione del Giornale storico, seguite poco dopo dalla pubblicazione di un'altra grande opera critica, frutto di ricerche estese e originali, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo (I-II, Torino 1892-93), in parte raccolta di saggi già pubblicati.
Il libro si apre con uno degli scritti più meditati e più belli del G., Il mito del Paradiso terrestre, a cui si accompagnano altri undici saggi, che coinvolgono il gran mondo delle tradizioni leggendarie medievali intorno a personaggi come Silvestro II, Celestino V o Michele Scoto, o a temi più generali come il riposo dei dannati e la credenza nella fatalità. Né il G. trascura, quando il discorso lo consente, di precisare un giudizio letterario, come nel caso dei due felici saggi su G. Boccaccio.
È questo il periodo anche della discussa e problematica adesione al socialismo, di cui il G. ebbe una visione abbastanza vicina a quella che egli definiva di "socialismo senza odio" del De Amicis, "il meno catastrofico e il più riformista dei socialisti", a casa del quale spese molte sere per tradurgli i testi del marxismo (Come fu socialista E. De Amicis?, in Nuova Antologia, 1º apr. 1908). Certo, a differenza anche del De Amicis, più impegnato di lui sul piano della propaganda e dell'attivismo, il G. non uscì mai da un ruolo di testimone critico, rifiutando il materialismo, difendendo i diritti storici della borghesia (Critica sociale, 1° gennaio e 1° febbr. 1892), interpretando il socialismo come cooperazione (A proposito di lotta, di libertà, ecc., ibid., 1° luglio 1893), anche se, in un secondo momento, partecipando alle attività della Società di cultura e della rivista Il Campo, non mancò di appoggiare iniziative culturali animate da suoi allievi vicini in vario modo al socialismo, come G. Balsamo Crivelli, G. Cena, Z. Zini.
Ad allontanarlo da un certo tipo di ricerche concorsero peraltro anche alcuni avvenimenti come la nomina a rettore dell'Università di Torino, carica che tenne dal 25 ott. 1892 al 15 ott. 1894, il matrimonio, celebrato il 14 dic. 1893, con Sofia Rauchenegger, vedova di H. Loescher, e il suicidio del fratello Ottone nel luglio 1894, che ebbe anche pesanti ripercussioni di carattere economico e personale. A ogni modo gli eventi esterni non gli impedirono di produrre una serie di interventi che, se ricordano quelli dell'inizio dell'insegnamento, hanno un giro d'orizzonte più ampio di quello disciplinare, mossi sì dalla "necessità di tornare a verificare i presupposti scientifici e politici della sua formazione" (Guglielminetti, p. 9), ma motivati anche da un malessere più profondo, spia dell'esistenza di "un nesso tra il mal du siècle e l'ascesi professionale: una crisi morale e si dica pure esistenziale è al fondo di quel disperato accertamento della realtà storica che fu il positivismo nell'ambito delle […] scienze umane" (Contini, p. 372). Andiamo così dalla Letteratura dell'avvenire (in Nuova Antologia, 16 giugno 1891) a La bancarotta della scienza (in L'Illustrazione italiana, 24 maggio 1895), da Preraffaelliti, simbolisti ed esteti (in Nuova Antologia, 1° e 16 genn. 1897) a Per la nostra cultura (ibid., 1° marzo 1898), da Sofismi di Leone Tolstoi in fatto d'arte e di critica (ibid., 16 sett. 1899) a La scioperataggine letteraria in Italia (ibid., 16 apr. 1901). Vi si accentuava l'interesse del G. per le implicazioni sociali dei fenomeni letterari e culturali, come mostrano le ferme e ragionevoli pagine sulla scuola in Per la nostra cultura o, in La scioperataggine letteraria in Italia e - sulla scia di G. Pecchio - quelle intorno ai rapporti delle opere dell'ingegno con la legge della domanda e dell'offerta. Acquistava poi sempre più peso, alimentata anche dal dibattito provocato dalle tesi di F.-V. Brunetière sulla "bancarotta della scienza" e la "rinascita dell'idealismo", la riflessione del G. intorno al valore e al limite della scienza, "rea di essere solo la verità e non la felicità, di essere per giunta una verità incompleta, di non spiegare il mistero" (Benedetto, p. 23).
I saggi su La letteratura dell'avvenire e Preraffaelliti, simbolisti ed esteti apparvero anche in appendice al volume, edito a Torino, che nel 1898 raccolse gli studi su Foscolo, Manzoni, Leopardi, importanti per più aspetti, in particolare quelli relativi agli ultimi due.
La conoscenza profonda dell'opera leopardiana consente al G. di liberare il suo giudizio in una serie di valutazioni importanti su Leopardi e la musica, sul suo particolare senso del paesaggio, sulla funzione della memoria delle idee e della memoria dei sentimenti, sul valore della sua filosofia e di opere come La ginestra, "quel supremo e terribil canto, dove, quasi insiem con la vita, il poeta esala il suo finale pensiero, e grida il verbo funereo in che tutta s'assomma e si ristringe la sua filosofia". In qualche modo più libere finiscono per essere le pagine sul Manzoni, sia quelle sulla conversione dell'Innominato e sulla figura di don Abbondio, sia quelle sul Manzoni e il romanticismo, in cui risultano particolarmente felici le osservazioni sulla ragione del Manzoni nei rapporti con il sentimento e la fantasia, quelle sul suo senso storico, quelle, infine, sul vero morale che è il fondamento della sua arte.
Parallelamente a quella saggistica si intensificò la produzione letteraria del G., dalle raccolte poetiche Le Danaidi (Torino 1897) e Morgana (Milano 1901) al romanzo Il riscatto, pubblicato prima sulla Nuova Antologia nel 1900, poi in volume, a Milano nel 1901, che apriva significativamente per il G. il nuovo secolo, e che, nella forma narrativa così congeniale al G. saggista, è un'opera di pacificazione, se non della ragione, dell'animo.
Il protagonista del romanzo, Aurelio, scopre che il suo vero padre, il marchese Alfredo Agolanti, appartenente a una nobile famiglia in cui il suicidio ricompare periodicamente - destino da cui egli stesso non si libererà - lo ha affidato all'amico conte Ranieri per sottrarlo a quella infelice sorte. La sana educazione del giovane, basata sul contatto con la natura e sull'esercizio della volontà e della ragione, sembra in un primo tempo offrirgli gli strumenti per resistere al male ereditario: quando sarà invece per cedere, riceverà dall'amore di una giovane americana, Viviana Sinclair, la forza di vincere, almeno temporaneamente, il suo tragico destino. La forma narrativa scelta dal G. è quella memorialistica, con l'inserzione di passi di un diario di viaggio e di alcune lettere, cosa che contribuisce a dare al libro il suo caratteristico andamento raziocinante. Né, d'altra parte, ci si può sottrarre alla tentazione di vedere nella liberazione del protagonista dal determinismo delle leggi di ereditarietà anche la metafora della liberazione del G. stesso dal condizionamento psicologico ed etico di un troppo rigido positivismo.
Nel 1903 una Miscellanea di studi critici (Bergamo), ricca di 43 contributi e di quasi quattrocento sottoscrittori, con molti dei più bei nomi della cultura letteraria europea, celebrò nel G. il "lucido intelletto di critico", la "pensosa anima di poeta", il "maestro sapiente geniale ed alto". Era il riconoscimento formale di quel che avrebbe sottolineato, molti anni dopo, uno studente entrato nell'Università di Torino nel 1904: "Grazie a lui, grazie anche a R. Renier […] la Facoltà torinese si era venuta rinnovando, si era venuta vieppiù investendo del sacro compito allora spettante a una facoltà letteraria: affermare colle opere e preparare coll'insegnamento una più austera coscienza filologica e storica" (Benedetto, p. 23). E di ciò è prova anche la nutrita schiera di critici formatisi alla scuola del G., da V. Cian a F. Neri, da C. Calcaterra ad A. Momigliano, per citarne solo alcuni.
Tra il 1905 e il 1906 videro la luce, oltre alle seconde edizioni di Le Danaidi (Torino 1905) e di Morgana (Milano 1905), i Poemetti drammatici (ibid. 1905), le Rime della selva. Canzoniere minimo e semitragico (ibid. 1906), il saggio Per una fede (in Nuova Antologia, 1° giugno 1905, poi in volume, Milano 1906), il discorso L'università futura, letto il 27 ott. 1906 all'Università di Torino, in occasione del quinto centenario dalla fondazione.
Il discorso, nel delineare i compiti dell'università, prospetta un ideale conciliativo tra scienze naturali e scienze storiche e sociali e rivendica il posto della personalità nei confronti dell'idolatria della natura ("Dichiararsi nullo dinanzi a un altare, o dichiararsi nullo dinanzi a una tavola di laboratorio, dov'è propriamente la differenza?") e della stessa università che non "deve pretendere di uniformare il carattere, di pareggiare le attitudini, di predeterminare l'opera di quanti la frequentano. Non è buon maestro quello che tutti i discepoli vuole ad immagine propria".
Il saggio Per una fede è, dal punto di vista del G., un atto di onestà e responsabilità intellettuali. Presentando la ristampa del 1906 (Milano) in volume dichiarava: "Penso che chiunque creda d'avere fatto un passo verso la verità, sia in dovere di darne notizia a quanti più può". Alla parte negativa del saggio, la condanna del materialismo e del determinismo, si aggiungeva una parte positiva, il riconoscimento dell'esistenza di un ente supremo, di un'anima immortale, di una volontà libera, elementi che, soli, danno senso alla cooperazione con il bene nella sua continua lotta con il male. C'erano, poi, nel saggio del G. e nelle Giustificazioni e commenti che accompagnarono la ristampa in volume, elementi che spiegano le simpatie con cui l'intervento venne accolto negli ambienti modernisti. "Un cristianesimo purificato e ringiovanito", scriveva il G., "potrebbe ancora molto giovare agli uomini. Se ciò non farà, bisognerà darne colpa, non tanto a coloro che credono di combatterlo, quanto a coloro che credono di difenderlo". E però a P. Sabatier chiariva quanto già aveva espresso ai cattolici che esultavano per la sua "conversione": "Io non posso essere modernista, perché sono del tutto fuori del grembo di Santa Madre Chiesa, e avrei anche più di una obbiezione da fare al modernismo. Ma nutro vivissima simpatia per i suoi compagni e credo che essi stiano facendo moltissimo bene". Nel volume del 1906, il G. aveva accolto anche la recensione a Il santo di A. Fogazzaro, dove si alternavano consensi e riserve sia sui contenuti sia sui risultati artistici, e che si concludeva con uno slancio di fiducia verso le nuove generazioni, che meglio sentivano, a suo avviso, "il bisogno di un rinnovamento morale".
Dedicato ai giovani, "ai miei discepoli antichi nuovi nuovissimi" come dice la dedica, "ad alcuni giovanissimi" come si intitola la prefazione, fu anche Ecce homo. Aforismi e parabole (Milano 1908), la cui prefazione è un po' la summa dei motivi di disagio del G. di fronte alla "tristezza di questa nostra civiltà cupa e feroce".
Con le Rime della selva si concludeva l'itinerario poetico del G. che, ripercorso da questo punto di arrivo, appare parallelo al suo itinerario umano, dalla ribellione prometeica contro il mistero della vita e della morte (Medusa, Dopo il tramonto), attraverso l'intermezzo di motivi e di forme di Le Danaidi, alla rassegnata e ironica accettazione del proprio insignificante ruolo nella natura e nella storia (Morgana, Rime della selva). E con il mutare del paesaggio interiore si modificava, da drammatica a malinconica, anche quella rappresentazione della natura che è, sia pure a tratti, una delle novità della poesia del G., in cui la critica ha anche registrato una sostanziale estraneità all'esperienza della triade Carducci-Pascoli-D'Annunzio, oltre che per scelte poetiche, per un sovrapposto risentimento morale che investe la politica accademica del primo, le ambiguità del secondo, l'immoralità del terzo. Così i punti di riferimento individuati dalla critica nelle varie raccolte oscillano dai romantici tedeschi a Leopardi, da Baudelaire ai parnassiani, agli scapigliati, con incerte aperture al simbolismo e una presa di distanza dall'estetismo, non per "una nostalgia di classicismo, un senso di misura e di decoro formale", ma per "un'accentuata inclinazione etica, quale si esprime anche nell'ininterrotta frequentazione di Leopardi" (Cusatelli, p. 775). Gli strumenti adoperati dal poeta vanno dall'uso, e abuso, di immagini simbolo e visioni mitologiche, come si evince dai titoli stessi delle raccolte, all'adozione di un linguaggio poetico non definito in un'unica direzione di ricerca ma giocato sui registri più vari, a un'attenzione alla metrica e alla rima che molti critici hanno finito per giudicare l'elemento più idoneo a caratterizzare il senso della sua poesia, individuando, per esempio, nella "conservazione metrica […] il contrappeso strutturale della mobilità e metamorfosi del reale" (Lonardi, p. 20), non priva, tuttavia, di potenziali aperture.
Come si vede nelle Rime della selva, in cui il poeta non interviene soltanto sulla scelta degli argomenti e dei vocaboli, ma "tenta di trasformare le cadenze stesse poetiche con la varietà degli spostamenti degli accenti proprio nel tipo di verso più monotonamente popolare, l'ottonario; in tal modo non solo la lingua diventa più colloquiale e intimistica ma anche il metro diventa l'espressione di un ragionare pacatamente amaro tutto infiltrato di ironie e di autoironie, non più alla ricerca di un consenso ammirato bensì alla ricerca di una comunicazione di uno stato d'animo perplesso amaro e rancoroso che non esclude però quelle nostalgie di un ideale positivo di vita che trova espressione nel famoso articolo della Nuova Antologia, Per una fede" (Montanari, p. 307). È questo il G. che apre la strada a G. Gozzano e ai crepuscolari, non ultimo esempio della sua capacità di parlare alle nuove generazioni anche nel campo della poesia, come già era avvenuto, per esempio, per G. Cena, F. Pastonchi, Bertacchi e altri. E come avveniva per G. Prezzolini e G. Papini, con i quali si stabilì un rapporto di reciproca stima e simpatia, ai tempi del Leonardo e della prima Voce.
Nel 1911 apparve L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel secolo XVIII (Torino), "un'opera magistrale" (M. Praz), quasi impossibile da riassumere per il suo carattere di sterminata conversazione, una di quelle erudite e piacevoli conversazioni a cui tanto deve la circolazione della cultura nel secolo XVIII, e che attraversa la vita culturale delle due nazioni, dalle accademie alla cucina, dalla filosofia alla moda, dalla stampa all'educazione, con aderenza sempre viva alle personalità chiamate a testimoni.
Un commiato dal mondo degli studi finì per essere il saggio Di alcuni giudizi di F. De Sanctis ed altri concernenti il Decamerone, apparso postumo nel 1913 nel numero speciale della Miscellanea storica della Valdelsa dedicato al Boccaccio, lucida testimonianza, tra l'altro, del ruolo che il G. sentiva di aver svolto nel campo degli studi di storia letteraria.
Dopo aver mostrato come il giudizio del De Sanctis sul Boccaccio risentisse della sua insufficiente conoscenza del Medio Evo, il G. concludeva: "I pappagalli della critica e dell'estetica, che si sono fatti in Italia un grande e petulantissimo stuolo, si scandalizzeranno di quanto ho scritto. A lor posta. Fui ammiratore del De Sanctis prima ch'essi nascessero, e quando tra gli osservanti del metodo storico era nullo il suo credito e ammiratore mi serbo. Ma non idolatra. Senza troppo vergognarmi, mi lascerò mettere tra quei ripetitori di spropositi che nella Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis non sanno vedere una vera e propria storia della letteratura italiana, ma piuttosto un discorso, o una serie di discorsi, su quella storia. E, titolo a parte, tale doveva pur essere, o non molto diversa da tale, in sostanza, la opinione dello stesso De Sanctis, s'ei pensò, e disse, che non era possibile, allora, scrivere una storia della letteratura italiana". E questa era anche una parziale risposta al giudizio limitativo che intorno alla sua attività di critico e di poeta B. Croce aveva espresso sulle pagine della Critica nel 1905, e che tanto lo aveva amareggiato. Da questo giudizio, e da quello ancora più netto espresso nella Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, la critica degli ultimi anni ha progressivamente preso le distanze, offrendoci un ritratto del G. che, sia pure non compiuto, meglio delinea la sua importanza storica di critico e di poeta e il valore innovativo di alcune sue proposte di metodo e di ricerca.
Malato di cuore da alcuni anni, il G. morì a Torino nella notte fra il 30 e il 31 maggio 1913.
Edizioni recenti di opere del G.: Il diavolo, prefaz. di L. Firpo, a cura di C. Perrone, Roma 1980, importante per il reperimento delle fonti adoperate dal G.; Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, a cura di G. Bonfanti, Milano 1984, e a cura di F. Cardini, Pordenone 1993; Il riscatto, a cura di A.M. Cavalli Pasini, Bologna 1988; Storia letteraria e comparazione, a cura di E. Ajello, Roma 1993; Positivismo e letteratura, a cura di G. de Liguori, Bari 1996.
Fonti e Bibl.: Per notizie e approfondimenti sulla vita, sul pensiero e l'opera del G. si veda: A. Defferrari, A. G. La vita e l'opera letteraria, Milano 1930; G. de Liguori, I baratri della ragione. A. G. e la cultura del secondo Ottocento, Manduria 1986, ampio studio che, raccogliendo e integrando studi precedenti, punta a una rivalutazione complessiva del G. e della sua cultura; A. Graf, Lettere a V. Cian, a cura di C. Allasia, Firenze 1996, edizione arricchita di due attente bibliografie degli scritti di e sul G. e nella cui ampia introduzione si trovano notizie anche sui carteggi e sulla biblioteca del G., che si trova nella Biblioteca della Facoltà di lettere dell'Università di Torino; A. G. militante. Saggi scelti, a cura di C. Allasia, introduz. di M. Guglielminetti, Torino 1998, volume di grande utilità per interpretazione, testi e commento, nonché per i riscontri dei libri citati dal G. nei saggi con le opere presenti nella sua biblioteca. Rimandando ai volumi sopra citati per il quadro analitico della produzione di e sul G., forniamo qui gli estremi bibliografici delle opere citate nel testo, con qualche minima integrazione: la vita, dalla nascita al novembre 1876, è narrata dallo stesso G. in Infanzia e giovinezza di illustri contemporanei. Mem. autobiografiche di letterati, artisti…, raccolte e corredate di note biografiche a cura di O. Roux, II, Firenze 1909, pp. 85-123, ora anche in appendice ad A. Graf, Medusa, a cura di A. Dolfi, Modena 1990, pp. 223-238; le lettere a V. Mendl sono pubblicate in Lettere a un amico triestino, a cura di B. Ziliotto, Trieste 1951; inoltre, sul G. studioso di letterature romanze, G. Lucchini, Le origini della scuola storica. Storia letteraria e filologia in Italia (1866-1883), Bologna 1990, pp. 68-82 passim; M. Berengo, Le origini del "Giornale storico della letteratura italiana", in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, II, Padova 1970, pp. 3-25; sulla partecipazione del G. alla vita del Giornale storico si veda G. Barbarisi, La parte del G. nella fondazione e nella prima direzione del "Giornale storico", in Cent'anni di Giornale storico della letteratura italiana. Atti del Convegno, … 1983, Torino 1985, pp. 158-187; G. Contini, Memoria di A. Monteverdi, in Id., Altri esercizi (1942-1971), Torino 1972, pp. 369-386; L. Bedeschi, in Fonti e documenti, 1979, n. 8, pp. 165-167; G. Cusatelli, La poesia dagli scapigliati ai decadenti, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi - N. Sapegno, VIII, Milano 1968, pp. 773-777; G. Lonardi, G. Il lavoro perduto. La rima, Padova 1971; F. Montanari, Gli ottonari di G., in Atti del Convegno Piemonte e letteratura nel '900, San Salvatore Monferrato 1980, pp. 307-312; L.F. Benedetto, Ai tempi del metodo storico, in Uomini e tempi. Pagine varie di critica e storia, Milano-Napoli 1953, pp. 21-38, a cui vanno affiancati, per la ricostruz. dell'ambiente storico e dell'atmosfera spirituale dell'Università torinese, C. Calcaterra, Poeti all'ombra di Medusa, in Con G. Gozzano e altri poeti, Bologna 1944, pp. 3-8; A. Momigliano, G. critico, in Ultimi studi, Firenze 1954, pp. 123-127; G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze 1970, pp. 95-102; C. Dionisotti, Letteratura e storia nell'Università di Torino fra Otto e Novecento, in Piemonte e letteratura nel '900, cit., ora in Id., Ricordi della scuola italiana, Roma 1998, pp. 380-400. Per gli interventi di Croce si veda: B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, II, Bari 1960, pp. 210-219, e Id., Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 1932, pp. 90 s. Una interessante rilettura della poesia del G. alla luce del mito di Medusa propone A.S. Defendi, A. G.'s Medusa: toward demystification of myth, in Italica, LXXVII (2000), 1, pp. 26-44.