Arti figurative
È verosimile che la partecipazione di D. al mondo culturale del suo tempo si estendesse alla vita artistica, considerato il rapporto di stretta dipendenza degli artisti dagli uomini di pensiero e di cultura, dei quali l'arte era chiamata a visualizzare concetti e passioni. A parte l'esercizio personale del disegno, che non siamo autorizzati ad escludere, potendo essere vero ciò che D. ci narra nella Vita Nuova (XXXIV 1): ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette (un disegno che pare in funzione di una pittura su tavola), un momento ideativo dell'arte in mente... artificis è riconosciuto nella Monarchia (III II 2), ciò che sembra porre l'accento sul valore non meramente pratico, ma anche conoscitivo dell'operazione artistica, come osserva l'Assunto: ars in triplici gradu invenitur, in mente scilicet artificis, in organo et in materia formata. E ci sono i due versi della terza canzone del Convivio (IV Le dolci rime 52-53): poi chi pinge figura, / se non può esser lei, non la può porre, con l'esplicazione: Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura essere dee (IV X 11). Senza contare i brani delle opere dantesche i quali ci indurrebbero a supporre una certa sensibilità di D. per la pittura: si veda l'esempio addotto per chiarire che il volgare lascia il suo profumo in ogni città d'Italia ma non risiede in alcuna, benché possa rivelare il suo grato odore in una meglio che in un'altra città: et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet (VE I XVI 5), dove l'analisi coloristica appare quasi di esperto delle mischianze delle tinte. Si ricordi ancora il valore pittorico e chiaroscurale dell'ombra, frequentemente, nel Purgatorio: non pur l'ombre e' tratti del c. XII (64-66), ma le proiezioni d'ombra, sia quelle che meravigliano le anime dei neghittosi (e vidile guardar per maraviglia / pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto, V 8-9; cfr. anche 25-27), sia quella che investe la fiamma entro cui ardono i lussuriosi: e io f acea con l'ombra più rovente / parer la fiamma (XXVI 7-8), dove la resa del rialzato registro tonale supera di molto le possibilità della pittura a D. contemporanea, sia l'altra (‛ metafisica ' verrebbe da definirla), della quale si avvertono l'estensione e la nitidezza del ritaglio spaziale nel momento stesso del suo annullamento nella sera incipiente, onde la sensazione precisa dell'improvvisa scomparsa del sole: 'l sol corcar, per l'ombra che si spense, / sentimmo dietro e io e li miei saggi (XXVII 68-69). Né si può negare nel famoso mio bel San Giovanni (If XIX 17) un apprezzamento estetico entro la dominante nota nostalgica.
Tuttavia nemmeno il riconoscimento del ‛ grado mentale ' dell'arte (un'adesione all'estetica intellettualistica di s. Tommaso) ci persuade a ritenere D. schierato dalla parte di un'ipotetica corrente critica più avanzata, come dicono, o addirittura a concludere con lo Schlosser, sul fondamento della stima delle arti quale apparirebbe nella Commedia, che il pensiero di D. " contiene in germe l'inizio della moderna storiografia dell'arte ": conclusione per lo meno arrischiata, come quella che vorrebbe individuare un'eccezionale posizione critica di D. e contrapporla al concetto medievale delle arti del disegno in quanto artes mechanicae, concetto di cui però gli storiografi compiono generalmente un'interpretazione troppo restrittiva, fino al punto da non lasciare quasi a quelle arti alcun margine, benché limitato e non esplicitamente riconosciuto, di ‛ liberalità '. Intanto quella tendenza diciamo ‛ più avanzata ' della critica artistica medievale risale almeno al XII secolo, quando la stima artigiana del lavoro dell'artista non dovette escludere mai del tutto la consapevolezza della mens artificis, ossia del valore individuale dell'opera d'arte. Lo provano i documenti, notissimi, quali l'elogio di Wiligelmo nel duomo di Modena, o le lodi di Buscheto e di Rainaldo nella cattedrale di Pisa, o quelle di Nicola Pisano nel pulpito del battistero di Pisa, o il non meno famoso " Sis Ducio vita - te quia depinxit ita ", con cui Duccio di Boninsegna " nella consapevolezza del capolavoro appena compiuto, sembra reclamare dalla Regina del Cielo il proprio diritto ad una particolare protezione " (E. Carli), con un moto psicologico, aggiungeremo, che ci rimanda all'estetica del sentimento in s. Bonaventura e nel pensiero francescano.
Il Medioevo sapeva dunque, molto prima di D., che l'arte può essere attività meritevole di onore e di rinomanza, epperò non è esatto far cominciare una stima della personalità artistica in senso ‛ moderno ' dell'onor d'Agobbio del canto XI del Purgatorio (" dignus honore " è già Wiligelmo nell'encomio modenese su ricordato); o dalla terzina celeberrima su Cimabue e Giotto, la quale, malgrado la lunga ostinazione degli storici dell'arte a volerla considerare una celebrazione del secondo pittore, non contiene alcun apprezzamento critico (il grido equivale al mondan romore, che può corrispondere anche a una fama irragionevole e immeritata: v. Cv I XI 4 e Pg XXVI 121-126), ma è un puro esempio della durata effimera della rinomanza terrena e della ‛ oscurità ' che rapidamente avvolge l'artista come il letterato o il politico: il terzo esempio della vana gloria (e ciò sembra sfuggire a quasi tutti i lettori della Commedia) è offerto difatti dalla figura di un capo-parte e uomo di governo comunale, dal senese Provenzano Salvani, messo sullo stesso piano (quanto alla caducità della fama) di Oderisi e di Franco, di Cimabue e di Giotto, dei due Guido, chi già scuro e chi destinato a intenebrarsi.
Sul diritto delle arti alla gloria il pensiero di D. sicuramente non rappresenta un'eccezione; né è ricostruibile una critica dantesca con impostazione originale di giudizio, per farne quindi la base di un rapporto particolarmente sentito e vivo del poeta con gli artisti del suo tempo. Potremmo chiederci semmai quali opere dell'arte contemporanea D. poté conoscere de visu o anche indirettamente; domanda lecita, a cui Maurizio Bonicatti ha risposto per la pittura di Cimabue (v.): la Maestà di Santa Trinita e il Crocifisso di Santa Croce, quello sfigurato dall'alluvione fiorentina del 1966, sono tra le pitture che D. poté vedere in Firenze " con maggiori probabilità " e " per ragioni devozionali ", data la prossimità delle case degli Alighieri. Ma perché non avrebbe visto, o non si sarebbe inginocchiato davanti alla Madonna Rucellai in Santa Maria Novella? Eseguita sul finire del Duecento, sia che l'autore possa essere un cimabuesco oppure Duccio (nel qual caso non le disdirebbe la data del 1285, che appare in un documento dove il maestro senese è ricordato con l'impegno di dipingere una tavola per la Compagnia dei Laudesi, appunto nella chiesa ora menzionata) la Madonna è quella del celebre racconto vasariano sulla sua traslazione festosa dalla bottega del pittore al tempio, onde il nome di Borgo Allegri al quartiere fiorentino che anche oggi così si chiama. E a Santa Maria Novella sappiamo da D. stesso che egli si recava per ascoltarvi la parola dei filosofanti. A dilatare l'area delle ipotesi basterebbe la consultazione di un manuale, da cui estrarre le opere d'arte di Firenze, Pistoia, Siena, Pisa, Lucca, utili al nostro fine, e includere nelle possibili conoscenze del poeta, più probabilmente indirette, il pulpito di Nicola a Pisa, quello di Nicola e Giovanni a Siena, quello ancora di Giovanni a Pistoia, e il goticismo ricco di citazioni classiche di Arnolfo scultore e architetto, che un privilegio del comune fiorentino chiamava " il più famoso ed esperto costruttore di chiese " (Santa Croce, verosimilmente, e Santa Maria del Fiore nel 1296); e di Giotto gli eccezionali esordi e il seguito. Quindi, a volontà, molte altre opere illustri in Toscana e fuori, nel resto d'Italia, delle quali si doveva pur parlare (mettiamo a Perugia la Fonte Maggiore compiuta nel 1278; a Roma la pittura del Cavallini; ad Assisi, nella chiesa superiore, quella così nuova di Giotto); ma anche di oltr'Alpe, ché le vie dei traffici erano vie di cultura, sia che lavori d'arte forestiera capitassero a Firenze per quelle vie, sia che andassero a vederli in situ i nostri artisti nei loro viaggi, specie in terra di Francia: nel convegno di studi giotteschi (1966) lo Gnudi, continuando la meritoria ricerca dei rapporti tra il gotico francese e quello italiano, ha riscontrato nella scultura dell'Ile de France intorno alla metà del Duecento, segnatamente nel jubé di Bourges, grandi affinità, non solo iconografiche ma stilistiche, con le sintesi di Nicola e di Giotto, pur se appare difficile interpretare il verso " Hic circuit amnes mundi partesque Johannes " (nell'epigrafe del pulpito giovanneo a Pisa) nei termini di un'allusione coperta ai viaggi all'estero di Giovanni Pisano, la cui vita d'altronde ci è abbastanza fittamente documentata.
Ma di possibili esperienze artistiche non appare traccia negli scritti di D., e nessun'opera d'arte coeva o anteriore può essere fondatamente messa in rapporto con l'arte dantesca, né dal punto di vista delle fonti (e qui ha ragione lo Schlosser, che " D. non ha mai cercato di tradurre un'opera d'arte figurativa nel linguaggio a lui proprio "), né da quello di una consonanza di modi visivi o formali che esorbiti dall'ambito del clima storico, in modo da farci discretamente persuasi che a questa o a quella scelta estetica si conformassero la figuralità e lo stile di Dante. È dubbio che nella stessa Commedia avvenga di individuare reali frutti di una esperienza dantesca delle arti medievali o delle antiche: le qualificazioni dell'Inferno ‛ romanico ' e del Paradiso ‛ gotico ' (il che comporterebbe l'affermazione di due scelte estetiche di D., l'una ritardataria e l'altra moderna, a meno che non vogliamo limitarci a ripetere in termini speciosi la distinzione comune tra l'evidenza plastica dell'Inferno e la luce del Paradiso, onde l'Inferno ha un numero molto maggiore di lettori) provano, con la loro attraente indeterminatezza, che una tale esperienza ipotizzata sfugge poi all'occasione di puntualizzarla in maniera soddisfacente. Affermare come fa il Toesca che la chiesa di Santa Croce è " architettura da accompagnarsi meglio di ogni altra opera d'arte alle creazioni di Dante e di Giotto, chiara nella profondità dello spazio, nella fermezza dei pilastri e degli archi, schietta di ornati, semplice e forte come la stessa vita fiorentina del Trecento " può essere giustificato dallo sforzo di accentuare l'alto valore di quelle strutture sintetizzandone la potenza espressiva con le aggettivazioni affascinanti di ‛ dantesca ' o di ‛ giottesca ', senza dir nulla che giovi in realtà alla lettura di Santa Croce o della poesia di D. o della pittura di Giotto: tre fatti artistici coevi, imbevuti dei medesimi ideali religiosi e civili (da qui la conclusione del Toesca: " come la stessa vita fiorentina del Trecento "), ma senza relazioni accettabili di forma, di spazialità, di ritmo e via dicendo.
Nella Vita Nuova, che aspira a restare nel segreto dell'interiorità piuttosto che a visualizzarsi, si possono ‛ sentire ', non però ‛ cogliere ' fuggevoli concordanze dello scrittore con le arti del tempo suo. (Vale il medesimo per le Rime). Il timbro sognante e musicale del linguaggio dantesco giovanile, che scorpora le figure, ignora la prospettiva, annulla perfino i fondali appena distesi come a voler circoscrivere un episodio in un ambiente, mentre l'intenzione dello scrittore rimane quella di non oggettivare i luoghi della sua storia, ma di lasciarli sospesi, indefiniti e continui, a due sole dimensioni, senza un di dentro e un di fuori, né un prima, né un poi; la luce quieta e diffusa, che magari può farci credere al fondo d'oro o all'interno di una chiesa gotica; le rade enunciazioni di un colore campito e nitido che non turba però quell'astratta unità luminosa (è il colore della miniatura? ma probabilmente è più giusto il riferimento letterario a Boezio per il colore bianchissimo delle vesti di Beatrice, Vn III 1: v. D. De Robertis); gli occhi di Beatrice e delle altre donne, che per un attimo possono rammemorarci gli occhi pensosi delle Madonne di Duccio o di Cimabue o di Simone Martini (giovani donne, / che avete li occhi di bellezze ornati / e la mente d'amor vinta e pensosa, Rime LXVII 85-87), e similmente l'onestà e l'umiltà del portamento e degli atti, che risolve in una gravitas di esemplare dignità formale l'intera verità dei personaggi, accade che suscitino nel lettore una successione di immagini dell'arte coeva, ma senza consentirgli non diremo di fermarsi su un'opera determinata, ma neppure su una scelta precisa del gusto di D., convincendolo unicamente a escludere dalla figuralità del D. giovane il plasticismo degli scultori, che proprio allora davano il contributo più alto al rinnovamento dell'arte nel suo mutarsi di ‛ greca ' in ‛ latina '.
Calligrafismi neo-ellenistici e gotici sembra disegnare talvolta la prosa meglio che la poesia della Vita Nuova: e qui può venir fatto di pensare ancora a Cimabue o a Duccio e alla compresenza, nell'arte loro, della tradizione bizantina col linearismo gotico. Impressioni, e non più. E se la morte di Beatrice, con la canzone Donna pietosa e di novella etate (Vn XXIII 17), è stata collegata dal Sapegno " direttamente alle invenzioni della pittura contemporanea e all'iconografia pregiottesca e giottesca delle Passioni, delle Deposizioni e delle Ascensioni " (ma come dimenticare la già lunga tradizione iconologica, risalente per alcuni schemi, come quello delle ‛ donne disciolte ', non pur all'arte bizantina ma alla scultura imperiale romana?); se qualcuno ha assimilato addirittura il brano sillogistico sulla morte del padre di Beatrice (Vn XXII 2) all'architettura gotica (F. Chiappelli), quasi che questa consista nell'accampare guglie su guglie, tali nostre divagazioni più o meno felici e sottili trovano semmai giustificazione soltanto nella contemporaneità di D. e degli artisti con i quali ci avvenga di trovarlo momentaneamente concorde in un ideale estetico o in un modulo figurale.
Quanto ai paesaggi invernali delle Rime (Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra / son giunto, lasso!, ed al bianchir de' colli, / quando si perde lo color ne l'erba, CI 1-3), o al ritratto dell'avaro, che volendo può richiamarci il dettaglio di un affrescato Trionfo della Morte (Ecco giunta colei che ne pareggia: / dimmi, che hai tu fatto, / cieco avaro disfatto?, CVI 74-76) dovremo credere a un'accentuata attenzione di D. verso l'ideale naturalistico degli artisti gotici? È arduo affermarlo; e lo è anche di più il ricondurre all'interpretazione gotica della natura i fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi (If II 127), o lo villanello a cui la roba manca (XXIV 1-15, con ricordi di Lucano e di Orazio), o il ramarro (XXV 79-81), o il cielo e il mare del I canto del Purgatorio (vv. 13-27 e 115-118; si vedano le giuste considerazioni dell'Ulivi sul Dolce color d'orïental zaffiro: dove " il fenomeno che poteva sembrare così accostante è come concentrato nel suo segreto e restituito al suo valore cosmico ", onde nasce " una poesia dell'analogismo naturalistico "), o la divina foresta (Pg XXVIII 1-36; con tenui memorie ovidiane), o l'augello, intra l' amate fronde (Pd XXIII 1-9; con assunzioni virgiliane), per citare alcuni dei tanti celeberrimi squarci del ‛ naturalismo ' dantesco, i primi che la memoria ci suggerisce. Altrettanto improbabile è l'accostamento dei ventiquattro seniori, o di altri momenti della mistica processione del Purgatorio (c. XXIX ss.) ai musaici ravennati; a meno di rinunciare a distinguere, in tali avvicinamenti, anche nei pochissimi che paiono avere corrispondenze iconografiche e perfino qualche consonanza stilistica, quale sia la parte di D., ossia che cosa spetti realmente al suo " primato dell'occhio ", come fu detto, e quale invece la parte nostra, mentre siamo tentati di ripercorrere la storia dell'arte a D. contemporanea o a lui anteriore, e per di più col nostro abito visivo e critico, tanto diverso da quello medievale.
Il medesimo valga per i mostri e i diavoli dell'Inferno, se e quanto abbiano di esperienza plastica romanica o gotica (se Gerione, mettiamo, si possa ragionevolmente confrontare con un gocciolatoio figurato di una cattedrale), o per i nessi che ci paia di scorgere tra i marmi istoriati del c. X del Purgatorio e le narrazioni concitate dei Pisano (quel calcato del v. 79 potrebbe essere traslato a un folto di teste espressionistiche, accampate nello spazio di una formella di pulpito; e l'oro delle aguglie avvalorarci nell'ipotesi, badando alla doratura e dipintura di quelle sculture). Ma intanto il Carli pensa a un suggerimento dalle colonne coclidi figurate romane, a causa dell'ininterrotto svolgimento degli episodi, per cui dietro all'uno già il successivo biancheggia: sicché la " rappresentazione continuata " e lo " stile illusionistico " indicherebbero i principi stilistici riconosciuti, dal Wickhoff in poi, come propri dell'originalità della scultura romana e in particolare del rilievo storico di età flavio-traianea culminante nell'autore dei rilievi della colonna Traiana. Nondimeno la ‛ continuità ' è tipica anche del racconto figurato medievale, e così l'‛ illusionismo ' che rimane per tanti secoli la meta ideale dell'arte. Negl'intagli danteschi del c. X del Purgatorio la potenza imitativa è tale che non pur Policreto, / ma la natura lì avrebbe scorno (vv. 32-33) e così in quelli del c. XII che pavimentano la via dei superbi: Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vede il vero (vv. 67-68). Tuttavia il visibile parlare di D. non va inteso come un equivalente della nostra locuzione di " linguaggio figurativo " (Momigliano), ma nel significato reale di immagini plastiche, che in modo novello a noi perché qui non si trova sostituiscono e risolvono in sé un contesto narrativo nel suo svolgimento temporale, con tutte le battute del dialogo: senza quella reiterazione dei medesimi personaggi in atti di volta in volta diversi, e in più episodi assommati entro un unico riquadro compositivo, cui dovevano ricorrere fatalmente i pittori e gli scultori, col sussidio di cartigli srotolati dalle mani o di nastri di parole uscenti dalle bocche (questi ultimi, si badi, anche nella raffinatissima Annunciazione di Simone Martini agli Uffizi, e non soltanto nella Biblia pauperum di un Piero di Puccio orvietano nel Camposanto Monumentale di Pisa). Verrebbe da credere che proprio nel c. X del Purgatorio, che è uno dei pochissimi sostegni al tema del rapporto di D. con le arti del disegno, finisca per essere affermata invece la superiorità dell'arte della parola sulle arti figurative, pur se la parola è oggettivata negli ‛ atti ' dei personaggi (in un atto soave; e avea in atto impressa esta favella; di lagrime atteggiata e di dolore), ciò che potrebbe rinviare alle soluzioni figurative, anche in Giotto, degli stati d'animo in atti e moti delle figure, bloccate, espanse, accovacciate, inchinate, strutturalmente chiuse con rigore e con forza, quantunque occhi e bocche possano sottolineare una particolare situazione psicologica (si veda nel Giotto di Carrà come il pittore moderno ritorna più volte sull'indicazione dell'‛ atto ' in quanto blocco plastico, ‛ legge cubica ', spazialità spirituale, motivo precipuo dell'operare di Giotto). Ma ha ragione l'Auerbach di scrivere che " la mimesis della Commedia abbraccia tanto maggiore altezza e profondità, si immerge nel passato e nel futuro tanto più di qualsiasi opera d'arte figurativa dell'inizio del Trecento, che non è possibile confrontarla con nessuna di esse... lo stesso parallelo con Giotto diventa impossibile, appena si parta non più da Giotto, ma da Dante... l'arditezza del piano che è alla base della Summa vitae humanae di Dante era inaccessibile a un artista figurativo del Trecento ". Il che non significa, ovviamente, svalutare l'arte giottesca e neppure negare qualche consonanza di situazioni e di tipi tra D. e Giotto: nel Giudizio degli Scrovegni e più precisamente nell'Inferno (oltreché nelle allegorie delle virtù francescane, nella basilica inferiore di s. Francesco ad Assisi, le quali però non sono di Giotto), purché le affinità si intendano, col Rosenthal, " non come una consapevole tendenza parallela, ma come un modo necessariamente analogo di divenir forma, in un determinato momento storico, di simili presupposti storico-spirituali ".
Si ponga mente, per fare un esempio, al Gioacchino che procede lento tra i pastori nell'affresco degli Scrovegni e a certi ‛ atti ' del Virgilio dantesco: e qui chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato (Pg III 44-45; v. Rosenthal e Carli). Oppure, nelle medesime storie giottesche di Gioacchino, all'analogia di maggiore evidenza non soltanto iconologica ma formale tra il sogno di Gioacchino stesso e quello di D. nel XXVII del Purgatorio (vv. 76-93). Le capre già rapide e proterve, ora manse nel paesaggio rupestre; il pastore che le guarda e che 'n su la verga / poggiato s'è, secondo un modulo, più che virgiliano, proprio della scultura ellenistica e diffusissimo anche in lavori artigiani, come i sarcofagi; l'alta grotta che quinci e quindi ‛ fascia ' i personaggi e gli animali chiudendo la composizione in modo analogo al sogno giottesco di Gioacchino, dove le rocce si vedono delimitare il taglio della scena (si può ragionevolmente pensare anche a un'influenza del teatro sacro) e isolarla in un alto silenzio; e poi il sonno, che diventa sogno profetico per D. come per Gioacchino. A queste somiglianze di contenuto si aggiunge, più importante, quella cadenza lenta e solenne, in D. come in Giotto, la quale produce un effetto di gravità non bucolica (aveva ragione il Momigliano di respingere i riscontri virgiliani affermando: " qui il disegno non è da Virgilio ", ma aveva torto di introdurre il nome di Michelangelo quando aveva a portata di mano il riferimento alle storie giottesche): una gravità che accomuna in qualche modo il poeta e il pittore e che prendendo sostanza dalla realtà la supera in un'oggettivazione assorta, piena dell'attesa di eventi mirabili. Non trarremo però alcuna conclusione sull'eventualità di una reciproca influenza davvero troppo poco credibile (le stesse ipotesi di un incontro personale tra D. e Giotto non possono ricevere conferma né smentita), ma ci limiteremo a ribadire un certo consentimento delle due somme personalità nel clima altissimo della civiltà trecentesca e perciò una certa loro analogia di forme. Si ritorna, una volta di: più, a quelle affinità sul piano iconologico ed espressivo (avvertibili ma non precisabili) entro l'area della " grande esperienza classico-gotica " di cui parla lo Gnudi, e ammesse anche dal Battisti, malgrado la convinzione di quest'ultimo di un atteggiamento polemico tra D. e Giotto sull'ipotesi di una loro spiccata divergenza ideologica Affinità che può essere dilatata: e comprendere tanto la famosa similitudine come per sostentar solaio o tetto (Pg X 130), dove D. coglierebbe a fondo il senso di blocco del telamone romanico (Carli; ma il riferimento, stando attenti alla terzina, potrebbe andare a qualunque cariatide, e anche a una di quelle figurette rannicchiate che si conoscono, perfino in periodo gotico avanzato, intagliate nelle mensole che sopportano i travi di un tetto), quanto la coscienza prospettica, per il Parronchi analoga in D. e in Giotto, sebbene in effetti si diversifichi profondamente, dacché per D. la prospettiva, come ‛ il primato dell'occhio ', come l'attenzione al reale e all'umano, è strumentale, è in funzione della verità teologica cui tende ogni possibile esperienza del poeta, posta come finalistica ab initio. Il plasticismo dell'Inferno e la luminosità del Paradiso appaiono al di fuori e al di sopra dell'arte romanica e della gotica; né queste, quantunque ingegnosamente accostate, riusciranno a partecipare realmente dell'arte dantesca, né ci aiuteranno a intenderla meglio.
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