ARTES DICTAMINUM
DICTAMINUM Nel Medioevo l'arte del comporre ebbe per oggetto principale l'epistolografia, e la scuola mirò a rendere il giovane esperto a scrivere lettere. Tutti i precetti dati dagli antichi retori sull'invenzione, la disposizione e l'elocuzione furono applicati e adattati all'epistola. Infatti, nell'antichità classica l'insegnamento letterario ebbe per base l'eloquenza; dopo le prime scuole di grammatica, il giovanetto passava a quelle di retorica, dove apprendeva l'arte oratoria. Però, nei primi secoli dell'era volgare, la lettera, che spesso era indirizzata non a una ma a più persone, venne considerata come un'orazione tenuta a gente lontana. Così l'epistola assunse un colorito oratorio e fu oggetto di speciale trattazione nelle scuole.. Tale tradizione circa la prosa ornata e l'epistolografia si mantenne viva, anche nei secoli più oscuri del Medioevo, nei monasteri benedettini dell'Italia Meridionale. I cenobî di S. Benedetto erano semenzai di vescovi, e fornivano notai e cancellieri alle curie vescovili e alla cancelleria romana. In essi si elaborò un vero corpo di dottrine per addestrare i giovani a usare il latino con una certa abilità artistica, e a scrivere lettere e i varî documenti curiali, che avevano, quasi sempre, forma epistolare. Tale insegnamento dalle scuole monacali passò a quelle dei comuni e alle università, sicché l'arte del comporre venne a basarsi sull'epistolografia. Quest'uso durò nelle scuole fino all'Umanesimo, quando, col risorgere dei metodi classici, si tornò all'eloquenza.
I libri di testo, dove i giovani per quattro secoli, dall'XI al XV, appresero le regole di questa nuova retorica, furono chiamati artes, summae, summolae, formae, rationes, ecc., dictaminum o dictandi; e dictatores furono detti i maestri e le persone esperte in tale arte. Questa denominazione ebbe origine dalla consuetudine che gli antichi avevano di non scrivere da sé le proprie opere, ma di dettarle a segretarî e a notari. Perciò il verbo dictare, fin dai tempi classici, assunse il significato più ampio di comporre, e dictamen divenne sinonimo di prosa elaborata e artistica.
Per molto tempo queste regole furono trasmesse oralmente e il primo a metterle in iscritto par che sia stato Alberico, monaco cassinese, vissuto nella seconda metà del sec. XI. Poi un altro monaco cassinese, Alberto di Mora, che fu cancelliere di Alessandro III e dei suoi successori e quindi papa, col nome di Gregorio VIII, pubblicò un'ars dictandi per uso dei notai di curia.
Col diffondersi di questo metodo d'insegnamento, le artes dictaminum vennero moltiplicandosi sempre più, ampliandosi e adattandosi ai nuovi bisogni. Il numero di quelle pervenute fino a noi è rilevante; parecchie sono ancora inedite o pubblicate solo in parte. Oltre a quelle di Alberico e di Gregorio VIII, le più celebri furono le artes del cardinale Transmundo, di Ponzio il Provenzale, di Giovanni Anglico, di Pietro di Blois, di Guido Faba, di Lorenzo d'Aquileia, di Bene da Firenze, di Boncompagno da Signa, ecc.
Varia è l'estensione e l'importanza di questi libri di testo delle scuole medievali: alcuni sono brevi e scheletrici compendî, altri ampî e farraginosi, or contengono pochi esempî, or ne abbondano; negli uni si susseguono filze di precetti e di esercizî minuti e precisi, negli altri la parte teorica si riduce a modestissime proporzioni. Alle volte non contengono se non esempî, e, in tal caso, prendono il nome di formularî. In generale le artes dictaminum abbracciano la trattazione delle varie parti dell'epistola, insistendo specialmente sulla salutatio, per la quale vengono enumerati i titoli che si debbono dare a tutte le varie dignità ecclesiastiche e civili. Ampiamente svolta è la parte che tratta l'elocutio, dove c'è un po' di tutto: precetti grammaticali e stilistici circa alcuni difetti da evitare nella prosa, regole minute sulla disposizione delle parole, sulle varie specie di costruzione, sui cursus o cadenze ritmiche da usarsi in fine di frase e di periodo, sulla punteggiatura, ecc. Tali regole sono accompagnate da esempî e da esercizî, per dar modo ai giovani di acquistare facilità nel maneggio dei varî espedienti stilistici e nell'uso del frasario diverso per i diversi componimenti epistolari. Non mancano lunghi elenchi di colores retorici, sotto il qual nome vengono raggruppati tropi e figure di ogni specie e filze di proverbî e di sentenze molto raccomandate, specialmente per adornare gli esordî.
Alcune artes, come quelle di Guido Faba e di Lorenzo d'Aquileia, si fecero notare per la saggia disposizione delle parti e la trattazione ampia e completa, e perciò ebbero grande diffusione. Non mancò qualche tentativo di dare esposizione più viva e personale alla materia in sé arida, come si può osservare nelle opere di Buoncompagno; ma, per lo più, nozioni e definizioni si ripetono con monotona insistenza e si tramandano immutate di generazione in generazione. Eppure, a leggerli, anche nei più brevi e umili compendî c'è sempre qualche cosa da imparare: in esempî, che illustrano regole grammaticali e stilistiche, s'incontrano accenni a fatti contemporanei; i modelli di lettere, vere o finte, forniscono utili notizie sulle condizioni sociali e sugli avvenimenti del tempo; spesso i formularî si rivelano fonti storiche di prim'ordine.
Critici e storici anche stranieri hanno riconosciuto l'influenza che questo metodo d'insegnamento, sorto nell'Italia Meridionale, esercitò su tutti i popoli civili d'Europa. Infatti, è sorprendente osservare la rapida e grande diffusione che ebbe. Dai monasteri passò nelle scuole comunali e nelle università, dalla curia papale passò nelle corti di Francia e nell'aula imperiale, quindi si diffuse in tutte le scuole d'Alemagna, d'Inghilterra e di Spagna. La più celebre scuola francese di retorica, la scuola di Orléans, accettò assai presto il nuovo programma d'insegnamento. I maestri Aurelianenses abbandonarono i loro metodi tradizionali per seguire la nuova ars venuta dall'Italia. Alcuni di essi divennero celebri dettatori; ma i maestri italiani conservarono sempre una certa supremazia, godettero di maggiore autorità ed ebbero fama più vasta.
Nel risorgimento economico e culturale, che s'inizia col secolo XI, l'insegnamento dell'ars dictandi corrispondeva a una necessità. Esso si sviluppa e si diffonde parallelamente a quello del diritto: ars notaria e ars dictandi vanno quasi sempre unite, e unite valicano le Alpi. La classe colta medievale è formata specialmente da giudici, notai e dettatori.
Quasi tutta la produzione letteraria medievale risente l'influsso di quest'insegnamento. Esso contribuì a plasmare quel nuovo linguaggio letterario, che è il latino medievale, il quale nei secoli XI-XIV si svolge simile a una lingua viva, con caratteristiche proprie, per cui si distingue dal latino classico e umanistico.
Le artes dictaminum italiane, con la diffusione delle regole del Cursus, crearono un nuovo tipo di prosa, chiamato stilus curiae Romanae, che ben presto s'impose a tutta l'Europa colta e spazzò via altri tentativi simili (stile tulliano, isidoriano, ilariano, ecc.) sorti di là dalle Alpi. Questa nuova maniera di scrivere fece sentire la sua efficacia anche sulla prosa letteraria delle nuove lingue romanze, specie sull'italiana. In Italia si cercò d'applicare al volgare le regole che le artes dictaminum davano per il latino.
Bibl.: v. l'ampia bibliografia sull'argomento in Harry Bresslau, Handbuch der Urkundenlehre für Deutschland und Italien, 2ª ed., Lipsia 1915. Cfr. H. Baerwald, Für Charakteristik und Kritik mittelalterlicher Formelbücher, Vienna 1858; L. Rockinger, Ueber Formelbücher vom XIII bis zum XIV Jahrh. als rechtsgeschichtliche Quelle, Monaco 1855; id., Briefsteller und Formelbücher des XI bis XIV Jahrhunderts, Monaco 1863-64; N. Valois, De arte scribendi epistolas apud Gallicos medii aevi scriptores rhetoresve, Parigi 1880; A. Gabrielli, Le Epistole di Cola di Rienzo e l'epistolografia medievale, in Archivio della R. Società Romana di storia patria, XI (1888), pp. 381-479; Ch. V. Langlois, Formulaires de lettres du XII, du XIII et du XIV siècle, Parigi 1890-98; A. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori Bolognesi da Buoncompagno a Bene da Lucca, in Bullettino dell'Istituto storico italiano, XIV (1895), pp. 85-174; F. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana del Medioevo, Milano 1899. E. v. anche G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, II, Palermo 1913; F. Maggini, La rettorica italiana di Brunetto Latini, Firenze 1913, e la recensione di C. Frati, in Giorn. stor. della lett. ital., LII, p. 432.