DE JOHANNIS (Jéhan De Johannis), Arturo
Nacque a Venezia il 22 nov. 1846, da Massimiliano e Marianna Michielini, in una nobile famiglia avignonese trapiantatasi in Italia al seguito di Napoleone (Jéhan è parte del cognome, ma il D. preferì trasformarlo in un secondo nome di battesimo firmandosi con la sola iniziale J.). Mortogli il padre nel 1865, e date le non floride condizioni della famiglia, di cui era divenuto il capo, fu costretto a interrompere gli studi, trovando un impiego alle Poste di Venezia, che tenne fino al 1875.
Continuò tuttavia a studiare per conto proprio, coltivando insieme con gli interessi per le scienze sociali ed economiche quelli per le scienze fisiche e naturali, anche per impulso dell'amico astronomo E. Millosevich. Fin dagli anni giovanili abbracciò con entusiasmo il credo positivista, nei suoi due aspetti caratteristici di scientismo e di minuziosa osservazione empirica.
Diventato segretario capo del Comune di Chioggia il 22 luglio 1875, il D. fu coinvolto nella sommossa popolare del 23 marzo 1879 - originata dal pericolo di interramento del porto a causa della deviazione del Brenta a ovest della città, ma anche dalle misure fiscali prese dalla giunta comunale, per opera del D., contro i pescatori - e dovette fuggire nottetempo a Venezia. L'11 ott. 1879 rinunciava definitivamente al posto. Ripresi e completati gli studi universitari conseguendo la laurea in legge a Padova nel medesimo anno, iniziò una nuova carriera come insegnante di scuola secondaria, assumendo nel 1879 l'incarico di economia politica all'istituto tecnico di Mantova e avendo come collega R. Ardigò. Suo predecessore in quella scuola era stato S. Cognetti de Martiis, l'economista pugliese con il quale il D. presenta più di una somiglianza tanto nell'indirizzo scientifico quanto nella posizione politica.
Il suo primo studio di respiro teorico è Discussioni economiche. Note critiche e saggi di studio sopra alcuni principî di economia politica (Verona 1881), dedicato a L. Luzzatti.
Il principale elemento distintivo fra leggi fisiche e leggi economiche sta nel fatto che "la natura impiega sempre una quantità di forza maggiore di quanto è necessario per ottenere il suo scopo", mentre "la legge di economia consiste nel risparmiare... su questa quantità esuberante o eccedente di forza e nel ridurre l'applicazione della forza diretta a uno scopo al "minimo spreco" possibile" (p. 37). La trattazione del valore è nel solco dell'ortodossia ricardiana. Così il D. afferma che "nessuna cosa può essere permutata quando intorno ad essa non sia stato impiegato lavoro" (p. 114), ma non applica la teoria del valore-lavoro alla moneta, in quanto bisogna considerare anche il "rapporto fra la quantità di moneta esistente e il numero degli scambi a cui serve la moneta stessa" (p. 252), aderendo alla teoria quantitativa. Per le definizioni di consumo, di ricchezza, di capitale il D. è invece tributario di Lampertico, Boccardo, MacLeod, Stein e di altri autori più o meno permeati di storicismo.
Nel successivo studio Analisi psicologica ed economica del valore (Venezia 1883), il D. mostra maggiore apertura verso il marginalismo, che cominciava a diffondersi anche in Italia.
Come determinanti del valore egli pone la "soddisfazione che ciascuna delle parti contraenti ricava dalla merce che riceve" accanto al "costo che ha ciascuna delle parti intorno alla merce che cede" (p. 15).
Perché sorga il fenomeno del valore ci vogliono due persone e due beni che soddisfino due bisogni; non basta l'apprezzamento, ci vuole lo scambio. Prima dello scambio il valore è soltanto presunto; in seguito allo scambio esso diventa effettivo. La ricerca di una definizione del valore in cui siano presenti tanto l'elemento soggettivo quanto quello oggettivo porta il D. a una critica, spesso efficace, delle teorie del valore allora correnti: quella classica, accusata di innescare un processo ad infinitum per cui un valore si spiega con altri valori (cfr. p. 31); quella ferrariana del "costo di riproduzione", che per il D. è costretta a rinviare suo malgrado al costo di produzione; e quella, meno nota, della "limitazione", dovuta al Nazzani, e consistente in una generalizzazione della teoria della rendita, che trascura totalmente l'elemento psicologico. Quando però si tratta di costruire una teoria propria il D. - pur non mancando di interessanti intuizioni sulla "dinamica dello scambio" - non riesce ad andare oltre la fase classificatoria.
Mentre non riprese più in seguito la trattazione delle categorie economiche, il D. proseguì nei suoi interventi sul piano epistemologico, scrivendo sull'organo ufficiale del positivismo filosofico, la Rivista di filosofia scientifica di E. Morselli. Un materialismo piuttosto ingenuo è alla base delle considerazioni esposte nel saggio Sull'universalità e preminenza dei fenomeni economici (ibid., II [1882], 3), in cui il "fatto economico fondamentale" viene fatto coincidere con la funzione nutritiva. Tuttavia, seppur convinto dell'importanza dell'"ambiente" sui comportamenti economici, il D. difese sempre nei confronti degli economisti di ispirazione cristiana o socialista la distinzione fra legge morale e legge economica e il carattere di necessità delle leggi economiche, che egli considerava alla stessa stregua delle leggi fisiche.
In questo senso polemizzò contro Emile de Laveleye nel saggio Le leggi naturali e i fenomeni economici (in Riv. difil. scient., III [1883], 2, p. 16), mentre, per sostenere il parallelismo fra leggi naturali e leggi economiche, si soffermò sul carattere "congetturale" delle leggi fisiche nel saggio Leggi fisiche e leggi sociali (ibid., XI [1891], 1, p. 23). Allo stesso modo criticò A. Loria, accusandolo di essere un darwinista a metà, in quanto il principio della lotta per l'esistenza avrebbe lasciato il campo - così il D. interpretava il Loria - a una mitica età dell'oro (cfr. Evoluzione e socialismo, in Rass. di scienze soc. e pol., II [1884], 39, pp. 130-40). In generale, il D. insorse sempre contro quelle che riteneva degenerazioni "metafisiche" del positivismo. Stroncò il libro di A. Puviani, Del sistema economico borghese in rapporto alla civiltà, definendolo "un romanzo di Verne a cui sia tolto l'aneddoto" (in L'Economista, 6 maggio 1883, p. 277); e, a proposito di Socialismo e criminalità di E. Ferri, scrisse che "il pericolo maggiore a cui sia esposto il positivista è quello di fare della metafisica positiva" (Gli effetti delle idee socialistiche, ibid., 2 sett. 1883, p. 549). Quando però il rappresentante della scuola ferrariana Tullio Martello attaccò le applicazioni del darwinismo allo studio della società, il D. si affrettò a difenderle (cfr. Punto di vista: a proposito dell'Economia politica in opposizione alla teoria generale dell'evoluzione, in Giorn. degli econ., II [1891], pp. 235-48).
Nel gennaio 1883 il D. si trasferì, anche per ragioni di salute, a Firenze, dove entrò nella redazione dell'Economista, divenendone direttore-proprietario nel 1898. Nel novembre 1883 divenne altresì docente di statistica all'istituto superiore di scienze sociali "C. Alfieri", assumendo nel 1890, alla morte del titolare C. Fontanelli, la cattedra di economia e la direzione dell'istituto, e conservando quest'ultima fino al 1908. Da Firenze non si mosse più, rifiutando nel 1884 il trasferimento alla scuola superiore di commercio di Venezia, allora diretta da F. Ferrara (venne chiamato in sua vece M. Pantaleoni). Dal 30 nov. 1884 socio ordinario dell'Accademia dei Georgofili, divenne figura di primo piano dell'ambiente degli affari e della cultura fiorentino. Già presidente della Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, fu consigliere della Società immobiliare, dell'Istituto di credito fondiario, della Banca mutua popolare di Firenze. Fu inoltre consulente del ministro dei Lavori pubblici F. Genala per le convenzioni ferroviarie del 1884-85, pubblicando anonimo uno studio sull'Ordinamento delle ferrovie italiane (Roma 1884). Compilò anche manuali pratici (Il "Veritas" finanziario. Annuario delle banche, dei banchieri e del capitalista, Torino 1888; Manuale del credito fondiario, Firenze 1893). Il suo ultimo lavoro impegnativo fu La conversione della rendita (Firenze 1904), ricco di riferimenti storici alle conversioni in Francia, Germania, Austria-Ungheria e Inghilterra per introdurre alla trattazione della conversione del consolidato italiano ad opera del Luzzatti.
Il D. morì nella sua villa di Settignano presso Firenze il 31 maggio 1913. Un suo articolo, Cambio-Aggio, uscì postumo su L'Economista dell'8 giugno.
Personaggio tipico di una fase di transizione nella scienza economica italiana, il D. non ebbe originalità di pensiero, né una precisa personalità scientifica, come dimostra anche il suo trascorrere un po' indifferente da temi teorici ad argomenti di politica economica, da questioni metodologiche a trattazioni di aspetti istituzionali dell'economia e della finanza. Il meglio di sé lo dette come pubblicista politico e commentatore dell'attualità economica, principalmente su L'Economista, oltre che nelle conferenze all'Accademia dei Georgofili. Collaborò anche alla Rassegna nazionale, alla Rivista europea, alla Riforma sociale, alla Rivista delle società commerciali, alla Nazione e al Resto del carlino.
La sua creatura fu L'Economista, di cui smussò nel corso degli anni la linea politica ed economica, rispettivamente nel senso di una maggiore apertura verso la Sinistra e di una minore intransigenza liberista. Aveva cominciato a collaborare al settimanale fiorentino quando era ancora in Veneto, con una corrispondenza su L'acqua potabile a Venezia (13, 20, 27 giugno 1875), e con una impegnativa rassegna Sul sistema tributario dei comuni e delle provincie (24 e 31 dic. 1876, 7, 14, 28 gennaio, 18 e 25 marzo 1877), in cui fra l'altro caldeggiava l'abolizione delle province e il rafforzamento della potestà impositiva dei Comuni. Negli anni Ottanta partecipò alle battaglie liberiste dei moderati toscani, promuovendo insieme a V. Pareto una inchiesta sul rinnovo dei trattati di commercio (cfr. la lettera del 9 marzo 1887, pubbl. da G. Busino, in V. Pareto e l'industria del ferro nel Valdarno, Milano 1977, p. 799).
Presto, però, i rapporti fra i due peggiorarono a causa degli atteggiamenti sempre meno in linea con il liberismo ortodosso via via assunti dal D., soprattutto in materia bancaria. Il D., infatti, era un partigiano dell'unicità dell'emissione; il che fece scrivere a Pareto: "Io preferisco un socialista schietto a un opportunista che in nome della libertà mi difende tutti i privilegi e tutti i monopoli" (lettera di Pareto a M. Pantaleoni del 13 nov. 1892, in Lettere a Maffeo Pantaleoni, I, Roma 1960, pp. 314 ss.). D'altra parte, anche sotto il profilo teorico, aveva scontentato Pareto schierandosi contro il metodo matematico (cfr. la lettera a Pantaleoni del 19 giugno 1892, ibid., p. 230). Probabilmente, però, non meritava il definitivo sprezzante giudizio di Pareto, contenuto in una lettera a Pantaleoni del 20 marzo 1909, dopo che il D. aveva portato L'Economista nell'orbita giolittiana: "E vero che mentre erano vivi il Peruzzi e il marchese Alfieri - che seppero bene sfruttare - il De Johannis e il Dalla Volta facevano i liberisti; ma dopo smisero, e rimasero semplici affaristi" (cit. da L. Avagliano, in V. Pareto, Battaglie liberiste, Salerno 1975, p. 479 n.).
Lungi dall'apparire un opportunista, il D. si rivela nei suoi scritti come dotato di una notevole indipendenza di giudizio, che gli fece prendere progressivamente le distanze dall'ambiente moderato facente capo alla Accademia dei Georgofili, all'interno della quale le sue posizioni ci appaiono quelle di un oppositore quasi isolato. Nell'ultimo quinquennio del secolo, quando la questione sociale stava prendendo forme più acute per l'irrigidimento dell'indirizzo autoritario del governo, il D. andò svolgendo il tema del rapporto fra economia politica e legislazione sociale da un lato, e fra scienza economica e socialismo dall'altro, affermando in entrambi i casi la piena compatibilità reciproca.
"In quella parte che riguarda le aspirazioni o le dottrine di ordine economico, il socialismo non può essere una antitesi della scienza economica", come invece andavano ancora sostenendo i moderati toscani sulla scorta di Francesco Ferrara. "La scienza economica come tale ... non può e non deve essere né liberale, né protezionista, né socialista... . Il capitale stesso [deve] rendere il lavoro compartecipe di una maggior quota della plus-produzione" (Sono io socialista?, Memoria…, in Atti della R. Acc. d. Georg., s.4, XXI [1898], p. 136). Esemplare è la sua polemica con G. Cambray-Digny, che nella memoria Sul capitale, la sua origine e i suoi effetti economici (ibid., s. 4, XVIII [1895], pp. 99-113) aveva respinto le intrusioni dei socialisti (Marx compreso) nella cittadella dell'economia. Per il D. bisogna invece studiare anche gli "attriti", a cominciare dal conflitto fra capitale e lavoro: "Io credo che... il nuovo organismo assunto in questi ultimi cinquanta o sessanta anni dalla società, ha accresciuto sotto mille forme la preponderanza del capitale e della sua funzione, ma non ha altrettanto agevolato la funzione del lavoro ed il modo in cui questo si esercita" (Sui rapporti fra capitale e lavoro, Memoria..., ibid., p. 131). Queste posizioni, spregiudicate per i tempi, lo portarono in età giolittiana a sostenere il dovere statale di tutelare il diritto di sciopero anche a costo di intervenire contro il crumiraggio, sulla base del principio che gli scioperanti si intendono "momentaneamente allontanati, quasi lasciando [sul posto di lavoro] il segno del loro possesso". Per cui, se "il nuovo occupante", cioè il crumiro, "col suo intervento determina un prolungamento del conflitto e dà origine a violenze" si chiedeva il D. "il governo avrà l'obbligo di far mantenere questi nuovi occupanti, o non piuttosto sarà suo dovere di mantenere liberi i posti per quando il conflitto sia appianato ?" (La libertà del lavoro negli scioperi, in L'Economista, 20 nov. 1904, p. 748). Questa tesi, peraltro esposta in forma dubitativa, provocò un vivace intervento di L. Einaudi in nome della libertà di lavoro: "Che cos'è questo posto che lo scioperante non ha abbandonato, e che egli ha il diritto di riprendere quando il conflitto sarà finito, ... se non la riproduzione moderna dei posti, delle cariche che i sovrani di antico regime e i maestri delle corporazioni vendevano per far quattrini?" (L. Einaudi, Sciopero obbligatorio e krumiri, in Il Corr. d. sera, 27 nov, 1909, rist. in Le lotte del lavoro, Torino 1972, p. 87. Cfr. la replica del D., La libertà del lavoro [Al "Corriere della sera"], in L'Economista, 4 dic. 1904, pp. 774 ss.). Anche in tema di politica commerciale il D. si trovò a dissentire da Einaudi. Mentre questi caldeggiava un regime di libero scambio per la Tripolitania, il D. rilevò che "non è questo il momento che l'Italia può mettersi alla testa di un movimento che sarebbe contro corrente" (Sul regime doganale per la Tripolitania, in L'Economista, 21 genn. 1912, p. 34). I rapporti di stima fra i due però non vennero meno, e varie volte il D. invitò Einaudi a collaborare alla rivista, sia pure senza successo.
Altrettanto non conformista il D. si mostrò nella critica alle posizioni espresse dall'uomo politico e proprietario fondiario toscano F. Guicciardini in tema di riparto del prodotto agricolo fra concedente e mezzadro: il D. era per una modifica a favore del mezzadro, il Guicciardini per l'assoluta "invariabilità" (cfr. De Johannis, Sulla mezzadria in Toscana, in L'Economista, 5 maggio 1907, pp. 276 s.; 12 maggio 1907, pp. 292 s.; F. Guicciardini, Sulla mezzadria in Toscana, ibid., 23 giugno 1907, pp. 387 ss.; De Johannis, Ancora la mezzadria in Toscana, ibid., 7 luglio 1907, pp. 419 s.).
Il "radicalismo" politico del D. - dichiarato fin dal 1889, in un commento critico al programma dei moderati (cfr. Sul programma di un nuovo partito liberale che si intitola da C. di Cavour, Torino-Firenze-Roma 1889) - si manifestò altresì nel 1911, quando sul proprio giornale caldeggiò la formazione di una maggioranza di centrosinistra che da Sonnino e Giolitti arrivasse fino a Colajanni e Turati (Turati e Colajanni, in L'Economista, 12 sett. 1911, pp. 581 s.; Giolitti e Sonnino, ibid., 24 sett. 1911, pp. 609 s.).
In fondo, però, il D. cercò sempre di non confondersi in alcun modo con le posizioni socialiste, preferendo figurare come un simpatizzante (non privo di paternalismo) esterno al movimento. Per cui non sorprende che il Turati, in una lettera ad A. Ghisleri del 10 febbr. 1886, lo definisse addirittura "codino in materie sociali" (La scapigliatura democratica. Carteggi di A. Ghisleri 1875-1890, a cura di P. C. Masini, Milano 1961, p. 102).
Fonti e Bibl.: Comune di Firenze, Atti di morte, parte I, sez. A, n. 720: Jéhan de Johannis Arturo; Comune di Chioggia: Foglio di famigliadi Jéhan de Johannis Arturo, fuMassimiliano; Consiglio com. della città di Chioggia, Verbale di deliberazione, 23 luglio 1875 (nomina del D. a segretario capo del Comune); Ibid., 11 ott. 1879 (approvazione della richiesta di dimissioni avanzata dal D.); Torino, Fondazione L. Einaudi, Carte di L. Einaudi (corrispondenza del D.), ad nom.; J. de J., A., in L'Economista, 8 giugno 1913, pp. 357 ss.; Commemoraz. dei soci defunti... nell'anno 1913, in Atti d. R. Acc. d. Georgofili, s. 5, XI (1914), pp. XXIV-XXXI; R. Dalla Volta, A. J. de J., Commemor. tenuta nell'aula magna del R. Ist. di scienze soc. "C. Alfieri", 31 maggio 1914, Firenze 1915, pp. 1-52 (con bibliogr. sommaria); V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaleoni, I-III, Roma 1960, ad Indicem; L. Avagliano, A. Rossi e le origini dell'Italia industriale, Napoli 1970, pp. 489 s. (sul D., la Società veneta e la Terni); E. Franzina, La "buona stampa" liberista e le premesse ideologiche del liberismo di sinistra..., in Critica storica, XI (1974), pp. 38-93; P. G. Lombardo, Nuove ricerche su Vincenzo Bellemo (1844-1917), in Arch. veneto, CVI (1976), pp. 125-28 (sul D. e la sommossa del 23 marzo 1879).