SCHOPENHAUER, Arthur
Pensatore tedesco, nato a Danzica il 22 febbraio 1788, morto a Francoforte il 21 settembre 1860. Il padre, ricco banchiere, voleva indirizzare il figlio al commercio, e gli fece compiere in tal senso i primi studî: ma il giovane, che nel temperamento assomigliava piuttosto alla madre, la scrittrice Johanna (Danzica, 9 luglio 1766-Jena 16 aprile 1830, autrice di molti romanzi, alcuni dei quali, specialmente Gabriel, 1819-1820, ebbero dal Goethe lode di grazia e di equilibrio), non aveva per ciò alcuna vocazione, e, appena morto il padre, si recò alle università di Gottinga, Berlino e Jena, a studiare scienze naturali, storia e filosofia. A Berlino sentì, nel 1811, le lezioni di Fichte: ma non ne rimase entusiasta, e cominciò anzi a nutrire quell'avversione contro l'idealismo postkantiano, che doveva più tardi assumere in lui aspetti parossistici. Ripiegò, perciò, sullo studio del Kant, anche sotto l'influsso del suo professore di Gottinga, Gottlob Ernst Schulze, autore dell'Enesidemo, che dal suo punto di vista scettico criticava Kant, ma non senza sottoporlo a un esame degno di lui. Nello stesso tempo studiò profondamente Platone, che a lato di Kant esercitò la massima influenza sulla formazione del suo sistema filosofico. Nel 1813 si addottorò, a Jena, col saggio Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente; nel 1820, compiuto e pubblicato il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, ottenne la venia docendi all'università di Berlino. Ma l'esercitò con scarsissimo zelo, e con ancor minore successo: gli scolari disertavano le sue lezioni e affollavano quelle di Hegel, allora nel pieno fiore della sua fama. Così, nel 1832, abbandonò definitivamente Berlino e la carriera accademica, e si stabilì a Francoforte sul Meno, che d'allora in poi rimase la sua residenza. Ma l'insuccesso nell'insegnamento inasprì anche più il dispregio per il trionfante idealismo, e in particolare per Hegel, che già covava nel suo animo: ne nacque il violentissimo attacco contro la "filosofia delle università", in cui egli varcò ogni limite, negando ai suoi avversarî le più elementari doti d'intelligenza e presentandoli come ciarlatani stipendiati per colorire di filosofia i dogmi politici e religiosi cari allo stato. All'irritazione dello Sch. contribuiva anche la superba coscienza che egli, persuasissimo di aver fondato la vera filosofia e religione dell'avvenire, aveva di sé, e il silenzio generale di cui si vedeva circondato e che pensava organizzato a suo danno.
Ritiratosi a Francoforte, lo Sch. continuò a comporre note e saggi filosofici, per lo più brevi, parte dei quali raccolse nei Parerga und Paralipomena, mentre i più rimasero inediti e sono stati a poco a poco pubblicati dai suoi seguaci. Negli ultimi anni della sua vita, un po' per il chiasso provocato dalla sua polemica contro la filosofia universitaria, un po' per le doti formali dei suoi scritti, la fama dello Sch. uscì dalla ristretta cerchia dei suoi accoliti; dopo la sua morte, i lettori delle sue opere si accrebbero enormemente, e il suo pensiero fu per molto tempo di moda, preparando l'ambiente spirituale propizio a Wagner e a Nietzsche. Da un lato questo successo era determinato dall'ondata di nostalgia romantica, che in un'età di trionfante positivismo e materialismo faceva volgere gli animi verso il pessimismo, appassionato ed estetico, dello Sch.; dall'altro, aveva le sue migliori radici nell'alto valore letterario dei suoi scritti, alieni da ogni tecnicismo filosofico e non di rado animati da un profondo afflato poetico. Larghissima, infatti, era la cultura letteraria e artistica che lo Sch. aveva accumulata con l'esperienza di molte letterature e con ripetuti viaggi, specialmente in Italia. Attirava poi l'attenzione anche la sua personalità, che appariva in singolare contrasto, nel suo bene assicurato eudemonismo celibatario, col pessimismo irrimediabile del suo credo filosofico. Il quale del resto, nonostante il danno che gli derivava dalla completa incomprensione del grande idealismo romantico, aveva in sé, anche dal punto di vista strettamente speculativo, una ricchezza di esperienze e di motivi che gli conferiva un singolare interesse umano.
Le prime edizioni dei principali scritti pubblicati dallo Sch. sono le seguenti: Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (Rudolstadt 1813); Ülber das Sehen und die Farben (Lipsia 1816: ha la sua origine in colloquî che lo Sch. ebbe a Weimar col Goethe, di cui accolse la teoria dei colori); Die Welt als Wille und Vorstellung (Lipsia 1819: in appendice è la Kritik der kantischen Philosophie, mentre la 2ª ediz., Lipsia 1844, è accresciuta di un volume di supplementi); Über den Willen in der Natur (Francoforte 1836); Die beiden Grundprobleme der Ethik (cioè Über die Freiheit des menschlichen Willens e Über das Fundament der Moral: Francoforte 1841); Parerga und Paralipomena (voll. 2, Berlino 1851). A ciò va aggiunta una lunga serie di edizioni, curate dopo la morte dello Sch., di scritti rimasti inediti: particolarmente noti, tra questi, gli Aphorismen zur Lebensweisheit, le spregiudicate annotazioni Über die Weiber e la versione tedesca dell'Oraculo manual di Balthasar Gracián. La più vasta edizione complessiva, dedicata esclusivamente all'inedito, è quella curata, sui manoscritti conservati alla Biblioteca nazionale di Berlino, da E. Grisebach (A. S. s handschriftlicher Nachlass, voll. 4, Lipsia 1890-93, 2ª ed., 1895-96). Ma essa è ora superata dalle più recenti e complete edizioni di tutta l'opera dello Sch. La più antica di queste, quella di J. Frauenstädt (voll. 6, Lipsia 1873-74, più volte ristampata), è stata superata da quella di E. Grisebach (voll. 6, Lipsia 1891, pure più volte ristampata). Altre edizioni complessive si sono conformate su questa. Ma la migliore edizione critica, comprendente anche l'intero materiale inedito e tutti i carteggi, è quella di P. Deussen (voll. 14, Monaco 1911 segg.): per quanto stia ora uscendo un'edizione anche migliore, a cura di O. Weiss (Lipsia 1919). Numerose sono anche le raccolte particolari di lettere, le antologie, gl'indici generali; numerosissime le traduzioni, delle quali si ricordano qui quelle in italiano: Il mondo come volontà e rappresentazione, di N. Palanga (Perugia 1913) e di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo (voll. 2, Bari 1928-1930, comprendenti anche la Critica della filosofia kantiana e i supplementi); Aforismi sulla saggezza della vita, di O. Chilesotti (Milano 1885); La filosofia delle università (Lanciano 1909); Morale e religione (Torino 1908); Saggio sul libero arbitrio (Milano 1908).
L'orientamento del pensiero dello Sch. è già in certa misura implicito nella dissertazione di laurea Intorno alla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, che dopo Il mondo come volontà e rappresentazione è il suo più importante scritto teoretico. Esso è infatti dedicato alla miglior fondazione del caratteristico principio, che il Leibniz credette di poter aggiungere agli altri principî della logica classica, pensando che, come non si poteva concepir nulla senza i principî d'identità, non contraddizione e terzo escluso, così non si potesse intendere alcuna cosa senza comprendere insieme la sua ragion d'essere, il motivo per cui essa esisteva o si era prodotta. In realtà, mentre i principî della logica classica erano necessarî per la determinazione oggettiva di qualsiasi pensabile, antecedente ad ogni distinzione di esistenza o d'inesistenza e quindi a ogni concezione definita del mondo, il nuovo principio presupponeva il concetto di una realtà diveniente e di un'assoluta ragione che determinasse il suo divenire, in modo da contenere in sé la giustificazione sufficiente di ogni realtà che da tal divenire nascesse: la concezione leibniziana, appunto, dall'ordinamento provvidenziale del mondo. Si vede quindi come nella difesa del principio di ragion sufficiente, compiuta dallo Sch., possa scorgersi già il primo avviamento verso il suo volontarismo cosmico. Del principio lo Sch. distingue le quattro "radici", determinandone quattro aspetti fondamentali, ond'esso si presenta come principium rationis sufficientis essendi, p. r. s. fiendi, p. r. s. agendi e p. r. s. cognoscendi. Nel primo aspetto esso determina le condizioni a cui è sottoposta ogni rappresentazione in quanto manifestantesi nello spazio e nel tempo; nel secondo s'identifica con la legge di causalità, dominante il divenire; nel terzo esprime il principio della volontà, non agente senza un bastante motivo; nel quarto impone alla conoscenza che la sua verità sia fondata sulla realtà. Come si vede, quindi, il principio è inteso dallo Sch. in senso così vasto che vi convergono, accanto al vecchio criterio della verità, tanto i principali elementi trascendentali della gnoseologia kantiana quanto la legge pratica della volontà. È quindi aperta la via a una trasvalutazione in senso volontaristico della concezione kantiana della conoscenza e dell'essere.
Questa è grandiosamente espressa nel Mondo come volontà e rappresentazione. Al Kant lo Sch. attinge la generale concezione gnoseologica, che tutto ciò che oggettivamente appare non possa esser concepito prescindendo dal soggetto a cui si manifesta, e di cui è "rappresentazione" (Vorstellung). E, come in Kant, questo mondo fenomenico, risultando dalla sintesi dell'oggetto esistente in sé e della facoltà rappresentativa del soggetto, diverge nella sua conformazione dalla realtà puramente oggettiva: soltanto, mentre Kant mira soprattutto a determinare le forme necessarie di cui il soggetto conoscente si vale nella sua fenomenizzazione e lascia nell'ombra l'inconoscibile "cosa in sé", lo Sch. rivolge piuttosto la sua attenzione a quest'ultima, tentando di scoprirne il segreto. E può meglio farlo, in quanto considera la "cosa in sé", o "noumeno", non tanto in quel più immediato aspetto oggettivo ond'esso fornisce alla conoscenza il suo materiale realistico, quanto in quello opposto, estremamente soggettivo, ond'esso costituisce la più profonda e libera essenza morale dell'uomo. Lo Sch. determina infatti la natura della cosa in sé osservando l'aspetto corporeo, e quindi fenomenico, della persona umana, e mostrando come sia concretamente connaturata ad esso, nel processo dell'azione pratica, la più profonda e sostanziale sua libertà e volontà. Non c'è, in concreto, volizione senza azione, per quanto la prima appartenga alla natura noumenica e la seconda alla natura fenomenica dell'uomo: bisogna quindi concluderne che in questo nesso si manifesta la duplice natura della cosa in sé e del fenomeno, quest'ultimo non essendo che l'"obbiettivazione", la "rappresentazione", del "volere" (Wille). La cosa in sé è la volontà, e il mondo si risolve in "volontà e rappresentazione".
Ma se la radice dell'universo è la volontà, il mondo è condannato a un'imperfezione e insoddisfazione eterna, perché in tanto si vuole in quanto si tende a colmare una mancanza, ad evitare una deficienza e un dolore. Il quale è, così, intrinseco alla volontà e cioè alla vita universale: donde il pessimismo, che necessariamente discende da tale concezione. Lo Sch. si muove qui, sentendo la volontà come perenne insufficienza, nei limiti del pensiero greco svalutante l'azione per la perfezione attuata, e perciò predicante (specialmente nell'età postaristotelica) la beatitudine contemplativa di chi, indifferente ed autarchico, rinuncia al desiderio e alla volontà; e più direttamente si riconnette al pensiero orientale e all'ascesi buddistica, designante la volontà dell'individuo come principio del dolore e fonte dell'illusoria fede nel molteplice fenomenico, e invitante al nirvana, nella cui inconsapevole universalità l'individuo si dissolve negando la sua volontà particolare e sottraendosi a quella illusione. Ma mentre nel buddismo l'errore e il dolore non è tanto della volontà quanto della sua individualità, superabile nell'ascesi, e mentre nel pensiero greco la rinuncia al volere e all'agire è insieme salda costituzione della propria perfezione individua, nella concezione dello Sch. non parrebbe si potesse mai uscire dal regno della volontà, dato il suo carattere assoluto e universale. Lo Sch. parla tuttavia di una negazione della volontà, che può operare lo stesso pensiero dell'uomo in quanto diviene consapevole di tale sua ultima natura: rinuncia sempre maggiore agl'interessi vitali, fino alla più compiuta ascesi e indifferenza. Nel campo più immediato dell'umana convivenza, l'etica dello Sch. giustifica peraltro un certo interesse all'azione, in quanto questa concorre ad alleviare il dolore altrui: la realtà degli altri soggetti, che l'io riconosce esistenti accanto a sé, è infatti soltanto quella della loro volontà e del loro dolore, e l'unico fondamento legittimo della morale è quello della comune lotta contro la sofferenza, onde al Leid si accompagna il Mitleid, alla "passione" la "compassione".
Esiste tuttavia anche un altro mezzo, per quanto non così decisivo e costante, di liberazione dal dolore: ed è quello offerto dalla contemplazione estetica. Con singolare intervento di platonismo nel suo idealismo kantiano e romantico, lo Sch. pensa che prima delle oggettivazioni del volere, costituite dalle molteplici realtà fenomeniche, si diano oggettivazioni anteriori (che perciò chiama "immediate", rispetto alle altre "mediate", come tipi universali di quelle realtà. Esse sono le "idee", al pari di quelle platoniche eterne e immutabili, e sottratte alla legge del divenire causale dominante sulle particolari realtà fenomeniche. Contemplare e raffigurare queste idee è quindi veder la realtà affrancata da quel principio di ragion sufficiente, che la condanna al divenire eterno e cioè all'eterna insoddisfazione della volontà: è, con ciò, un'altra forma di liberazione dal giogo del volere, per quanto non definitiva ma puntuale e saltuaria. Tale esperienza spirituale è quella fornita dalle varie arti, che in vario modo imitano e raffigurano le "idee" delle cose. Estetica nella quale, come si vede, i più tipici elementi platonici (idee e mimesi) e aristotelici (mimesi dell'universale, catarsi) si fondono in maniera singolare con la più romantica esperienza del dolore e della sua liberazione. Pienamente romantica si manifesta d'altronde l'estetica dello Sch. nella collocazione eccezionale, che in confronto delle altre arti riceve in essa la musica, considerata come diretta imitazione e significazione della volontà cosmica, o sua "oggettivazione immediata" al pari delle idee.
La bibliografia tanto delle edizioni e versioni delle opere dello Sch. quanto degli scritti che lo concernono è vastissima: una prima, ampia, informazione può trovarsi in Ueberweg-Oesterreich, Grundriss der Gesch. der. Philosophie, IV, 12ª ed., Berlino 1923, pp. 134-37 e 686-90. V. anche lo Jahrbuch der Schop. Gesellschaft (Kiel 1912 segg.). Ci limitiamo qui a indicare le principalissime opere d'insieme, con particolare riguardo a quelle più accessibili al lettore italiano: Th. Ribot, La ph. de Sch., Parigi 1874; K. Fischer, Sch. (vol. IX della Gesch. d. neu. Philos.), Heidelberg 1893; 3ª ed., 1908; J. Volkelt, A. Sch., Stoccarda 1900; 3ª ed., 1907; A. Covotti, La vita e il pens. di A. Sch., Torino 1909; Th. Ruyssen, Sch., Parigi 1911; Z. Zini, Sch., Milano 1923 (assai breve e sommario); U. A. Padovani, A. Sch.: l'ambiente, la vita, le opere, Milano 1934 (da un punto di vista cattolico). Da vedere è il saggio di Fr. de Sanctis, Sch. e Leopardi (in Saggi critici, Napoli 1866, pp. 246-99), su cui cfr. B. Croce, Saggi filosofici, III, Bari 1913, pp. 363-76.